Non quasi, ma tutto online ai tempi del coronavirus
Se penso alla didattica a distanza ai tempi del coronavirus, le mie riflessioni partono da lontano, ovvero da un passato remoto per poi giungere al nostro presente. I due elementi s’intrecciano con la mia storia personale e la storia di un paese, gli Stati Uniti, che sta diventando l’epicentro della pandemia in corso. Il mio diario segue il ritmo delle associazioni di idee che mi stanno aiutando, da docente, a comprendere emozioni e sfide di una situazione inimmaginabile fino a un paio di mesi fa.
Ero seduta ad un tavolo del Planet Hollywood alle Cascate del Niagara, parte canadese. Stavo mangiando qualcosa di cui non ricordo niente. Attorno a me non c’erano molti tavoli occupati, ma sopra la mia testa aleggiavano degli schermi televisivi che facevano molto “film americano” e che tenevano compagnia. Ricordo che tra un boccone e l’altro il mio sguardo vagava su quegli schermi, ma senza porci troppa attenzione. Davano uno strano film: degli aerei si schiantavano contro dei grattacieli di una città forse americana. Era un film di cui non avevo mai sentito parlare. Era l’11 settembre del 2001 e, come tutti quelli che hanno vissuto quel giorno, ricordo ancora dove fossi. Ero in vacanza in Canada e quello visto sugli schermi del Planet Hollywood non era un film.
Fast forward. Dieci anni dopo vivevo nello stato di New York ad un’ora dalle Cascate del Niagara e non ero in vacanza: avevo una famiglia e un posto da insegnante in un’università del sistema SUNY (State University of New York), ovvero il sistema universitario statale di New York. Ho insegnato qui il mio primo corso completamente online. Era il 2012. Allora vivevamo in una piccola comunità su uno dei grandi laghi, dove la vita scivola ancora molto lenta, da provincia americana. Le Cascate del Niagara erano la nostra principale attrazione turistica: ogni volta che venivano a trovarci degli amici, li portavamo alle cascate, sponda americana e sponda canadese, ma non sono mai più entrata al Planet Hollywood. L’ho sempre sbirciato da lontano, come si può guardare una grossa scatola di ricordi che non si vuole aprire per paura che il passato risgorghi prepotente. Il nostro aeroporto internazionale era Toronto, adesso è il JFK.
Altro fast forward. È il 2017. Ottengo un posto da Assistant Professor a Farmingdale State College (d’ora in poi semplicemente Farmingdale), sempre parte di SUNY. Ci trasferiamo a Long Island, un’ora da New York City. Da casa nostra, in 45 minuti siamo al John Kennedy International Airport. Ricominciamo da capo con i lavori, le scuole delle figlie e gli amici, ma adesso la nostra principale attrazione turistica è New York City. Le Cascate del Niagara sono a otto ore di macchina dalla nostra nuova casa.
Fast forward. Gennaio 2020: il coronavirus inizia ad entrare nelle nostre case con più forza attraverso i media, ma è lontano. È in Cina. Ma cos’è, poi, questo virus? Non si sa niente, o poco, e forse non ci interessa nemmeno più di tanto perché sembra non riguardarci. Poi inizia ad espandersi. Febbraio 2020: il coronavirus è in Italia. Fine febbraio: la situazione sta diventando seria, ma non si capisce. Siamo confusi, forse impauriti, terrorizzati forse ancora no. Mia madre è in Toscana, nel senese. Da sola. Noi siamo qua.
Ultimo fast forward. Il 5 marzo 2020, ovvero solo un mese fa, sono al JFK per andare alla conferenza annuale della NeMLA (North East Modern Language Association) a Boston. Ci vado tutti gli anni, ma quest’anno è diverso: la NeMLA diventerà un altro 11 settembre. Quando sono atterrata a Boston, ho trovato in vendita in aeroporto delle salviette da viaggio per disinfettare le superfici. Ho comprato due pacchetti. Erano accanto a delle mascherine: che strana combinazione, ho pensato, ma sapevo che non lo era. Le mascherine non le ho prese: perché dovrei, mi sono detta. Mi sentivo narcotizzata mentre spiegavo alla commessa che venivo da New York e che lì ormai non si trovava più niente, dalle salviette igienizzanti al gel per le mani. Durante la conferenza, una presenza oscura e ingombrante è rimasta sospesa sul mio gruppo di amici e colleghi più stretti, quella stessa presenza che ha fatto poi cancellare tutte le conferenze successive con un colpo di e-mail, prima tra tutte la conferenza congiunta dell’AAIS (American Association of Italian Studies) e dell’AATI (American Association of Teachers of Italian) in Arizona, a cui molti di noi dovevano partecipare. Alla NeMLA ho presentato sulle collaborazioni internazionali realizzate online, e in Arizona avremmo portato avanti altre riflessioni relative alla didattica a distanza e alle collaborazioni interne alle università. Quando sono rientrata a Long Island da Boston già sentivo che il dramma coronavirus stava per esplodere anche da noi. Il Covid-19 non era più solo in Cina, in Italia e in Europa: il virus era sbarcato sulle coste degli Stati Uniti e chissà da quanto.
Per gli italiani, la storia aveva già preso una svolta drammatica, senza precedenti, ma dal 9 marzo anche la vita dei newyorkesi e poi degli Stati Uniti in generale ha virato in maniera brusca e inaspettata. La mia università ha avuto il suo 11 settembre il 12 marzo del 2020, quando ha chiuso i battenti per via del coronavirus. Adesso ci stiamo preparando a convertire la nostra residenza universitaria in un ospedale per far fronte all’emergenza Covid-19: Farmingdale è a disposizione dello stato di New York. Il giorno dopo, venerdì 13 marzo, ci hanno comunicato che avevamo un caso di Covid-19 all’interno dell’università. In quei giorni lo stato di New York ha decretato che, dal 19 marzo, tutti i corsi del sistema universitario statale, incluse le università statali della città di New York (CUNY), sarebbero stati insegnati online. Senza se e senza ma. Quella del 19 marzo era la settimana della nostra pausa primaverile (lo Spring Break), che noi docenti aspettiamo per quella boccata d’ossigeno che ci permette di riprendere in mano la ricerca. Quest’anno abbiamo respirato un’aria inquinata dal virus e abbiamo usato la settimana di vacanza per prepararci ad insegnare online.
Durante la pausa primaverile mi sono ritrovata a formulare pensieri e riflessioni sull’11 settembre, che mi parevano appropriati alle circostanze. Nel 2001 prendemmo atto che le nostre libertà sarebbero state limitate e che il mondo aveva dei problemi con cui fare i conti. Ancora oggi risentiamo di quelle limitazioni: non possiamo portare liquidi in aereo, dobbiamo toglierci le scarpe, ci controllano i dispositivi elettronici, e così via. Ma stavolta è diverso. Le nostre libertà sono colpite al cuore, i nervi più sensibili lasciati allo scoperto. Avevamo la libertà di recarci all’università e insegnare nelle aule universitarie. Avevamo la libertà di uscire per vederci con gli amici, andare a mangiare fuori, andare in biblioteca, al cinema o a teatro. La libertà di andare a fare la spesa anche ogni giorno e trovare la farina, il lievito e la carta igienica, di andare dal medico, di prendere un aereo, di passeggiare. La libertà di ordinare online qualsiasi cosa e riceverla in tempi ragionevoli. La libertà di vivere una vita libera adesso non ce l’abbiamo. Dobbiamo fare i conti con un isolamento forzato che acuisce le nostre paure, le differenze sociali, le differenze politiche, le disuguaglianze economiche. Il virus non rappresenta solo la peste del XXI secolo – e per fortuna, rispetto a Renzo e a Lucia, abbiamo la rete –, ma gli Stati Uniti si confermano come una società senza ammortizzatori sociali, con assicurazioni sanitarie solo per chi se le può permettere e con accesso ai generi alimentari solo per chi ha ancora un lavoro e tra questi coloro che hanno la fortuna di lavorare da casa e continuare a percepire uno stipendio (in genere, la classe media e medio-alta). Nonostante quello che gli Stati Uniti vogliono proiettare all’esterno, questa situazione mette in evidenza ancora una volta come una gran parte della popolazione non abbia accesso a dispositivi elettronici o a internet (Farmingdale e moltissime altre università e scuole si stanno dando da fare per procurare dispositivi elettronici ai loro studenti) e come si viva in una società senza troppa educazione universitaria e post-universitaria. Se penso a quello che accadrà dopo che il virus avrà fatto il suo corso (anche la fase acuta della pandemia del 1918 alla fine si esaurì), penso al 2008 e poi al 1929, ma allora non si parlava, specialmente e ovviamente per il 1929, di didattica a distanza.
Queste riflessioni mi portano finalmente ad oggi, al 2020, e a cosa stiamo facendo con la didattica. Le mie figlie di sette e dieci anni fanno scuola online con molta facilità, ma molti insegnanti, dai maestri elementari ai docenti universitari, sono in difficoltà a gestire la classe digitale e a superare scogli non solo tecnologici, ma anche pedagogici. Prima di entrare nel merito della didattica a distanza ai tempi del coronavirus, che doveva essere l’argomento centrale di queste riflessioni partite da lontano, sarà importante spiegare la peculiarità della mia università, dove il nostro anno accademico è diviso in due semestri di 14 settimane ciascuno e con gli esami finali fatti nella quindicesima settimana. Farmingdale è un’università tecnologica dove non ci si può laureare in discipline tradizionali come storia, lingue, scienze politiche, antropologia, inglese, filosofia, storia dell’arte e sociologia, ma in materie quali ingegneria, scienze applicate, psicologia applicata, scienze infermieristiche, igiene dentale, aviazione, scienze aziendali, giustizia criminale, orticultura, solo per citarne alcune. Come docenti di Farmingdale, per contratto dobbiamo insegnare quattro corsi a semestre (otto corsi per anno accademico) e, di questi, la metà possono essere completamente online. L’università ha poco meno di 10.000 studenti e quasi nessuno vive nel campus: la stragrande maggioranza vive a Long Island e a New York City, al momento epicentro del coronavirus negli Stati Uniti (ad oggi, sembra che una persona su 12 affetta da Covid-19 negli U.S.A. si trovi nelle contee di Nassau e Suffolk a Long Island, che geograficamente include anche Brooklyn e Queens). I nostri studenti non sono studenti tradizionali, ovvero non sono studenti che si sono iscritti all’università subito dopo le superiori, ma sono studenti più maturi che spesso già lavorano a tempo pieno o hanno già una famiglia; molti di loro sono i primi a frequentare l’università nelle loro famiglie di origine; molti altri sono immigrati di prima generazione; molti non appartengono a classi sociali medie o elevate; moltissimi hanno contributi finanziari che gli permettono di frequentare l’università (e nonostante questo, al termine degli studi saranno indebitati per molti anni a venire).
Prima del coronavirus, Farmingdale era in piena espansione, tanto che non avevamo spazio fisico per insegnare. Mancavano le aule. Allora sono iniziati gli incentivi finanziari per far insegnare corsi online e corsi ibridi (50% online e 50% in aula). Per quanto mi riguarda, sin dal mio arrivo a Farmingdale, ho utilizzato gli incentivi per trasformare i corsi da frontali (face-to-face o F2F) a distanza (completamente online o ibridi), e quest’anno insegno, in inglese, un corso totalmente online di cultura italiana e tre corsi ibridi di storia della gastronomia italiana, cinema internazionale e cinema italiano. Tre di questi corsi (incluso quello 100% online) soddisfano i requisiti per l’apprendimento applicato (applied learning). Sarà importante sottolineare che per i tre corsi ibridi avevo già dovuto preparare la piattaforma digitale come se fossero dei corsi offerti completamente online, e mi concentrerò su questi tre corsi perché hanno rappresentato il passaggio da quel 50% in aula al 100% online.
Prima di tutto: come insegniamo online a Farmingdale? I nostri corsi vengono organizzati e gestiti attraverso Blackboard (una specie di Moodle, ma a pagamento) e i miei corsi sono tutti lì. Prima del virus non c’era tutto il mio materiale, ma c’era già tanto. Avevo già tutti i moduli organizzati settimanalmente, il registro digitale con i voti impostato e aggiornato, i compiti assegnati settimanalmente. Insomma, il mio passaggio da quello che si definisce didattica frontale a didattica a distanza è stato indolore. Quello che ho deciso di fare con quel 50% che è passato da F2F a completamente online nei corsi ibridi è stato di lasciarlo asincrono, ovvero non m’incontro con gli studenti su Google Hangouts Meet (la piattaforma che utilizziamo a Farmingdale, specialmente dopo i problemi di privacy che sta avendo Zoom) né su Collaborate Ultra (simile a Google Hangouts Meet, ma parte di Blackboard), anche se quest’ultimo lo utilizzo per il ricevimento a distanza degli studenti. Perché ho deciso di non fare lezioni sincrone? Essenzialmente per lasciare gli studenti più liberi: molti miei studenti lavorano, hanno famiglie di cui occuparsi, figli a cui insegnare (anche mio marito ed io dobbiamo supportare le nostre figlie in questo periodo d’insegnamento e apprendimento a distanza), a volte problemi di connessione ad internet. Quello che sto facendo è sostituire il materiale che avrei presentato e discusso in classe, inclusi video o parti di film in mp4 scaricati dal web, con lezioni registrate sottotitolate (non troppo lunghe, però, altrimenti il livello d’attenzione diminuisce) usando Screencast-O-Matic (https://screencast-o-matic.com/), che almeno in inglese permette di aggiungere i sottotitoli alle mie lezioni. Le discussioni tra gli studenti e tra me e gli studenti avvengono online su Blackboard. Le valutazioni le faccio con delle griglie (rubriche) condivise con gli studenti sin dall’inizio del semestre. Abbiamo appena terminato la prima settimana completamente online e il 95% dei miei studenti sono stati puntuali con le consegne degli elaborati, ma devo ammettere che i miei studenti erano già abituati alla didattica a distanza (non dimentichiamoci che, nei corsi ibridi, il 50% del lavoro viene completato online). In realtà, sia a me che a loro è cambiato poco, se non che non ci vediamo per quei 75 minuti a settimana in un’aula universitaria.
Cosa ho imparato insegnando a distanza ormai da qualche anno:
Specialmente al tempo del coronavirus, non mi risparmio nel rassicurare sul fatto che, come insegnanti, faremo del nostro meglio per far completare il semestre agli studenti, sia a quelli che devono laurearsi sia a quelli che hanno ancora della strada da fare. No, non sto dicendo ai miei studenti che andrà tutto bene, perché alcuni di loro si ammaleranno: già uno di loro ha contratto il virus, ma si deve laureare e ce la sta mettendo tutta per finire i corsi. Altri studenti vedranno ammalarsi o morire famigliari e amici: l’11 settembre a New York e a Long Island è stato questo, ovvero molti, se non tutti, hanno avuto qualcuno che ha perso la vita quel giorno o nei giorni e anni successivi. Altri miei studenti perderanno il lavoro, se non lo hanno già perso: ho già accennato alla mancanza di ammortizzatori sociali. Una volta che l’emergenza sanitaria sarà finita (it shall pass, come si dice in inglese), la crisi economica, con le sue fortissime disuguaglianze sociali ed economiche, sarà così acuta che probabilmente ci vorranno anni per riprendersi anche a livello globale. Non andrà tutto bene, ma ce la faremo. La storia ce lo ha dimostrato e ci insegna che, dopo una crisi, ci sarà una rinascita, anche se ci vorrà del tempo per rialzarsi. Ed è questo che insegno alle mie figlie e ai miei studenti, adesso a distanza, che united we stand e che ce la faremo.
5 aprile 2020
Chiara De Santi
Farmingdale State College, SUNY
Long Island, U.S.A.