Mentre tutta l’Italia entra in quarantena, suono il campanello di una scuola media di Neuilly-sur-Seine, nella banlieue ricca che si estende a ovest di Parigi, fra grandi spazi verdi e villini liberty. Saluto la custode e gli assistenti didattici, poi aspetto che Romina, l’insegnante di italiano, mi venga a prendere per iniziare un laboratorio su Renata Viganò e il suo romanzo resistenziale più famoso, L’Agnese va a morire. Con Romina facciamo una pausa in sala insegnanti, mi offre un caffè e mi indica un distributore di disinfettante, mentre i suoi colleghi ci salutano perché l’intervallo è già finito. Ci congediamo poco dopo, io e Romina; vado a prendere la metropolitana ripensando alle domande intelligenti degli studenti (di tredici e quattordici anni) con cui per due ore abbiamo discusso di resistenza e della partecipazione delle donne al movimento partigiano, leggendo ad alta voce alcune delle pagine più significative dell’Agnese. «Siamo vicini alla paga, quando verrà la buona stagione», ci ricorda la partigiana, nel suo dialetto ruvido di lavandara.
Il giorno successivo, torno a casa in treno. Mi dirigo qualche centinaio di chilometri più a ovest, a Nantes. L’Italia è interamente una zona rossa: lo leggo sullo schermo del cellulare mentre il mio vagone si fa strada in mezzo alla Loira, fra i campi ricoperti dalle acque del fiume. Anche quel pomeriggio, entro in aula. Non per un laboratorio antifascista, ma per una lezione, la solita lezione, di Lingua e letteratura francese del Medioevo, alla quale partecipano studenti al secondo anno della laurea triennale (licence) in Lettere. Durante il fine settimana ho liberato il mio vecchio appartamento parigino da tutto ciò che di mio vi era rimasto: per questo mi trascino a lezione una valigia rossa piena di libri che ho accumulato negli anni e di cui, mi dico, è venuto il momento di disfarsi. Doppioni, edizioni rimpiazzate da Pléiade o da Meridiani: che gli studenti si sentano liberi di prendere quello che vogliono e di portarlo a casa propria! C’è chi sceglie un romanzo di Sollers, di Guibert o di Delibes, chi una raccolta di poesie di Aragon, ma c’è anche chi non prende nulla: « abbiamo già troppo da leggere » mi dicono « Monsieur! »
Quel pomeriggio, continuiamo a leggere il nostro Chevalier de la Charrette, avanziamo fra gli ottonari di Chrétien de Troyes per riflettere, insieme, sulla rappresentazione del corpo ferito nel romanzo medievale. Sulla lavagna, scivolano le immagini di certe miniature che ho scaricato nei giorni precedenti dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia (su quel tesoro che è Gallica): possiamo così osservare il cavaliere Lancillotto che sta sanguinando mentre attraversa il ponte della spada per penetrare nel regno di Gorre, mentre la regina lo guarda dall’alto di una torre. Una studentessa alza la mano e rileva: in questo romanzo, sembra che l’autore sia ossessionato dal corpo e dalla malattia. Glielo confermo e aggiungo che è lo stesso anche in altri romanzi. Leggiamo allora dei versi del Cligès e poi ci congediamo, dandoci appuntamento alla prochaine séance.
Il sabato successivo, vado al supermercato e, uscendo nel parcheggio, incontro uno dei miei studenti. Ci salutiamo, sorridendo: a martedì, gli dico. E poi aggiungo: forse! Domenica mattina, verso presto, esco di casa, prendo la tessera elettorale e vado a votare per scegliere il nuovo sindaco della città: il governo non ha intenzione di sospendere le elezioni, benché molti medici abbiano sconsigliato ai cittadini di andare a votare. Entro nella cabina, butto nell’immondizia le schede degli altri candidati e infilo nella busta la mia scelta. « A voté », comunica cartesiana la presidente di seggio, appena prima di salutarmi cordialmente. Due giorni dopo, anche tutta la Francia entrerà in quarantena.
Nei giorni che seguono, faccio fatica a restare concentrato. Non ho la forza per pensare a ciò che sta succedendo. Tutta la mia famiglia si trova nella zona rossa di Medicina (in provincia di Bologna), i miei nonni sono stati ricoverati, mia madre e mia zia sono serrate in casa. I tamponi dei primi due non tardano ad arrivare: sono positivi. Scrivo un messaggio a tutti i miei studenti per rassicurarli e per comunicare loro l’eccezionalità della situazione e i miei problemi familiari, assicurandoli che potrò comunque garantire la continuità del mio insegnamento. Reagiscono con comprensione e con umanità: mi fa bene sentirli vicini. Giovedì 19 marzo, cerco di preparare una video lezione, ma il file è troppo pesante e ho dei problemi a ridurne il formato. Mentre cerco, invano, di caricarlo su una piattaforma condivisa, mia madre mi telefona in lacrime: «il nonno non ce l’ha fatta».
Il giorno dopo riprendo a pensare alle lezioni. Forse può aiutarmi a lenire il dolore o almeno ad allontanarlo un po’. Creo delle cartelle condivise, le riempio di materiali: letture, consigli musicali e anche qualche suggestione cinematografica. Potrebbe essere un buon momento per scoprire il mondo medievale di Rohmer, nel suo Perceval le Gallois, o quello di Ermanno Olmi nel Mestiere delle armi. Forse anche quello di Truffaut e del suo La femme d’à côté, ripresa contemporanea del mito tristaniano.
Scelgo di registrare alcune lezioni, di un’ora ciascuna. Il modello ricalca quello di certi programmi di France Culture: la «trasmissione» si apre con una canzone moderna (di cantanti francesi che amo tanto: Barbara, Anne Sylvestre, Edith Piaf) e poi si procede come in classe, alla scoperta dei versi in antico francese di Chrétien, ma con aperture mirate ad altri testi e ad altri mondi. L’ultima lezione che ho caricato è sulla notte d’amore fra Ginevra e Lancillotto: trasmetto ai ragazzi altri materiali, articoli, documenti iconografici e collegamenti intertestuali. Me ne torna in mente uno di Maria Zambrano, che ora sembra brillare di una luce diversa: «il cuore», scrive la filosofa, «è il vaso del dolore, può custodirlo per un certo tempo ma poi, inesorabilmente, in un attimo lo offre» (Chiari del bosco).
Mentre preparo le lezioni, gli studenti ascoltano le mie registrazioni e continuano a leggere e a scrivere: mi trasmettono la loro dissertation e si preparano a redigere, da casa, quella successiva, prevista per il 31 marzo. Passo le mie giornate a correggere i loro testi e poi invio a ciascuno un breve commento con note di lettura e consigli di scrittura. E’ un lavoro lungo e faticoso, ma penso possa aiutarli. Qui in Francia gli esami sono prevalentemente scritti: la situazione è cambiata, ma non di troppo. Ci manca il contatto umano nello spazio dell’aula, ma anche prima era normale dare «compiti a casa» come questi.
Nel frattempo, mentre il nostro Dipartimento si prepara a portare avanti come può la propria attività didattica, inizio a pormi tante altre domande sulle condizioni che gli studenti stanno affrontando.
Quanti studenti non dispongono di un computer funzionante o dei supporti tecnologici adeguati? Sono certo che alcuni seguono le lezioni e scaricano i materiali che vengono loro forniti sul proprio cellulare, trovandosi in difficoltà: il divide digitale è un problema reale, amplificato ora che le biblioteche pubbliche e le sale studio sono chiuse. Tutto dipende così dalle disponibilità economiche di ciascuno e dagli strumenti tecnologici di cui si dispone.
Quanti, invece, si trovano a casa dei propri genitori o a casa di altri familiari o amici, privi di spazi adatti per studiare e per concentrarsi? Un problema significativo, a queste latitudini, poiché la maggior parte degli studenti vive in residenze universitarie che sono state quasi totalmente chiuse. Forse alcuni di loro, mi dico, sono rimasti isolati, senza i testi e gli appunti necessari per continuare a studiare. Altri, magari, si trovano a dover affrontare questo periodo nell’isolamento sociale, senza legami e contatti con gli altri. Per loro, la nostra Università ha messo in campo un servizio di ascolto psicologico, ma è bene continuare a far sentire, in tanti modi, la propria vicinanza. L’Università è uno spazio di socializzazione e di incontro indispensabile. Ora ci ritroviamo tutti più soli: studenti, dottorandi, insegnanti precari o titolari. Soli di fronte ai rischi di alienazione e di depressione che già sono frequenti in tempi ordinari e che ci dovrebbero nuovamente interrogare sul legame fra salute mentale e ricerca universitaria.
Altri, mi dico ancora, continuano a lavorare malgrado le condizioni eccezionali che stiamo attraversando. «Lavorare» ma non sui libri e sugli appunti che abbiamo messo a loro disposizione, bensì come commessi, cassieri o in altri settori indispensabili. Sappiamo, infatti, che gli studenti lavoratori sono migliaia, in Francia come in Italia: come stanno affrontando questa quarantena? E cosa significa per tutti loro (generalmente impiegati nel settore terziario) dal punto di vista economico, questa pausa forzata da lavori che sono spesso precari o in nero ma che sono anche necessari per sopravvivere?
Sono domande da tenere in considerazione, non per donmilanismo (ideologia alla quale, personalmente, aderisco con convinzione— anzi, leggiamo o rileggiamo le pagine del Priore di Barbiana in questa lunga quarantena!), ma per riaffermare un principio fondamentale: quello dell’uguaglianza.
Stiamo rimettendo in discussione, nel profondo, le nostre pratiche didattiche. Ci siamo ripensati: abbiamo ripensato il nostro ruolo; ripensato i luoghi di trasmissione del sapere e tentato di far evolvere le forme di questa trasmissione. Ma questo confino ha anche riportato alla luce l’esigenza di dare una lettura politica della didattica e di tenere in considerazione le disuguaglianze e le difficoltà di ciascuno. Perché anche nello spazio dell’Università, l’intimo deve diventare politico e i problemi del singolo devono essere affrontati dall’intera comunità:
Nel frattempo, con l’amor de lonh di Jaufré (e poi di Pasolini in una sua celebre lettera a Gianfranco Contini) si continua a lavorare di lena per garantire l’accessibilità del sapere e il benessere di tutti gli studenti, la prima delle nostre preoccupazioni in questo tempo fragile e straordinario che si apre davanti a noi. Sperando che, il prima possibile, anfiteatri, aule e corridoi tornino ad essere attraversati dal loro entusiasmo, dal loro desiderio indispensabile di imparare, di contestare e di farci domande.
2 aprile 2020
Jessy Simonini
Università di Nantes (Francia)