Marcella Di Franco - Poiein tra visuale e virtuale

Poiein between visual and virtual

     1.  Alle radici della parola poetica

     Il termine ‘poesia’, dal latino ‘poesis’ e dal greco ‘poiesis’,  significa in entrambe le lingue classiche, ‘creazione’. La derivazione etimologica getta luce immediata sulla poesia da intendersi essenzialmente come ‘atto creativo’. Ma la creazione poetica presuppone alle sue origini l’uso della ‘parola’ intesa come segno, espressione o comunicazione, senza la quale la stessa esperienza creativa non potrebbe darsi in alcun modo. Alla parola è a sua volta implicitamente connessa l’idea di ‘esistere’ o ‘entrare nell’esistenza’ attraverso l’atto del ‘nominare’.

   Quando, ad esempio, pensiamo ad un nome proprio si genera nella mente umana un’immagine che immediatamente rimanda alla persona familiare o conosciuta a cui quel nome è attribuito. Possedere un nome significa essenzialmente esistere. Anche l’espressione latina ‘mihi nomen est…’ accosta lucidamente il sostantivo ‘nomen’ al verbo ‘esse’ intimamente collegati al dativo di possesso. Nominativo è il soggetto stesso a cui quel nome appartiene. Fino a quando l’individuo ‘è chiamato’, mediante un nome, egli cioè esiste.

   Persino le epigrafi più scarne e minimaliste sulle tombe riportano sempre, ieri come oggi, il nome personale e il cognome come estremo e patetico atto di ‘richiamare’ non più alla vita, ma alla memoria di chi continua ad esistere, chi non c’è più. La parola è quindi indissolubilmente legata alla vita e alle sue origini. Dove c’è silenzio, c’è assenza di vita, ossia la morte. Non è un caso che spesso si dica che la poesia è ‘immortale’ o, come sentenziava Publilio Siro, «La parola è specchio dell’anima», quest’ultima ritenuta eterna in molte confessioni religiose. L’attestazione più evidente è nelle antiche civiltà orientali, babilonese ed egizia, ma soprattutto nella Bibbia, il ‘Libro dei libri’, testo sacro agli ebrei e ai cristiani, che, nell’Antico Testamento, quando si descrive l’origine dell’universo, adopera il binomio creazione - parola: «I cieli furono ‘creati’ dalla ‘parola’ di Dio».

     Similmente nella Genesi (1, 3-5) si legge:  

 

Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce ‘giorno’ e le tenebre ‘notte’. E fu sera e fu mattina: primo giorno.

 

     Anche Percy Bysshe Shelley scrive: «Diede all’uomo la parola e la parola creò il pensiero». E ancora nella buona Novella o Vangelo di Giovanni (1,1): «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».

   Il Verbum è la parola per eccellenza anche nella riflessione metalinguistica: senza di esso, espresso o sottinteso, non è possibile formulare alcun pensiero di senso compiuto. Anche la parola ‘fato’, destino, deriva dal verbo latino ‘fari’ che significa ‘parlare’ e ‘profetare’. La parola, attraverso i secoli, è stata ritenuta pertanto capace di ‘creare’, ‘fare’: poiein.

   L’essere umano possiede oltre all’intelligenza, il dono della parola ossia quello di creare, nel senso più ampio del termine, attraverso il linguaggio particolare e specifico della poesia. Le parole sono la forma più perfetta e compiuta di una serie di messaggi, segnali o immagini con cui l’uomo ha cercato di trasmettere agli altri il proprio pensiero. È sua peculiare prerogativa riflettere su se stesso, sul suo mondo, interiore ed esteriore, esprimere le sue riflessioni, conferendo alla realtà, per mezzo della parola, nuovi significati.

   Se nello specifico cerchiamo sul vocabolario il termine ‘poesia’, troveremo varie definizioni: «Arte e tecnica di esprimere in versi esperienze, idee, emozioni, fantasie» oppure: «L’arte di fare versi o di rappresentare per mezzo delle parole cose e fatti con verità e bellezza». Mentre per l’artifex della poesia, poeta o poetessa che sia, troveremo: «Persona dotata di grande sensibilità ed immaginazione la quale scrivendo, in prosa o in versi, sa interpretare poeticamente la realtà o perseguire ideali ritenuti dai più utopistici».

   La poesia è dunque antica quanto la comparsa dell’uomo sulla terra e appartiene ai primordi stessi dell’umanità. Ma l’età dell’uomo in cui il potere di rappresentare attraverso l’immaginazione è amplificato al climax, è senz’altro l’età dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza, quando si ‘scopre’ e ‘svela’ pian piano il mondo, come la tenda di un sipario che si apre. Il poeta cileno, Pablo Neruda, tra i maggiori del Novecento, premio Nobel della letteratura nel 1971, scrisse in Memoriale d’Isla Negra (1964), attraverso semplici, ma suggestivi versi autobiografici, che la poesia «venne a cercarlo» fin da ragazzo, indicandogli una strada da seguire, all’inizio misteriosa e incerta, ma fortemente seducente:

 

Fu a quell’età… Venne la poesia

a cercarmi. Non so, non so da dove

uscì, dall’inverno o dal fiume.

Non so come né quando, […]

era lì senza volto

e mi toccava.

 

Io non sapevo che dire, la mia bocca

non sapeva

nominare […].

Scrissi la prima linea vaga,

vaga, senza corpo, pura

sciocchezza,

pura sapienza di chi non sa nulla,

e vidi d’improvviso

il cielo […]

l’universo.

 

Ed io, essere minimo,

ebbro del grande vuoto

costellato,

a somiglianza, a immagine

del mistero

mi sentii parte pura

dell’abisso,

rotolai con le stelle,

si sciolse il mio cuore nel vento.

 

      2.  Conoscenza, libertà, ineffabilità e immaginazione poetica

     La poesia come forma di ‘conoscenza’: fu questa la sua funzione primordiale, di ampliare la conoscenza dell’universo, del mondo, della natura e dei suoi  fenomeni attraverso l’armonia delle parole. La poesia è infatti essenzialmente fondata sul ritmo musicale che nel verso nasce dal modo con cui le parole, le sillabe toniche e atone, sono concatenate tra loro. Ma non è il semplice  ritmo, le rime, la musicalità un sistema esaustivo per definirla, altrimenti basterebbe mettere due parole in rima baciata ossia in perfetta uguaglianza di suoni terminali, per illudersi di avere composto una poesia, e non un semplice ghiribizzo letterario. La visualizzazione e la lettura della poesia, dal sanscrito ‘vidia’ (conoscenza intuitiva) e dal latino ‘video’ è invece strettamente correlata al concetto di conoscenza, o ‘eidos’ platonica come idea ‘visiva’ o ancora meglio ‘rivelazione’. Questo concetto fu ben ribadito da Italo Calvino in Lezioni americane:

 

Dalla magia rinascimentale d’origine neoplatonica parte l’idea dell’immaginazione come comunicazione con l’anima del mondo, idea che poi sarà del Romanticismo e del Surrealismo. Quest’idea contrasta con quella dell’immaginazione come strumento di conoscenza, secondo la quale l’immaginazione, pur seguendo altre vie da quelle della conoscenza scientifica, può coesistere con quest’ultima, e anche coadiuvarla, anzi essere per lo scienziato un momento necessario per la formulazione delle sue ipotesi. Invece, le teorie dell’immaginazione come depositaria della verità dell’universo possono andare d’accordo con una Naturphilosophie o con un tipo di conoscenza teosofica, ma sono incompatibili con la conoscenza scientifica. A meno di separare il conoscibile in due, lasciando alla scienza il mondo esterno e isolando la conoscenza immaginativa nell’interiorità individuale.1

 

     Anche la scienza dunque nel formulare le sue ipotesi più impensate non può paradossalmente prescindere dall’immaginazione. Persino Albert Einstein, scienziato e non poeta, si soffermò sorprendentemente sulla possibilità di conciliare scienza e immaginazione:

 

L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione.2

 

La poesia divenne propriamente ‘visiva’ e plastica nei calligrammi del Seicento, ripresi dai carmi figurati di Guillaume Apollinaire, come in  Coeur couronne et miroir (Cuore corona e specchio):

 

Mon cœur pareil à une flamme renversée / Les rois qui meurent tour à tour renaissent au cœur des poètes / Dans ce miroir je suis enclos vivant et vrai comme on imagine  les anges et non comme sont les reflects. 3

Il mio cuore simile a una fiamma rovesciata / I re che muoiono volta per volta rinascono nel cuore dei poeti / In questo specchio io sono rinchiuso vivo e vero come si immaginano gli angeli e non come sono i riflessi. [vedi fig. 1]

 

     Ma le estreme conseguenze della poesia visuale o grafica si rintracciano nel primo ventennio del Novecento, con il Futurismo, fondato da Filippo Tommaso Marinetti, in cui le parole sono disposte in assoluta libertà, in nome di una «immaginazione senza fili». Si pensi alla poesia Zang Tumb Tuum. Adrianopoli, ottobre 1912 in cui un episodio della guerra d’Africa viene rappresentato in chiave fonosimbolica e grafico-visiva quasi trasformandosi in un’immagine artistica o poesia visuale. [vedi fig. 2]

 

     La poesia anche come forma di ‘libertà’ perché il suo secondo aspetto è l’assoluta libertà di chi scrive, lo ‘scarto’ rispetto alle regole del linguaggio ordinario per cui le parole sono adoperate con significati diversi da quelli abituali fino ad arrivare a stravolgerne il significato corrente. Le parole comuni hanno una funzione ‘referenziale’ in quanto descrivono la realtà come appare agli occhi di tutti o dei più, riferiscono un messaggio su cose o realtà viste in sé e per sé, oggettivamente intese. Per il poeta, invece, anche le cose più piccole, in apparenza banali e insignificanti, hanno spesso risonanze nell’animo che non possiedono per le persone comuni. Il poeta con la sua fantasia libera e la sua sagace sensibilità rintraccia sensi ulteriori e significati più dilatati o profondi. Egli trasforma le regole comuni esprimendo i suoi contenuti sentimentali, intellettuali e morali attraverso il linguaggio non denotativo, ma connotativo. Questo linguaggio è quello figurato, fatto di traslati o tropi, nel senso di ‘altro da sé’, dal verbo greco ‘trepo’ che significa ‘volgere’, ‘mutare’, il che avviene quando un termine o  una frase, se usata ‘impropriamente’, può determinare effetti inconsueti di trasferimento di significato, capaci però di illuminare squarci di verità sul rebus insoluto della vita. A tal fine il poeta adopera il linguaggio nella sua ‘funzione emotiva’ che mette in risalto i particolari sentimenti e affetti che può innescare la realtà facendo scoprire rapporti analogici e segreti fra cose anche molto distanti tra loro. La poesia esprime l’ineffabile ovvero ciò che è indicibile per la maggior parte degli uomini comuni. La poesia come ‘ineffabilità’ perché il suo terzo aspetto specifico è di manifestare sentimenti, sensazioni, emozioni sperimentate  che non sempre si riesce a trasferire in parole adeguate. È il ‘fanciullino’ pascoliano di matrice decadente che sopravvive nel profondo di ogni uomo:

 

È  dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi […], ma lagrime ancora e tripudi suoi […] Egli è quello che […] esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime e ci salva. 4

 

Il ‘fanciullino’ riesce ancora a stupirsi delle piccole cose di fronte alle quali l’adulto rimane indifferente, come se le vedesse per la prima volta, con ingenuo stupore e meraviglia, similmente a quanto probabilmente accadde al primo uomo all’alba della creazione. Il poeta - fanciullino, conservando intatta la sua facoltà d’immaginazione, dà il nome alle cose sottraendosi ai meccanismi della comunicazione usuale per riscoprirle nella loro freschezza originaria, alogica e prerazionale. Mentre nell’uomo comune la voce del fanciullino si va sempre più smorzando finché viene soffocata e obliata del tutto, il poeta solitario, separato dal ‘gregge’ umano, continua a darle ascolto, imperterrito e imperturbato. La sua capacità è quella di scoprire l’anima, l’essenza pura delle cose, di percepirla in modo intuitivo e di esprimerla attraverso versi brevi e folgoranti, come accade nelle poesie ‘frammento’.

     

La poesia come ‘immaginazione’ e ‘rappresentazione’, altri due termini - chiave per scavare più a fondo nella sua profondità ancestrale: essa è uno dei modi possibili scelti dall’uomo per offrire agli altri l’immagine di sé e del mondo che si riverbera nella mente di chi la riceve come un qualcosa di originale, inventato, divergente, straordinariamente complesso, perché prepotentemente autentico. Mentre il pittore per esprimere il proprio universo interiore intinge i suoi pennelli  nella tavolozza dei colori, il musicista usa le note, lo scultore vari materiali (dal marmo, alla creta, al legno etc.), il poeta plasma come suo materiale impalpabile le parole disponendole entro un sapiente sistema reticolare perfettamente organizzato, una costruzione sintattica coerente e integrata di segni che diventano ‘vettori’ di senso. Un sistema è infatti un insieme di elementi (suoni, ritmi, parole) organicamente strutturati e ordinati in modo tale da intessere relazioni e rapporti reciproci significativi, tanto che la sostituzione di un elemento con un altro o il suo spostamento, produrrebbe una modificazione del sistema stesso e quindi altererebbe il significato globale del testo, simile ad un puzzle  in cui ogni tassello ha una sua posizione definita e indispensabile per comporre l’immagine complessiva.

     Si potrebbe obiettare che anche il ‘linguaggio quotidiano’ è fatto di parole che raccontano, descrivono, esprimono giudizi, sentimenti, impressioni sulla vita, ma resta pur sempre molto diverso dal ‘linguaggio poetico’ per la sua voluta ‘ambivalenza’, perché in poesia ogni parola può assumere un significato che supera quello letterale acquistando un ‘valore aggiunto’ che la prosa non possiede. Lo ‘stacco’ è determinato dalla diversità formale, dalle differenti modalità espressive, nonostante l’apparente identità di contenuto. Il linguaggio poetico non è infatti quasi mai  realistico, serve più a suggerire che a svelare ossia definire chiaramente immagini e stati d’animo; racchiude un significato ‘polivalente’ che abbraccia ed evoca simultaneamente più immagini e sensazioni. A tal fine si avvale di particolari forme espressive, le figure retoriche di suono, quando concernono l’aspetto fonico – ritmico delle parole, quelle sintattiche, quando riguardano l’ordine e la disposizione dei termini nelle frasi,  e infine di significato quando rinviano al livello semantico dei vocaboli, allo spostamento di significato che si configura come scarto dalla norma per caricare il testo di particolari sfumature di senso.

      In questa direzione Giacomo Leopardi distingueva acutamente i ‘termini’ dalle ‘parole’: mentre i primi sono quelli scientifici, tecnici e aridi che delimitano le cose senza lasciare spazio alla fantasia, le seconde attengono a tutto ciò che è vago, indefinito, lontano o ignoto. Le parole poetiche per il loro carattere indefinito possiedono una maggiore carica suggestiva, cioè sono più poetiche di altre, per le idee vaste, indefinite e indistinte che suscitano (come: ‘lontano’, ‘notte’, ‘antico’, ‘ultimo’,  ‘eterno’, ‘oscurità’, ‘profondo’) sono poetiche perché  «evocano alla memoria  sensazioni che ci hanno affascinato da fanciulli e che ci proiettano verso piaceri indefiniti e perciò infiniti». Il bello poetico consiste nel vago e nell’indefinito (Zibaldone, n.1789).  

      Non è superfluo ricordare che anche per lo strutturalista russo Roman Jakobson5 un testo letterario, rispetto ad un comune messaggio, racchiude in sé ulteriori significati aggiuntivi - polisemia del testo - resi attraverso gli elementi fonici, ritmici, metrici e sintattici che esaltano il significato del messaggio. Le funzioni delle lingua da lui individuate sono sei delle quali solo alcune sono propriamente applicabili al linguaggio poetico. La prima è specificamente quella poetica la quale si propone di arricchire il messaggio denotativo, di base, di significati ulteriori, di connotazioni o altre valenze semantiche. Ne deriva un linguaggio suggestivo, aperto a sempre nuove e diverse interpretazioni (sincroniche e diacroniche) del fruitore in base alla sua cultura, sensibilità e competenza letteraria, nonché all’epoca in cui vive.

     La seconda è la funzione emotiva che ha lo scopo di esprimere opinioni, sentimenti ed è incentrata sull’emittente; la terza, ma non ultima per importanza, è la funzione fatica che si propone di stabilire un contatto tra emittente e ricevente, se intende trasmettere un insegnamento, una sollecitazione o un ammaestramento. La poesia è pertanto un testo, come dice anche il Sabatini  «poco vincolante» 6 in quanto è aperto a molteplici interpretazioni da parte del destinatario.

 

     3. Il linguaggio poetico

     La contrapposizione tra prosa e poesia, più marcata nei secoli trascorsi, divenne molto più sfumata a partire dal XIX secolo.  La retorica, ad esempio, come ‘fondamento’ della teoria degli stili faceva parte integrante dell’antichità, data l’importanza che aveva nella formazione culturale del tempo. La conoscenza del materiale retorico tradizionale e degli elementi stilistici codificati diventava quindi importante agli effetti della comunicazione letteraria in quanto «agevolava l’incontro testo-destinatario e favoriva la comunicazione letteraria». 7 Non serviva riconoscere una figura retorica se non se ne sapeva cogliere l’effetto sulla comunicazione. La retorica antica e medievale distingueva nettamente la prosa dalla poesia in relazione al contenuto e alle tecniche usate. I due generi si fondavano su leggi, canoni, schemi, modi tipici e convenzioni codificati e stratificati nel corso del tempo che miravano al raggiungimento della perfezione dello stile. Il ‘canone’ letterario era inteso come un insieme di norme o di testi esemplari che avevano un significato particolare per una comunità e che erano reputati degni di essere osservati e tramandati. Emanati da un autore eccellente o da un’autorità che gli conferiva credibilità, i canoni si basavano su principi etici, estetici e gnoseologici.8

     Ma presto ci si accorse che non sono le regole a far nascere l’opera d’arte, cosicché, a partire dall’Ottocento, con l’avvento del Romanticismo, le forme poetiche tradizionali e le rigide normative vennero gradualmente abbandonate. Il Novecento poetico italiano fu caratterizzato dal fenomeno del verso libero e sciolto fino alla totale dissoluzione di quell’insieme di regole ed artifici retorici e tecnici che aveva dominato e disciplinato la lirica italiana fin dalle sue origini nel Duecento, restituendola alla sua libertà da norme vincolanti e stereotipate.

      Nel nostro secolo, infatti, molte pagine in prosa racchiudono un alto valore lirico e poetico, mentre molta poesia assume un andamento prosastico di poesia - racconto, svincolata dalle regole metriche tradizionali. Tuttavia la prosa ancora oggi risulta più aderente alla realtà, ha un carattere oggettivo, riflessivo o narrativo. La poesia, invece, si presta di più all’effusione della fantasia e del sentimento sollecitato da qualche evento interiore o esteriore. La poesia ha una forte connotazione introspettiva, psicologica, simbolico - evocativa. Per Hegel il genere lirico è tipico delle età evolute, in cui l’uomo riflette su se stesso.9 A seconda delle sue caratteristiche, degli argomenti trattati, della tecnica metrica adoperata, delle tendenze letterarie, il genere lirico assume le denominazioni proprie della classificazione dei generi letterari.

     Una tendenza che si è sviluppata nel Novecento, a partire dalla metà degli anni ’70 fu in Italia quella neo-orfica di Andrea Zanzotto. Il poeta torna ad essere di nuovo un vate, un sacerdote, la cui religione è la bellezza, la cui funzione è svelare la verità. Pur nel crollo di ogni certezza, nel poeta c’è il bisogno di risalire alle radici del linguaggio, luogo incorrotto della civiltà, genuino e intatto nelle sue pulsioni vitali.

     Un altro aspetto da sottolineare è che il poeta è un emittente particolare in quanto ha una consapevolezza dello strumento che usa, la lingua, e delle sue potenzialità, che non permette a chi riceve il messaggio (il lettore) di ignorare il codice a cui l’affida. Ma perché si attui la comunicazione letteraria è richiesto che il destinatario abbia competenza di convenzioni, codici e regole del sistema. Opere in cui appariva evidente in modo particolare il ricorso alla retorica (ma naturalmente in tutte le opere è possibile scorgerlo) erano quelle degli autori latini di carattere oratorio e poetico. Nelle prime era infatti prevalente la funzione conativa, il suo uso era finalizzato proprio alla persuasione dell’uditorio, nelle seconde contribuiva ad esaltare i valori supplementari (emozionali, allusivi etc.) propri della funzione poetica. Ricordiamo ancora che, sempre secondo la teoria dell’informazione di Jakobson, ad ogni elemento della comunicazione corrisponde una funzione: all’emittente quella emotiva, al destinatario la conativa, al contesto la referenziale, al contatto la fatica, al codice la metalinguistica ed al messaggio quella poetica. Rintracciare l’uso e l’effetto del mezzo retorico, analizzare la lingua privilegiandone l’aspetto semantico, prestare attenzione agli aspetti stilistici e formali fornisce i mezzi per spiegare i procedimenti compositivi  di un’opera letteraria.

 

     4.  Dalla poesia cartacea alla digitalizzazione informatica

     La poesia delle origini, quando ancora non esisteva la scrittura, nella sua fase per così dire ‘preistorica’, era affidata esclusivamente all’oralità. Presso gli antichi Greci e i Romani era declamata ad alta voce, per cui era fondamentale non solo la capacità mnemonica, ispirata dalla dea Mnemosyne - nome greco per indicare la memoria - ma anche l’actio, l’intonazione, l’espressività vocale e gestuale per esaltare la semantica del testo, come un bravo esecutore produce musica interpretando la partitura e le notazioni musicali sul pentagramma. Gli aedi e i rapsodi erano infatti i cantori che recitavano in pubblico le imprese degli eroi e degli dei accompagnandosi con la cetra presso le corti dei principi. Nell’antica Grecia, tra il VI  e il I secolo a.C., i poeti alessandrini nel comporre versi in cui prevaleva l’effusione soggettiva  del proprio mondo interiore, si accompagnavano al suono della lira, antico strumento musicale a corde, che ha dato il nome al genere della lirica. Sempre secondo Leopardi la lirica è il genere  «più nobile e puro d’ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione, proprio di ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi e consolarsi col canto».

     Lo stesso mito di Orfeo allude al musico che suonava la lira in modo così dolce e soave da attirare a sé e ammansire le belve feroci, incantare  e incivilire gli uomini violenti e persino fermare il corso dei fiumi [vedi figura 3 - Odilon Redon, Orfeo, 1903]

     Anche il dio Apollo, a cui era tributato il culto del Sole, spesso veniva raffigurato con una cetra, strumento con il quale allietava i conviti degli dei, dirigeva il coro delle Muse, e con una corona d’alloro che assurse nei secoli a simbolo dell’incoronazione poetica; aveva altresì, come sua specifica prerogativa, il potere divinatorio e dava oracoli per mezzo delle sue sacerdotesse (Sibilline, Pizie etc.) i cui numerosi templi erano disseminati  nell’area del Mediterraneo. Ma con il passare dei secoli la poesia fu separata dalla musica e destinata alla sola recitazione o alla lettura. [vedi fig. 3]

     Con il successivo avvento sistematico della scrittura si passò dalla tradizione orale a quella scritta. L’invenzione della scrittura rese possibile le prime forme di digitalizzazione. Non che si esprimesse attraverso numeri (digit), ma nel senso di avere fissato e registrato l’oralità in un medium, supporto non suo. Ciò avvenne soprattutto quando si passò dalla scrittura geroglifica e ideografica, basata su simboli o disegni di idee, a quella alfabetica, basata su singoli fonemi, segni trascritti su vari supporti: papiri, tavolette cerate, pergamene e infine sulla carta. Da allora non fu più necessario ‘vocalizzare’ per cui la lettura, soprattutto durante il Medioevo,  a partire dal XIII secolo, diventò lettura mentale, ‘interiorizzata’, ‘letta’ dagli occhi, non più ‘udita’ e ascoltata dalle orecchie. Il senso scaturisce dalla forma grafica delle parole, dalla varia combinazione di poche lettere dell’alfabeto, duplicate e distinte in maiuscole e minuscole, cui si aggiungono i segni della punteggiatura e gli spazi che separano le parole in unità o frammenti di senso. La digitalizzazione alfabetica, attraverso la successiva invenzione della stampa a metà del Quattrocento, ha permesso di pervenire alla massima  «chiarezza comunicativa».10 La percezione visiva della poesia, manoscritta o stampata,  è sempre immobile e frontale rispetto al lettore, nel senso che il fruitore si trova di fronte a quello che vede come ad un qualcosa di staccato da sé rispetto all’oralità tradizionale basata sull’ascolto in cui l’uditorio sentiva penetrare dentro di sé quello che percepiva e ascoltava all’esterno, fuori di sé, emotivamente coinvolto dal fluire dei suoni esteriori, carichi di echi e risonanze interiori.

     La poesia, come scrittura caratterizzata dalla scansione grafica dei versi, franta, perché suddivisa in più righe, o come lettura di una sequenza verbale puramente visiva che non esprime un concetto in forma continuativa, fatta per l’occhio, induce il lettore ad agire, cioè sottrarsi alla passività di una dimensione puramente cognitiva o comunicativa, solo quando questi si immedesima e immerge nello stato emozionale del testo poetico.

     La poesia, se partecipata, diventa stimmung che in tedesco significa ‘accordo’, ‘sintonia’. I fenomeni ritmici, se condivisi, determinano comunione emotiva tra i partecipanti come se si sintonizzassero all’unisono, sulle stesse onde e frequenze interiori. I riti e le cerimonie religiose, i canti, le musiche, le danze svolgevano questa stessa funzione di  profonda empatia, consonanza e sintonia, soprattutto nel passato, oggi sostituiti da nuove forme rituali e collettive, di massa, come accade  nei concerti o con il tifo sportivo negli stadi. Questo avviene perché partecipare di persona ad un evento è un’esperienza di gran lunga più forte che assistervi passivamente dall’esterno.

     Ma anche il singolo che legge ad alta voce una poesia si trova a ‘vibrare’ con essa in quanto una compartecipazione sensoriale, una ‘sinestesia globale’, risulta  più intensa di una esclusivamente intellettuale - cognitiva, basata solo sulla decodificazione del significato. La lettura poetica è una pratica astratta, di carattere intellettuale, ma può diventare calda e intensa, se il testo riesce a comunicare emozioni vive.

     L’esperienza attuale della poesia, trasferita nell’ambiente virtuale, attraverso siti web, blog e portali di letteratura, proietta il tradizionale testo scritto in una dimensione tecnologica aperta a post e commenti che captano le reazioni di critica e pubblico, il feedback ovvero  la ‘retroazione’, immediata o a breve distanza, generando scambi comunicativi che implicano forme di coinvolgimento emotivo, anche tra persone che non si conoscono né de visu né realmente.

     La scrittura poetica veicolata dallo strumento informatico, rispetto al tradizionale scrivere a mano con carta e penna, presenta in realtà poche differenze sostanziali. Il lavoro al computer si presenta già a stampa, definito graficamente, come sarà fruito dal lettore. Il discrimine è più nel fatto che il computer non è un mezzo conservativo come la carta: ciò che viene corretto, sostituito o rimosso con un click, scompare. Il trattamento digitale del testo rende altresì  possibili le poesie interattive, le animazioni tipografiche, arricchite da immagini, video, suoni, effetti colorati e tridimensionali, sottraendo la poesia alla sua dimensione intima e privata di interazione comunicativa tra mittente e destinatario, tra autore e lettore mediata da un messaggio (contesto) e da un codice (contatto) comune tra il codificatore e il decodificatore del testo letterario.

     Il computer è oggi uno strumento di indubbia efficacia perché permette di conservare una massa imponente di dati e informazioni secondo vari livelli gerarchici e organizzativi, attraverso un’estrema facilità di accesso e reperibilità delle informazioni stesse. Con l’applicazione dell’informatica, cioè del trattamento automatico dell’informazione mediante l’impiego di sistemi automatici di elaborazione, stiamo facendo un ulteriore salto tecnologico nella raccolta, conservazione e fruizione della conoscenza. Con la digitalizzazione delle informazioni e di tutte le tecnologie applicabili alla ricerca e consultazione delle informazioni conservate in tale forma, tenuto conto dello sviluppo esponenziale delle reti di telecomunicazione, si sta infrangendo un’altra barriera legata alle caratteristiche fisiche del genere umano: siamo in grado di superare le barriere dovute allo spazio ed in parte anche al tempo,  nel senso di ridurre il tempo necessario perché sia disponibile un’informazione ad una distanza anche notevole dal luogo dove essa è stata fisicamente prodotta.

     Ma, nonostante le innovazioni tecnologiche, l’universo poetico occupa nel web uno spazio ancora troppo marginale, quasi di nicchia, rispetto ad altre forme di comunicazione e intrattenimento più spettacolari e invasive, tipiche della cultura di massa: la musica, la tv, il cinema etc. Questo accade forse perché la poesia in ampia misura è fatta solo di parole, cioè è uniforme e monotona.  La rete internet ha reso solo più veloce e immediato il processo comunicativo rispetto alle forme culturali precedenti più lente, disperse e geograficamente limitate, come la circolazione di libri e riviste cartacei.

     La poesia però, nella sua essenza più pura e incontaminata delle origini rischia di estinguersi, come la natura sempre più insidiata dal progresso tecnologico. Il web resta infatti un ambiente artificiale che permette di pubblicare, come semplice post, poesie singole o piccole sillogi, adeguandosi  ai gusti dei suoi potenziali lettori, ma porta anche  la poesia al di fuori delle logiche economiche del mercato editoriale tradizionale che poco o nulla investe economicamente in questo settore ritenuto ormai “minoritario” rispetto al ruolo elitario e prestigioso che aveva nella letteratura soltanto qualche secolo fa.

 

     Conclusione

     Ma quando la poesia, è ‘gettata’  indiscriminatamente sul web, rischia di essere letta tanto velocemente quanto superficialmente, come un qualsiasi messaggio postato sui social network, divorato con la frenesia comunicativa tipica del mondo virtuale che tende a snaturare la ricchezza poetica in un semplice contenitore di massime, aforismi moralistici o estetizzanti, o, nella sua forma più degenerata, in patetici hashtag, microscritture destrutturate, ridotte ad uno smozzicato balbettio pargoleggiante, avulse da un contesto umano affettivamente  edificante e significativo in cui la straordinaria profondità del pensiero umano è ricondotta al primigenio Caos delle origini: lo “0.0”, che è spazio virtuale vacuum e nihil esistenziale.

 

Riferimenti bibliografici       

               

1 I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 2016.

2 Da un’intervista di G. S. Viereck in The Saturday Evening Post del 26 ottobre 1929.

3  G. Apollinaire, Calligrammes, Poems de la paix et de la guerre (1913 -1916), Parigi.

4 G. Pascoli, Il Fanciullino, (a cura di) G. Agamben, Milano, Feltrinelli, 1996.

5 R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1992.

6 F. Sabatini, Lezioni di italiano. Grammatica, storia, buon uso, Milano, Mondadori,  2016.

7 M. Corti, Principi della comunicazione letteraria: introduzione alla semiotica letteraria, Milano, Bompiani, 1985.

8 F. Brioschi, C. Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Milano, Principato, 1984.

9 G.W.F. Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1997.

10D. Barbieri, Il linguaggio della poesia, Milano, Bompiani, 2011.

Poiein tra visuale e virtuale

  • Fig. 1

    Calligramma di Guillaume Apollinaire, Coeur couronne et miroir

  • Fig. 2

    F. T. Marinetti, Zang Tumb Tuuum: Adrianopoli ottobre 1912; Parole in libertà. Book, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1914

  • Fig. 3

    Odilon Redon, Orfeo, 1903