Ciak! Si narra - Un osservatorio di Griselda sulla letteratura fra cinema, media e serie TV
Come è ormai evidente a tutti, siamo avvolti, nel nostro tempo, e accentuati negli ultimissimi mesi dalla pandemia, da due imponenti fenomeni globali che non conoscono confini: uno è dato dalla perenne colonna sonora che ovunque ci raggiunge e che noi sempre cerchiamo. Radio, media i più disparati, Youtube, Spotify, chat molteplici e così via ci forniscono continuamente una disponibilità pressoché infinita di ogni tipo di musica che ci accompagna ovunque. Sarebbe stato il sogno di Mozart: musica sempre e ovunque a disposizione di tutti (e notoriamente il divino Mozart aveva una grande passione per la musica anche popolare, oggi diremmo appunto pop). L’altro fenomeno, più recente e da qualche anno di dimensioni vaste e di incalcolabile portata per tutto ciò che concerne l’immaginario e la natura stessa del “narrare”, è dato dall’estensione straordinaria delle serie cosiddette TV (ma il termine è improprio giacché esse sono fruibili da ogni possibile device digitale che si abbia a disposizione e a prescindere da ogni rigido palinsesto delle televisioni generaliste) supportate da molteplici piattaforme a pagamento operative in tutto il mondo (Sky, Netflix, Amazon prime, Disney Channel… ma l’elenco sarebbe molto lungo). Tali piattaforme producono esse stesse le serie o ne distribuiscono molte prodotte da altri soggetti (tra i più rilevanti HBO). È bene notare che la serialità televisiva attuale così in espansione non è fenomeno da paragonare con la gloriosa stagione narrativa dei serials (o in italiano “telefilm” ) comunque ancora molto presenti nelle programmazioni delle TV generaliste e nati praticamente con la televisione stessa (il mitico Perry Mason) ma con procedure narrative diversissime (se si volessero paragonare i telefilm ai generi letterari potremmo parlare di serie anche molto ampie e durature di “racconti” o di “forme brevi”): a partire dal frazionamento in episodi in sé conclusi nell’ambito di un’ora circa e senza intrecci che si debbano dipanare oltre la singola puntata, pur mantenendo stabili i personaggi principali con le loro vicende (forse l’esempio migliore resta quello delle celebri sitcom americane Friends e Sex and the City, entrambe ambientate nella City per eccellenza deputata alle “narrazioni” contemporanee, New York). Notiamo subito alcune conseguenze di portata rivoluzionaria rispetto alla cultura popolare del Novecento e le cui valenze ancora non abbiamo valutato a fondo: stiamo assistendo al tramonto della TV generalista non solo fra le giovani generazioni (che già da molto l’avevano abbandonata) ma anche fra ceti e generazioni sempre più ampi (il successo di Netflix è clamoroso in questo senso). Il che vuol dire che ciascuno si organizza la propria programmazione senza attendere passivamente cosa i tradizionali network pubblici o privati ci propongono nei loro palinsesti e per di più guardiamo quello che ci piace in qualunque luogo e con qualunque strumento (la incredibile evoluzione degli smartphone è stata decisiva in tal senso e credo che le nanotecnologie e la robotica ci riserveranno ancora molte sorprese), come già da gran tempo facevamo appunto con la musica.
Non ho qui ora spazio per ragionare sulle incalcolabili conseguenze che tutto ciò ha sul piano politico, economico e antropologico: il discorso sarebbe lungo e semmai ci torneremo in altra occasione. Per inciso la crisi irreversibile dei giornali cartacei e invece, per alcuni di loro, il successo esponenziale della loro versione online con grande ricchezza ad ampio raggio di contenuti scritti, video, podcast, narrazioni di ogni tipo e ormai solo in parte “giornalistiche” (vedi in Italia il caso di “Repubblica” su cui la nuova proprietà FCA sta facendo ingenti investimenti in tale direzione e con grande successo nell’acquisizione di nuovi pubblici e abbonati) è l’altra faccia della stessa medaglia. A me qui interessa valutare ora come tutto ciò abbia ricadute incredibili sull’immaginario e come queste ricadute si riflettano sul “fare letteratura” oggi che siamo circondati da questo inarrestabile “infinito narrare” che ci circonda e ci affascina (come dire, la versione “narrativa” del concetto di “realtà aumentata” o del Game cari a Baricco): per certi versi una sorta di ritorno in veste nuovissima dei lunghi romanzi a puntate dell’Ottocento in cui si cimentarono per altro in Occidente i narratori più grandi di quell’epoca dando vita anche allora a una sorta di “narrazione diffusa” sebbene incomparabile per circolazione con quelle attuali supportate dalla imponente rivoluzione tecnologica/informatica ancora in atto. È un discorso che potremmo fare anche per il cinema, per i film: di come lo “specifico filmico” caro a Fellini o a Bergman sia stato totalmente messo in discussione dai prodotti seriali Sky o Netflix o di altre piattaforme e con essi debba fare continuamente i conti, specie quando queste grandi Compagnie, lasciando talora i prodotti seriali, producono esse stesse film e a volte di grande qualità (basti pensare per tutti a Roma di Cuaròn, prodotto e distribuito da Netflix). Questi mutamenti hanno colto di sorpresa l’establishment del cinema e dei correlati festival fino a poco tempo fa con vere e proprie forme diffuse di rifiuto o incomprensione. È stato il Festival di Venezia per primo al mondo, con la sua lungimirante direzione (Alberto Barbera), ad aver da anni ormai del tutto “sdoganato” ai “piani alti” dei Festival anche più sofisticati (e prima ancora delle kermesse degli Oscar!) questi prodotti filmici e seriali, dando il via a una inedita riflessione critica su cinema e nuove modalità narrative con cui poi tutti hanno dovuto fare i conti. Anche su questo occorrerà parlarne in altra occasione. Stiamo per ora ai nessi con la letteratura.
In rete ci sono proposte per ogni gusto, molto oltre i confini delle antiche sale cinematografiche: filoni narrativi di alta fattura drammatica, serie fantasy, serie di ambientazione storica, interi universi tra il thriller, l’horror e il crime, sitcom di svago, e chi più ne ha più ne metta! L’incrocio con la letteratura è molteplice (e già ne parlai a lungo in un’antologia curata da me e Loredana Chines, Leggere i classici italiani, Bologna, Pàtron, 2019): le radici di queste narrazioni seriali sono profondamente connesse con le procedure proprie della letteratura e dei suoi classici. Dante, Shakespeare, Machiavelli, Dickens, Tolstoj, Dumas, Proust, Lovecraft, Philip Dick, Stephen King sono solo alcuni dei tanti nomi che si potrebbero fare in proposito. Si può anche aggiungere che negli Stati Uniti questa sorta di narrare “diffuso” attraverso romanzi “smisurati” e traboccanti di suggestioni e di intrecci anche sperimentali fa parte del DNA dei grandi narratori statunitensi tra fine Novecento e inizio del nuovo millennio - i vari De Lillo, Foster Wallace, Franzen, l’ultimo Paul Auster di 4321, Mattew McIntosh - e che sicuramente questo imponente filone narrativo americano ha giocato un ruolo rilevante nella formazione di sceneggiatori e registi di serie TV delle ultime generazioni. Ma è vero anche l’opposto: la letteratura narrativa contemporanea, anche più raffinata, ha dovuto tener conto di questa rivoluzione in atto e della sua permeabilità dilagante presso il proprio pubblico (proprio come ha dovuto fare il cinema). Così assistiamo, in Usa come in tutto il mondo, ad un proliferare letterario inedito di molteplici filoni narrativi e persino in Italia dove le procedure narrative si erano cristallizzate; invece oggi siamo di fronte a un loro fermento capace di cimentarsi su tanti registri e generi (anche il genere crime da tempo in Italia sta dando prove eccellenti): lo stesso fenomeno “Elena Ferrante” così italiano eppure così planetario per il successo ottenuto si spiega sicuramente con il mutamento degli statuti letterari imposto dal generale rimescolamento delle procedure narrative seriali. In questo contesto si spiega lo stesso successo degli sterminati docuromanzi su Mussolini di Scurati: non c’entra nulla una presunta nostalgia di quel regime (per altro duramente esibito nel suo crudele profilo da Scurati) ma c’entra invece il gusto per le “lunghe narrazioni” di ambientazione storica (nuova forma dell’antico e glorioso “romanzo storico”) cui ci hanno abituato tante serie TV tipo The Crown (e come non pensare in tale temperie infatti ad esempio a Stefania Auci e all’insperato successo mondiale del suo romanzo sulla saga dei Florio?). E altrettanto potremmo dire, che so, di Valerio Massimo Manfredi e del successo planetario dei suoi lunghi romanzi storici ambientati nell’antichità (anche in forma di “trilogie”) e da cui sono derivate molte produzioni filmiche e televisive.
È entrato definitivamente in crisi il modello delle “forme brevi”, soprattutto di novelle e racconti (resiste solo la grandissima Munro) così come in TV (lo dicevamo) è in via di esaurimento il genere del “telefilm”; i lettori cercano nelle opere letterarie quell’“infinito narrare” (il correlativo in musica potrebbe essere la “melodia infinita” ideata e perseguita da Wagner nei suoi melodrammi) che ormai sono sempre più abituati a frequentare sulle piattaforme digitali attraverso serie narrative che giungono a svilupparsi su un numero di stagioni e di ore di programmazione davvero non prevedibile fino a un decennio fa (le interminabili soap opera novecentesche sono altra cosa, anche come livello artistico, e stanno ancora dentro un canone tutto proprio delle TV generaliste e non a caso forse una delle più longeve al mondo è l’italiana Un posto al sole, nata nel 1996 e tuttora in onda sulla RAI…). I risvolti economici sono evidenti. Gli editori cercano sempre più di pubblicare romanzi di cui poi si possano vendere i diritti per produzioni filmiche o televisive a puntate. Insomma una vera e propria rivoluzione sta attraversando gli statuti della letteratura e della narrativa (come appunto dei giornali, del cinema, delle arti figurative, architettoniche e fotografiche) di cui non tutti gli addetti ai lavori (i cosiddetti critici letterari talora sempre più isolati dentro snobistici specialismi) sembrano rendersi conto e che è figlia della rivoluzione digitale e della sua “infinita” possibilità di estensione: forse davvero a suo modo Benjamin nel 1936, praticamente un secolo fa, aveva già intuito tantissimo con quel suo saggio straordinario, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (per non dire, qualche decennio dopo, delle icone ripetitive di Andy Warhol e della sua ineguagliabile Pop art…). Ma questo intreccio inestricabile con la letteratura ha ricadute imponenti sulle stesse produzioni di serie TV: si è scoperto da un decennio circa (e specie in ambito Sky, HBO e Netflix) che una buona sceneggiatura non sciatta ma di pregiata fattura letteraria e teatrale è decisiva per il successo di una serie. Provate ad ascoltare con attenzione il “dialogato” delle serie anche più popolari: il livello è in genere molto alto sia sul piano letterario che drammaturgico (impareggiabile tutta la partitura drammaturgica del dialogo fra i due unici personaggi in scena nella puntata straordinaria del dicembre 2020 di Euphoria). Raramente si scade nella banalità e ripetitività che era invece propria di molte sceneggiature televisive novecentesche. I produttori, a partire dagli USA ma poi in tutto il mondo, hanno capito che la sceneggiatura è struttura decisiva e portante per il successo di una serie (quello che da sempre accade per i film di qualità dove il dialogo tra letteratura e cinema è ormai un fatto consolidato e originale); anzi ne è un fattore imprescindibile. Il pubblico respinge partiture troppo banali e scontate; l’azione anche concitata e piena di effetti speciali non è più sufficiente a supportare una narrazione, ormai neppure nei generi thriller o fantasy o alla 007. Serie come Lost, Il trono di spade, Casa di carta, House of cards, True detective, Gomorra, Homeland, Fauda, Queen of the South, Snowpiercer, You Me Her, Unhorthodox, The Queen’s Gambit, The Sinner, Dark e via discorrendo (e ho privilegiato volutamente alcune delle serie più popolari nel mondo) hanno riscosso un enorme successo proprio curando al massimo la sceneggiatura, non a caso affidata spesso a scrittori di primo livello o comunque a sceneggiatori dotati di un alto grado di formazione letteraria e teatrale. Insomma, la letteratura che sembrava essere stata cacciata dalla porta è rientrata alla grande e con i suoi specifici “dispositivi” dalla finestra e nel modo più inaspettato. Né è casuale che questa accentuazione delle potenzialità drammaturgiche della sceneggiatura abbia portato alla luce di necessità in tutto il mondo intere leve di attrici e attori di ottimo livello quasi debuttanti (si pensi solo alle straordinarie protagoniste di Unhorthdox o di Queen’s Gambit) e abbia indotto molte delle star più acclamate e affermate del cinema e del teatro a cimentarsi, con successo, in molte serie TV. Va inoltre sottolineato un elemento di portata molto rilevante attivato in modo macroscopico dalla serialità televisiva: i personaggi femminili sono in crescita esponenziale anche in ruoli dove da sempre si era attestata come egemone la figura maschile. Donne poliziotto dure e ciniche, donne a capo di importanti cartelli criminali, donne battagliere e libere nella vita sentimentale e sessuale sono ormai predominanti. Gli esempi non si contano: citiamo in Italia il personaggio di Patrizia in Gomorra o di Petra nell’omonima serie oppure la Marcella inglese o la protagonista di Homeland o la psicoanalista di Gipsy ma si potrebbe continuare per molto. Assistiamo all’esplosione di personaggi femminili (e di conseguenza di bravissime attrici) con ruoli di primissimo piano.
Certo, questo effetto “straniante” di individuare personaggi femminili con la forza e la durezza che si è soliti attribuire ai maschi (che dire in proposito del film capolavoro di Clint Eastwood One million dollar baby? O del film culto francese Nikita?) esercita da sempre un grande fascino e attinge a origini remote di “donne guerriere” del mito (Amazzoni, Valchirie, ecc.) ma qui il passo è oltre e diverso. Il mutamento dei costumi e dell’orizzonte d’attesa del pubblico (di cui le piattaforme televisive più importanti hanno una velocissima percezione) è orientato verso un universo femminile assolutamente protagonista a tutto tondo e con personaggi delineati sempre in forte tensione per affermarsi ed emanciparsi dalle convenzioni dell’universo maschile. E le partiture drammatiche delle sceneggiature puntano molto in questa caratterizzazione delle protagoniste, tracciando spesso straordinari ritratti femminili inediti persino nella gloriosa storia del cinema. Che la nuova serialità punti del resto a cogliere e anzi quasi a precorrere costumi sociali è dimostrato anche dal simile diffondersi molto accentuato di personaggi e trame con personaggi del variegato mondo LGBT o di estrazione multirazziale e multietnica con pari dignità di ruoli rispetto alle figure tradizionali. L’intento non è probabilmente in prima istanza “politico/ideologico” o trasgressivo; però resta il forte impatto che le serie televisive stanno esercitando sulle questioni di “genere” (vedremo più avanti l’importanza dell’opera di Luca Guadagnino in tal senso) e di emancipazione razziale. È solo uno dei tanti fenomeni di rilievo primario che occorre non sottovalutare per comprendere l’influsso decisivo che queste nuove forme del narrare contribuiscono a determinare su questioni sociali del nostro mondo di oggi.
Per inciso, infatti, questo enorme sviluppo della serialità televisiva ha certo un perno principale negli USA ma ha messo in luce grandi potenzialità creative e insospettate vocazioni innovative in altre realtà: eclatanti i casi della Spagna e di alcuni paesi dell’America latina (specie il Messico), dell’India, di Israele, dell’Inghilterra, della Cina, della Germania (Babylon Berlin o Dark) e della Francia, tutti Paesi le cui produzioni hanno spesso un successo planetario in concorrenza con gli USA (Casa di carta è esemplare in tal senso ma anche Dark). In Italia, e con velocità incredibile, in pochi anni la stessa TV di Stato, la paludata RAI, ha dato vita a una gamma molto ampia di produzioni seriali che oggi rappresentano, non a caso, la principale fonte di alcuni record di ascolti dell’azienda (l’ultimo, clamoroso esempio, già richiesto come format in molti paesi, è stato DOC Nelle tue mani). Ma torneremo sulle produzioni italiane (specie di SKY) come cuore della nostra analisi più avanti.
È vero: tutto ciò ha mutato profondamente, e in un periodo molto breve, l’assetto stesso della produzione letteraria contemporanea e dei suoi generi. Non v’è dubbio che la narrativa ovvero il romanzo la facciano da padroni incontrastati: che direbbero oggi le neoavanguardie novecentesche che decretavano la fine del romanzo e delle “storie”? In Italia proprio uno dei loro bersagli preferiti, ovvero la grandissima Elsa Morante (per non parlare del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), ha stravinto la sua battaglia: quando (dopo aver già scritto alcuni dei più bei romanzi della nostra letteratura) la Morante, in voluta provocazione contro i critici che l’avevano attaccata, scrisse lo straordinario e straripante La Storia (titolo insieme provocatorio e programmatico che rimetteva pienamente in circolo il classico modello manzoniano del romanzo storico) di fatto si accampò in un territorio del futuro, prefigurando ciò che oggi in Italia, negli USA e nel mondo è dominante. Elsa Morante (come Tomasi di Lampedusa ma lo stesso, pur nella sua diversità, Sciascia) aveva compreso che raccontare “Storia e storie” non era solo il passato (il romanzo a puntate ottocentesco di cui si diceva prima) ma continuava ad essere il presente e il futuro della letteratura attraverso l’intramontabile genere del romanzo e magari dello stesso “romanzo storico”. È evidente che lo strabordante potere del romanzo pare aver messo in ombra la lirica, la poesia persino in un paese come l’Italia dove da sempre proprio la poesia (il “Canzoniere”, il genere con cui ancora Saba intitolava la sua grande raccolta di poesie in pieno Novecento) è stata il cuore pulsante della tradizione letteraria, da Dante a Montale si potrebbe dire. Qui ci sarebbe da fare un importante discorso fuori dagli schemi e di fatto inesplorato: nella musica pop contemporanea ad esempio, in tutte le sue articolazioni (rap, indie, melo, rock, ecc.), da anni sta succedendo in qualche modo quello che succede di fatto nelle serie TV; ovvero la migliore musica popolare anglosassone e americana ma anche europea ed italiana, anche quella più diffusa che ascoltiamo continuamente (come si diceva all’inizio) si giova di testi spesso di notevole livello poetico.
Come nelle serie TV anche nelle produzioni musicali la parola letteraria (e in questo caso proprio la “poesia”) è tornata pienamente centrale, talora anche a livello “metrico” come supporto al “ritmo”: e non parliamo ovviamente solo dei cosiddetti “cantautori” che da sempre hanno saputo contaminare ad alto livello parole poetiche e musica (John Lennon, Bob Dylan, cui giustamente è stato dato il Nobel per la letteratura appunto, o come in Italia i vari De Gregori, Guccini, Dalla, Battiato, Conte, De Andrè, ecc). Io parlo proprio di gruppi musicali o cantanti di grandissima popolarità e successo universali che portano all’ascolto canzoni (non si dimentichi che “canzone” è termine metrico/musicale di origine letteraria medievale…) in cui sempre più la parola deve essere poetica: dai Coldplay agli U2 a Madonna a Herry Stiles a Robbie Williams ai grandi rapper statunitensi o in Italia con Elisa, Tiziano Ferro, Carmen Consoli, Gianna Nannini, Vasco Rossi, Giorgia, Emma, Ligabue, Calcutta, Maneskin e così via. Anche la poesia allora ha trovato modo di rientrare dalla finestra e nel campo più universale possibile ovvero quello musicale. Ma il discorso ci porterebbe lontano (e ci torneremo in altre occasioni) dal terreno che in questo intervento voglio affrontare che è sulle “narrazioni”: trame derivate dai modelli poetici infatti si possono rintracciare in molti segmenti delle stesse narrazioni, nei film e in tante altre forme dell’immaginario contemporaneo ad aver solo pazienza di esplorare. La sostanza in definitiva è che la letteratura, anche intesa come “poesia”, ha un ruolo decisivo nelle dinamiche espressive più diffuse oggi nel mondo. È una letteratura che ha cambiato pelle, che ha dovuto inventarsi statuti nuovi, che ha rimesso al centro generi di antica data come il romanzo mutandoli nel loro assetto ma che appunto per questo non ha “perso” identità ma si è arricchita di nuove prospettive.
E come in letteratura il gusto della sperimentazione ha convissuto in vari momenti storici con gli statuti più consolidati e in particolare proprio in ambito narrativo, anche nella serialità televisiva assistiamo da qualche tempo a sperimentazioni narrative molto audaci e nei temi e nelle modalità di ripresa (lo “stile” si direbbe in letteratura). Ciò è accaduto e accade principalmente grazie ad alcune produzioni italiane di Sky affidate a registi e sceneggiatori italiani di grande livello. In realtà anche in altri paesi sono in atto sperimentazioni interessanti in genere tese a mettere in discussione quella certa “linearità” narrativa che è propria del raccontare “storie” per il grande pubblico. Persino in generi ben consolidati come il thriller si vanno accentuando trame fortemente intrise di oscuri sostrati psicologici devianti in cui sempre più i confini tra investigatori e colpevoli si confondono in soluzioni finali solo in apparenza “risolutive” (si vedano le statunitensi The Sinner, True Detective, The Outsider , l’inglese Marcella o la tedesca Dark o le italiane Rocco Schiavone e Petra o alcune ottime serie finlandesi da ultimo): l’archetipo di tutto ciò era già del resto rinvenibile in alcuni grandi protagonisti e opere del cinema , da Hitchcock ovviamente a Dario Argento a film culto come Il silenzio degli innocenti o Seven (per inciso, quest’ultimo ispirato esplicitamente all’Inferno di Dante!). Ma la scommessa di Sky in Italia è andata oltre: intanto, già intorno al libro Gomorra di Roberto Saviano, Sky ha costruito una serie/sistema (ben studiata di recente da Giuliana Benvenuti) dal successo planetario affidata a registi di primo piano (fra cui spiccano Stefano Sollima e Francesca Comencini) e in cui i cardini delle mafia stories sono completamente rivisitati. La desolazione degli ambienti marginali di Napoli, l’uso di un dialetto dell’hinterland lacerato e al limite dell’incomprensibilità (antitetico al dialetto napoletano comico e pittoresco delle commedie e dei film a tutti ben noto), una colonna sonora evocativa e inquietante (già divenuta di culto), una sceneggiatura cruda ma profonda (coordinata non a caso dallo stesso Saviano), una fotografia livida e senza contrasti di colore fanno da assi portanti di storie “orizzontali” che appaiono senza fine nel tragico e cupo succedersi di faide camorristiche spietate in cui sono totalmente assenti lo Stato, la polizia, gli antagonisti classici (in questo genere) della legge. Si è come immersi in un universo inespugnabile e claustrofobico dove le storie dei singoli protagonisti criminali si succedono con efferati colpi di scena all’infinito senza speranza di redenzioni o soluzioni finali come del resto appariva già dispiegato nel romanzo/saggio d’origine di Saviano. E in una posizione all’opposto del grande modello del Padrino di Coppola (cui pure gli sceneggiatori attingono) e delle regole dei generi crime/gangster comunque intesi, anche di quelli, di recente successo, statunitensi e sudamericani, incentrati intorno alle vicende dei narcos e dei loro terribili capi.
La cosa inaspettata è che un’operazione così complessa e sperimentale abbia avuto un successo straordinario ovunque. Come dire: il pubblico delle serie è già pronto per affrontare prove d’autore non consuete e dove le “storie” non hanno più bisogno di un andamento narrativo “verticale” con un principio, uno svolgimento, una fine ben strutturati come è nell’orizzonte d’attesa dei pubblici di tutto il mondo da sempre (e come è stato per i romanzi stessi). Gli esempi, a mio parere, più eclatanti in tal senso, e uscendo dall’universo crime, sono appunto di Sky e sono dati da Il miracolo (2018), opera prima come regista TV dello scrittore Niccolò Ammaniti (che ne è stato anche l’ideatore), The Young Pope e The New Pope (2016 e 2020) di Paolo Sorrentino e We are who we are di Luca Guadagnino (2020), anch’essi ideatori e creatori delle serie con alcune importanti collaborazioni per la sceneggiatura (ad esempio Paolo Giordano con Guadagnino). Si tratta di opere molto diverse fra loro ma accomunate esplicitamente, per volontà della produzione, dall’essere opere “d’autore”. Autori cui è stata lasciata piena libertà di sperimentare forme narrative nuove e inattese, per nulla ammiccanti a pubblici vasti e generici. Insomma un investimento rischioso ma che ha prodotto frutti di grande rilevanza nella sperimentazione di forme narrative che costringono lo spettatore comune a “straniarsi” dai consueti canoni del narrare e a interrogarsi su questioni irrisolte della realtà contemporanea e su certezze troppo supinamente accettate nella prassi quotidiana delle esistenze.
I lavori di Ammaniti e Sorrentino prendono spunto, seppure con modalità molto diverse fra loro, da un problema enorme che già molti decenni fa Pasolini, da laico di scuola gramsciana, aveva posto sul tappeto della società contemporanea: ovvero la perdita insostituibile del “sacro” e del “mito” che ad esso si accompagna (era un tema già centrale in Cesare Pavese, autore fondamentale per il rinnovamento della nostra tradizione letteraria). Il vuoto che questa perdita lasciava era stato sostituito, per Pasolini, da una vacua società consumistica e omologata, piatta, senza “attese” di lungo respiro.
In Occidente il fenomeno pareva a Pasolini collegarsi con la fine dell’arcaico mondo rurale e contadino, con il suo corredo di “magia” e “religione”, di “miracolo” possibile (appunto come le “Langhe” dei romanzi e racconti di Pavese), sostituito da superficiali ed effimeri costumi della società industriale e borghese che tutto veniva a travolgere, persino distruggendo la “memoria” di quel passato e con il pieno assenso della stessa Chiesa ufficiale. Anche i “dialetti” e le “lingue” di quel mondo stavano scomparendo assorbiti da un italiano medio regionale privo di “colore” e di “memoria” e verso cui sempre Pasolini mantenne forti riserve (famoso il dibattito che su questo punto nacque tra lui e Calvino). Sarebbe interessante riprendere oggi quel Pasolini per capire più a fondo, per inciso, il grande tema della “resistenza” islamica ancorata in tanti paesi (a differenza delle Chiese cristiane occidentali) a un forte radicamento rurale, a una fede non scalfita da modelli consumistici, a lingue e pratiche di popoli ancora poveri, spesso sostanzialmente emarginati, anche quando emigrati nelle periferie delle grandi capitali occidentali: la preghiera efficacissima nella sua pacificante ripetitività da cantilena, il senso del sacro e dell’invisibile, del Dio supremo perennemente invocato (Allah akbar…), il destino ultraterreno non sono stati ancora assorbiti del tutto dal modello occidentale e perciò la questione islamica con la connessa vivissima religiosità che la connota andrebbe approfondita con le categorie che ci suggeriva genialmente Pasolini piuttosto che con logore litanie politologiche o antropologiche. Pasolini, nel denunciare la perdita del “sacro”, denunciava di fatto la perdita di ogni “fede” all’interno della Chiesa cattolica pur in presenza di un testo rivoluzionario e stupefacente come il Vangelo: da qui l’impeto e l’asciutta ruvidezza che egli, poeta e regista, impresse al suo straordinario film Il Vangelo secondo Matteo (1964) ma anche in tante delle sue poesie, dei suoi romanzi e dei suoi Scritti corsari negli anni Settanta. Il regista che più di tutti seppe raccogliere il messaggio di Pasolini, seppure con una “leggerezza” e una garbata ma disincantata ironia tipica del suo stile, è stato in realtà Nanni Moretti con il film Habemus papam (sottovalutato in parte dalla critica e in realtà grandissima prova d’autore) del 2011. La scena finale con il “vuoto” reale e metaforico del balcone papale su Piazza San Pietro è geniale e indimenticabile: il “sacro” non ha più luogo, il Papa appena eletto abdica (come poi davvero farà nel 2013 Papa Ratzinger, Benedetto XVI…), oppresso da paura, senso di inadeguatezza e mancanza di fede; lo sgomento dell’assenza di Dio è accentuato da quell’ondeggiare delle tende sul balcone papale deserto che velano il vuoto incolmabile che è dietro di esse.
Il Miracolo di Ammaniti esibisce quel “vuoto” mettendo in scena l’invenzione di una storia volutamente paradossale e inaspettata (e ispirandosi al fiorire soprattutto in Europa fra Otto e Novecento di tanti fenomeni di Madonne “piangenti” e miracolose): una banale statuetta di plastica della Madonna, molto tradizionale nella sua iconologia, rintracciata dai Corpi speciali durante, guarda caso, una irruzione nella casa di un feroce esponente della ‘ndrangheta calabrese, “piange” copiosamente sangue senza alcuna spiegazione razionale e scientifica possibile. Tenuta nascosta nei sotterranei di un deposito dei Servizi segreti (proprio per non creare turbamenti e inquietudini alla vigilia di un decisivo appuntamento elettorale), la Madonna sanguinante entra però nelle vite dei pochi che ne sanno, sconvolgendole e mettendone in luce debolezze, codardie, paure, desideri di “riscatto” forse possibile. Il Primo Ministro e la moglie con i figli, la biologa che lavora al caso, un prete corrotto e cinico che aveva perduto la fede sono “rovistati” a fondo dall’approccio al miracolo: non assistiamo a nessuna vera conversione tradizionale e religiosa ma alla resa piuttosto di fronte ad una “alterità” possibile, all’alterità che ci coabita e che esibisce le nostre solitudini e il vuoto struggente di cui siamo materiati. Solo il Generale dei carabinieri preposto al caso (aduso forse per mestiere ad accettare il “mistero”) sembra pacato e saggio di fronte al miracolo e sembra coglierne l’ineluttabile lezione: l’arroganza dello scientismo di bassa fattura tecnologica da cui siamo dominati nulla può con l’inaspettato manifestarsi dell’irrazionale che ci coabita nel profondo. Sempre Pasolini aveva messo in luce questo tipo di incontro traumatico col “sacro” nel grande romanzo, scritto in contemporanea alle riprese del film omonimo, Teorema (1968) in cui l’irruzione di un “angelo” (come accade su altri piani e prospettive con i due angeli nel Cielo sopra Berlino di Wim Wenders del 1987) rimette in gioco e porta alla inevitabile “catastrofe” liberatoria la ipocrita vita di una famiglia borghese del Nord Italia. Ammaniti lavora con grande stile e pathos crescente a questa “storia” senza “storia”: molte cose accadono e la narrazione segue i vari personaggi coinvolti nel “trauma” ma nessuna vera conclusione ne emerge. L’apparente thriller fantascientifico rimane insoluto e mostra la banalità di esistenze che fanno da contrappunto a una statuetta banalissima di plastica (e la figura è appunto materna, la Madonna, archetipo di ogni Madre) che lacrima però il sangue del nostro male quotidiano: Ammaniti sa coniugare l’evidente messaggio allusivo, anzi allegorico, con grande sapienza narrativa in un fluire “orizzontale” di “storie” che contraddicono i canoni stessi della serialità televisiva più consueta. Ed è significativo che sempre nel 2018 esca un film italiano, molto diverso nello stile, ma sostanzialmente identico nella tematica, di Gianni Zanasi, Troppo grazia: anche qui a una semplice geometra che sta svolgendo il suo banale lavoro quotidiano compare la Madonna per indicarle un compito etico di giustizia piccolo ma significativo (cosa ci diceva nel 2000 fin dal titolo in un suo saggio il grande scrittore israeliano Yehoshua? Il potere terribile di una piccola colpa…). E anche qui l’apparizione sconvolge ogni banale ritualità quotidiana e rimette in discussione compromessi e ipocrisie.
Fa molto pensare che proprio in Italia, in momenti di grandissima crisi identitaria e sociale, alcuni autori tentino di spezzare l’insopportabile peso della banalità quotidiana dei mali ricorrendo alla metafora del sacro, del miracolo, della Madonna: in Italia ha il suo epicentro la Chiesa cattolica e il culto per la Madonna attinge ad una ancestralità materna insopprimibile e diffusa. Di qui il suo peso nell’immaginario del possibile “miracolo”. La lezione di Pasolini (e di Nanni Moretti) davvero ha lavorato a lungo e nelle produzioni dell’era digitale ancora esercita il suo peso sostanziale. Paolo Sorrentino (influenzato particolarmente da Habemus papam di Moretti) nelle due serie dedicate alle figure dei “nuovi” Papi conduce un esperimento ancor più radicale: nell’impianto di una narrazione sontuosa e visionaria Sorrentino come sempre riprende le modalità cinematografiche care a Fellini, soprattutto quelle del cosiddetto “realismo magico” , creato in letteratura nel primo Novecento da un grande narratore italiano, Massimo Bontempelli, e poi fatto proprio anche da tanta narrativa sudamericana (Cortàzar, Borges, Garcia Marquez in testa) e supporta la sua narrazione con un cast stellare di grandi attrici e attori internazionali e italiani.
Grande e costosa produzione, cast di altissimo livello, riprese con dispendio inesauribile di tecniche digitali e fotografiche d’avanguardia fanno da architrave a una storia fluttuante, misteriosa, piena di simbologia non decifrabile se non, anche per Sorrentino, come chiave per esplorare il mistero del “sacro” perduto: ai livelli dei nuovi Papi lacerati, dubbiosi, peccatori consapevoli eppure alla ricerca di una chiave che riconduca il mistero del sacro ai cuori di sé e delle comunità frastornate dei fedeli; ma anche al livello delle tante figure di coprotagonisti di piccolo cabotaggio, ora entusiasti ora corrotti e fragili che circondano le vicende dei Papi “nuovi”. La narrazione di Sorrentino è totalmente “orizzontale”: in sostanza la trama (come tradizionalmente la si intende nelle serie televisive) è fragilissima, tutto è giocato su storie che si dipanano in ambiti contradditori e prevale il gusto della “visione”, dell’irruzione improvvisa del sacro evocato (specie dal primo giovane Papa americano nella prima serie) con toni bruschi e di sgomento (quasi di tipo “pagano” classico, il “terrore/tremore” che prendeva di fronte all’epifania del divino così ben narrato dai grandi greci e latini). Non può esserci insomma storytelling per il “sacro”: esso è nei cuori dubbiosi e “feroci” dei Papi e di tutti, è nel mistero irrisolto delle vite dei potenti e degli ultimi, dei marginali continuamente frammiste da Sorrentino, è nell’improvvisa apparizione del “segno” nella natura e nelle sue stagioni o negli angoli arcani delle città tanto cariche di storia (Roma, Venezia…) quanto di fragile inconsistenza umana. Allora non conta il plot per tutto questo: contano gli squarci improvvisi di luce, contano le visioni supportate da tecniche cinematografiche raffinatissime, conta il contrasto tra un ”sacro” sempre avvicinato ma mai raggiungibile, in ultima istanza conta il “vuoto” incolmabile e pieno di nostalgia lancinante che i dialoghi tra i protagonisti (straordinari nella seconda serie quelli tra il “nuovo Papa” e la bella giornalista Responsabile dell’Ufficio stampa vaticano) esibiscono quasi con tremore e che, come sempre e come sempre la letteratura ha raccontato, solo l’amore può tentare di colmare. Sorrentino perciò non conduce alcuna “narrazione” ma costruisce (come del resto Ammaniti) un clamoroso contraltare alla scontata “sequenzialità” delle narrazioni tradizionali: in sostanza le serie TV italiane di cui qui parliamo mettono in campo già il “doppio” sperimentale e spiazzante del “narrare” contemporaneo e indicano anche strade nuove alla letteratura e al romanzo stesso. Siamo di fronte a un complesso evocativo di suggestioni narrative senza plot consueti, uniche in grado di dare conto del mistero del nostro vivere definitivamente nella nostalgia di un “sacro” perduto.
Che questa “perdita” sia per altro assillante nella cultura italiana di oggi (ma è tema universale in Occidente) poi con esiti artistici di alto livello è provato da una serie sempre italiana diversissima da quelle di cui abbiamo parlato finora e non a caso anch’essa tutta prodotta, con grande dispendio di risorse, da SKY che evidentemente ha deciso di investire, in particolare partendo da autori italiani in Italia, su nuove sperimentazioni narrative: sto parlando di Romulus (2020), ideata e diretta da Matteo Rovere (quasi come “estensione” del suo film Il primo Re del 2019). Presentata come una sorta di kolossal sulle origini remote di Roma è invece un interessantissimo esperimento di narrazione storica che nulla concede all’iconologia tradizionale cui ci hanno abituato film e serie Tv su Roma e gli antichi (operazione simile anche se non altrettanto coraggiosa hanno fatto in Germania con la serie Barbari del 2020 e tra Stati Uniti e Inghilterra con Britannia del 2018, ovvero la dominazione romana vista “dalla parte dei vinti”). Romulus cerca di ricostruire, anche con qualche ambizione di verosimiglianza fuori dalle comuni leggende e con l’ausilio di consulenti archeologi e antichisti, la storia delle origini di Roma lungo l’VIII secolo a.C. nell’ambito delle molte città e popolazioni che allora abitavano il Lazio e della contese dinastiche e di dominio che fra esse si accendevano; durante le quali sarebbe venuta progressivamente affermandosi una popolazione particolarmente feroce e inizialmente “ai margini” degli altri popoli, senza una propria città, dedita al culto di una Divinità Madre dei Lupi (residuo di ancestrali pratiche rituali forse risalenti al tardo Neolitico) e da cui invece poi trarrà origine la grande Roma. Qui non ci interessa come e con quali modalità per altro molto innovative si sviluppa la storia raccontata nella serie: ci interessa far notare che giustamente regista e autori pressoché in modo ininterrotto facciano risaltare come a quei tempi arcaici religione, culto delle varie divinità, riti, sacrifici, decisioni stesse sul come agire dipendessero totalmente da una vita permeata di “sacro” e di “religiosità”: tutta la natura e i suoi “misteri”, tutti gli accadimenti quotidiani e ovviamente i sacrifici e i riti dei Sacerdoti erano concentrati sul tentare di conoscere la volontà degli dei e sul desiderio di averli a fianco come protettori e non come nemici (in modo meno rilevante ma ugualmente decisivo la cosa compare anche in Britannia e in Barbari). Ogni fenomeno naturale e umano, ogni impulso interiore erano ricondotti alla dimensione “sacra” dell’invisibile mondo divino e delle sue spesso imperscrutabili volontà. La serie insiste moltissimo su questo e a ragione, come gli studi del resto da tanto ci suggeriscono circa le popolazioni arcaiche e primitive. La storia è narrata mettendo continuamente in luce lo stretto nesso tra divino ed umano, tra “sacro” e mortale. Il mondo è un “pieno” di presenze invisibili e determinanti: presenze che possono destabilizzare ma, se ben comprese e interpretate, possono invece dare senso al destino di ogni esistenza ovviamente a partire da Re ed eroi. È significativo perciò che in questa serie totalmente “italiana” su Roma si dispieghi un massimo di sperimentalismo narrativo, il cui epicentro è di fatto la narrazione del “sacro” originario, di quel “sacro” di cui oggi invece avvertiamo il “vuoto” sostanziale. Ammaniti, Sorrentino, Rovere, ognuno a proprio modo e ognuno in debito con Pasolini (ovviamente anche il Pasolini dei film sul mondo greco arcaico del mito, del teatro tragico antico, Edipo Re e Medea), cambiano gli statuti narrativi della serialità televisiva e a partire da quel grande e inevaso “vuoto” che la fuga del e dal “sacro” ci ha lasciato. Le serie TV prendono così una straordinaria strada sperimentale in questi ultimissimi anni e proprio in Italia.
Altrettanto sperimentale ma completamente diversa nei temi è la serie We are who We are di Luca Guadagnino: in una base militare americana nei pressi di Chioggia il regista segue secondo un canovaccio totalmente “orizzontale” e senza un bandolo narrativo unico di riferimento le vicende di un gruppo di adolescenti americani che vivono nella base con le famiglie e nel loro girovagare tra la base, il mare e Chioggia fanno amicizia e hanno legami anche con coetanei italiani. Lo “sfondo” è tipico dell’originale vena cinematografica di Guadagnino. In Chiamami col tuo nome (2017), film che lo ha consacrato (anche con vari premi fra cui un Oscar per la sceneggiatura) alla fama internazionale lo scenario è molto simile: anche lì tutto si svolge in un’Italia di provincia, quasi irriconoscibile, lontanissima dalle logore inquadrature dell’Italia più nota ai turisti. Nel film l’azione si svolgeva infatti in una villa nei dintorni di Crema, in Lombardia, d’estate, nel pieno della Bassa Padana e anche lì il protagonista era un giovane adolescente americano con la sua famiglia, ben inserito nei perimetri della provincia italiana estiva ma in ricerca della sua identità sessuale ed esistenziale, temi molto cari a Guadagnino, forse oggi il più significativo regista in circolazione nel racconto dell’”età ingrata”. Nella serie TV la provincia italiana si sposta in una Chioggia deserta e desolata, brulla nelle sue spiagge lagunari battute dal vento e nelle algide abitazioni della base militare. Nulla che faccia ricordare il “Bel Paese”: neppure una inquadratura che giunga fino a Venezia. Solo nel finale i due adolescenti americani protagonisti, nel ritrovarsi a Bologna per un concerto, approdano all’alba in uno spicchio dei portici di Bologna (il Meloncello) nei pressi del santuario di San Luca. Citazione paesaggistica per altro poco riconoscibile a chi non sia bolognese e del tutto “onirica” nella sua collocazione narrativa. Insomma Guadagnino è un vero maestro della tecnica dello “straniamento” da sempre così decisiva in letteratura: collocando il suo punto di vista fuori dai percorsi consueti e mescolando giovani americani con la provincia italiana (non poi così diversa in realtà dalla provincia americana in quel contesto di omologazione globale che appunto già Pasolini aveva benissimo individuato) gli riesce di portare in evidenza tutte le contraddizioni, le lacerazioni, i dubbi, i drammi, le paure dell’adolescenza. In questo la serie è davvero straordinaria: a partire da una comune ricerca di senso di “genere” dei protagonisti, un ragazzo e una ragazza (imbarazzati e attratti al tempo stesso dalla confusione dei generi e dalle identità sessuali e sentimentali le più diverse), il regista (che si giova di un cast di giovanissimi attori di grande livello) porta in luce l’universo autoreferenziale dell’adolescenza, una autoreferenzialità al limite della “sordità” per tutto ciò che accade intorno nel mondo degli “altri”. La distanza dalle famiglie e dagli adulti anche quando questi sono “trasgressivi” (il ragazzo ha una famiglia “gay”, senza un padre e con “due” madri militari, di cui una proprio a Capo della base, che vivono fra di loro sposate come coppia lesbo) è radicale: la ribellione dell’adolescente esplode di continuo anche nella famiglia non convenzionale. L’adolescente deve essere comunque “contro” e trovare da sé la strada.
Non c’è una vera trama e Guadagnino, con eleganza e discrezione, è come se seguisse con la macchina da presa “nascosta” le peripezie talora banali talora trasgressive talora inconcludenti della banda singolare di questi adolescenti americani e veneti sempre in ansiosa rincorsa fra di loro in un territorio limitatissimo intorno alla Base e a Chioggia. Tanto che il complicato viaggio finale a Bologna dei due protagonisti principali per assistere al concerto di un gruppo musicale americano sembra avere i contorni di un’avventura straordinaria come lo è di fatto per l’universo tutto particolare e “parallelo” del mondo adolescente. Insomma ancora una volta, e questa volta in modo radicale e totalmente sperimentale, ci troviamo di fronte a una “storia” senza plot (in debito anche verso i grandi narratori statunitensi che prima richiamavamo, specie Foster Wallace e McIntosh, e ovviamente verso il romanzo da cui tutto comincia per ciò che concerne l’adolescenza, Il giovane Holden di Salinger del 1951), a un susseguirsi di piccole e meno piccole peripezie, di drammi, di lutti, di giocosità, di trasgressioni tentate con imbarazzo che vengono alla fine a configurarsi come uno straordinario e collettivo “romanzo di formazione” della generazione del nuovo Millennio nello specchio della provincia italiana tra “Chioggia e il West” (per parafrasare Guccini). Si badi: da tempo le piattaforme TV (soprattutto Netflix), avendo negli adolescenti un pubblico molto ampio, hanno messo in campo serie di varia natura che si ispirano con grande efficacia narrativa e con grande capacità di riprodurre linguaggi e modi di quella generazione, al mondo degli adolescenti, serie tutte di grande successo fra i giovani ma anche fra i genitori ansiosi di tentare di comprendere (attraverso le serie TV… che paradosso!) il mondo, talora impenetrabile, dei loro figli. E così si passa con Netflix da serie intelligenti e ricche di ironia come Skam (con la variante Skam Italia) o all’inglese Sex Education alla drammatica serie italiana Baby (che ha avuto un grande successo mondiale) alla serie statunitense HBO/Sky di assoluto livello sperimentale e provocatorio, Euphoria del 2019, da cui in parte forse ha ricavato qualche suggestione lo stesso Guadagnino. Non è che siano mancate insomma e manchino serie intorno ai temi generazionali: l’assoluta originalità di Guadagnino è di averne fatto terreno per un grande progetto sperimentale sia nella rappresentazione di quel mondo giovanile e del suo “apprendistato” sia nel mettere in campo procedure narrative del tutto inedite per un progetto seriale.
Chi capì in tempi ormai lontani con lucidità grandissima le potenzialità anche sperimentali della narrazione seriale televisiva fu il regista tedesco Rainer Werner Fassbinder che nel 1980 aveva diretto in 14 episodi la serie (di nicchia e splendida) ispirata all’omonimo romanzo di Döblin, Berlin Alexanderplatz: la cosa straordinaria è che Fassbinder, uno dei registi più “irregolari” e grandi di tutti i tempi, creò e diresse questa serie ancora oggi d’avanguardia non tanto o non solo per contrapporsi alla serialità banale e paludata di quei tempi (imperversavano le soap opera o in Germania e in Italia i telefilm de L’ispettore Derrick) quanto nella precisa consapevolezza dell’importanza di forme nuove di narrazione con nuovi strumenti (Fassbinder sperimentò sempre nei suoi film generi e linguaggi spesso inediti e inconsueti in apprendistato dal grandissimo Kubrick) da frequentare con onnivora e vorace curiosità. Allora la sperimentazione che oggi osserviamo coraggiosamente farsi largo nei palinsesti delle piattaforme TV e con un punto decisivo di riferimento in Italia ha padri nobili che abbiamo evocato: Pasolini, Moretti, Fassbinder, Kubrick, Bergman (non dimentichiamo che il grande Maestro svedese firmò nel 1982 uno straordinario film, Fanny e Alexander, nato in origine, con 5 ore di durata infatti, come film/serie per la TV) e molti altri, fra cui ovviamente i tanti scrittori di romanzi e i classici della letteratura che via via abbiamo citato. Ed è evidente perciò come tutta la serialità televisiva di oggi (lo dicevamo all’inizio) anche nelle sue ultimissime prove tanto deve al romanzo e alla pratica letteraria in un intreccio di cui appena possiamo cominciare a intravedere oggi potenti sviluppi e imprevedibili prospettive (il “gioco della letteratura” affrontato a suo tempo proprio da Griselda). Ci raccontiamo “storie”, “narriamo” con la potenza dell’immaginazione dalla notte dei tempi: non dobbiamo mai smettere di esserne affascinati e soprattutto non dobbiamo mai stancarci di osservare le infinite modalità e i sempre nuovi mezzi con cui questa nostra peculiarità, tutta umana, va continuamente trasformandosi, pur riproducendo in molti casi suggestioni e trame ancestrali.
Bologna, 20 dicembre 2020