Mai come nel frangente attuale, il dibattito sulla didattica nelle scuole e nell’istruzione superiore è stato brutalmente superato dalle circostanze. La normale inerzia del sistema d’istruzione – un’inerzia che spesso è stata salvaguardia della tradizione a fronte di un vuoto filoneismo, ma che non ha mancato di sedimentarsi in una refrattarietà a qualunque cambiamento – è stata travolta dall’impossibilità di fare altro, per continuare la nostra professione, che di adottare modalità “a distanza”. È questo lo scenario in cui si pensa, in cui s’insegna e in cui si apprende, perché se l’e-learning può passare nell’impalpabile materialità dei bit, il dibattito deve necessariamente incarnarsi nella comunità accademica, nei suoi entusiasmi e nelle sue idiosincrasie. Ribadisco: nella comunità accademica, perché, come qualunque prospettiva didattica, anche l’e-learning si differenzia profondamente a seconda dei contesti nei quali si realizza e che, in alcuni casi, crea, ma la mia esperienza si limita all’ambito universitario, sia come studio, sia come didattica. Per questo, quelle che seguono sono mere considerazioni che condivido per iniziare, con chi lo vorrà, un confronto riguardo a ciò che avviene, qui e ora, nelle università.
Una prima considerazione: la situazione non è propizia. Non credo affatto che un dibattito sereno possa svolgersi in emergenza, nonostante questa possa favorire la presa di coscienza di alcuni aspetti della vita accademica a cui, collettivamente o individualmente, si era messa la sordina. Qualunque ambito – e la didattica non fa certo eccezione – richiede desiderio di studiare, disponibilità a imparare, cortesia per mettersi in discussione, specie perché interrogarsi sul come s’insegna tocca le corde sensibili, a volte ipersensibili, di chi è docente da molto tempo. La suggestiva immagine del carattere artigiano della professione, infatti, s’accompagna in alcuni casi alla convinzione che per apprenderne le maniere siano stati sufficienti gli anni in cui si è stati seduti dietro i banchi, costruendo, a partire dalla propria esperienza, un’ideale di lezione, di rapporto con gli studenti, di cornice nella quale si opera, elementi rispetto ai quali qualsivoglia mutamento è vissuto come una capitis deminutio maxima di se stessi in quanto docenti. Non credo che la nostra competenza sia messa in discussione da così poco: sarebbe averne una considerazione assai mortificante, finanche un po’ meschina.
Una seconda considerazione: smetterla di voler fare le stesse cose – e di essere frustrati per non poterle fare. Per quanto naturale, specie in un momento di spaesamento, il cercare affannosamente di escogitare stratagemmi per replicare lo svolgimento della lezione in presenza in ambienti di e-learning può essere esiziale tanto per noi, quanto per i nostri studenti. Per noi, perché, banalmente, ciò non è possibile, dato che ambienti differenti richiedono differenti accorgimenti, presentano criticità specifiche e hanno potenzialità peculiari. Per i nostri studenti, giacché sono i più sottili esegeti delle nostre posture ed è difficile, se non impossibile, celare insofferenza o sufficienza rispetto a ciò che si fa. Non c’è dubbio, la quarantena vale per tutti, ma noi siamo dei privilegiati e non mette conto di specificare i tanti motivi per i quali tutto ciò che accade nel nostro Paese e in buona parte del mondo c’investa in modo differente. Mai come ora, adattandoci e reinventandoci, possiamo rappresentare un giroscopio per chi ci ascolta, per chi decide di condividere un brandello della sua reclusione, per ognuno diversa, con noi, eleggendoci a interlocutori. In Italia e all’estero, le buone pratiche costruite negli anni non mancano, la ricerca è ampia e plurale, tante e tanti sono coloro impegnati nelle elaborazioni teorica e nelle prassi sul campo. Non siamo teatranti ed è sempre opportuno ricordare che «le mieux est le mortel ennemi du bien»; si possono fare errori e passi falsi, ma il peggior tradimento sarebbe credere di non poter imparare da questi.
Una terza e ultima considerazione: rifuggire da fughe anticipatorie. A seconda delle regioni, l’interruzione dei corsi in presenza risale a poco più di un mese fa, eppure tanto è bastato per innescare fosche previsioni sul futuro dell’università, sull’invadenza dell’e-learning (generalizzando dove, invece, dovrebbero esserci cauti distinguo), sulla minacciosa ombra delle multinazionali. Sinceramente, mi sembra tutto assai sopra le righe, presentandosi come una strana mescidanza di allarmismo e scarso, o assente, senso della misura. Non si tratta, certo, di slanciarsi con acritica e irragionevole foga nel vasto mare delle didattiche “a distanza”, perché «non men che saver, dubbiar m’aggrata». L’interrogarsi su ciò che provoca un vero e proprio cambio di paradigma, pur temporaneo, come quello implicato dalla trasformazione delle modalità con cui svolgiamo i nostri insegnamenti è, non soltanto legittimo, ma anche salutare – e sarebbe bello se fosse un’incertezza serpeggiante nella nostra quotidianità di docenti. Pur tuttavia, non basta, durante una nostra lezione, una domanda ben posta da uno studente, in video o in chat, per ricordarci perché abbiamo intrapreso questa professione e perché, nel pencolare di tanti altri aspetti della nostra quotidianità, si scelga di essere ancora delle presenze singolari in questa distanza impersonale?
6 aprile 2020
Carlo Cappa
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Collège International de Philosophie – Paris