Anna Chisena e Andrea Severi - Una Commedia da Paniko

 

Una volta Tullio De Mauro disse che nella lingua della Commedia di Dante si sentivano i tanti chilometri che Dante aveva macinato nel suo esilio, tra l’Appennino e il piano padano dell’Italia. Senza tutto quel peregrinare il capolavoro di Dante non sarebbe divenuto quello che leggiamo oggi. La lingua che Dante aveva creato, perso dietro quella “pantera odorosa” di cui parla nel De vulgari eloquentia, ha insomma come presupposto un enorme esercizio fisico, che oggi, in una ricezione comoda e tutta intellettuale del capolavoro dantesco, quasi mai si avverte.

Come Dante, anche gli artisti del circo Paniko – collettivo nomade internazionale di artisti circensi, musicisti, liberi pensatori – hanno girato parecchio, da Perugia a New Delhi, da Bologna a Barcellona, e all’ombra delle Due Torri sono tornati per proporre lo spettacolo ispirato all’Inferno dantesco: la Panikommedia. Atto estremo, a tratti irriverente, di Fortleben (come direbbe il loro “dottore” con accento tedesco) della Commedia, in una città, Bologna, che è stata, sin dal Trecento, culla della sua esegesi.

Nella miriade di iniziative, cartelloni, rassegne, incontri, letture con e senza commento, proiezioni, concerti, nuove edizioni, nuovi commenti che hanno costellato il fatidico 2021, anno del settimo centenario della morte di Dante, l’omaggio più fisico e originale, ginnico e acrobatico al «sacrato poema» dantesco è stato tributato da questo spettacolo circense, che era già stato messo in scena nei mesi scorsi in varie città italiane ma è stato replicato decine di volte nelle settimane dal 18 settembre all’1 novembre scorsi nel parco bolognese di villa Angeletti e apprezzato da circa millecinquecento spettatori.

Alieni da qualunque scrupolo filologico, e dotati di quella spavalderia indispensabile per mettere da parte ogni timor reverenziale nei confronti del «Sommo Poeta», gli artisti del Circo Paniko hanno rivisitato l’Inferno e tentato di avvicinarsi al Paradiso, trasbordando l’imbuto dei peccati in un falotico condominio delle vanità, i cui interni sono occupati da drag queen, suicidi, barboni, fannulloni, mammine nevrotiche e amministratori laureati in Lettere con velleità dantesche.

Lontanissimo dall’immaginario solito in cui tutti noi, fin dagli anni della scuola, siamo stati abituati a incasellare la Commedia, l’oltretomba Paniko è privo del consueto corredo di diavoli, di Ulisse, e di code uncinate. Lo spettatore potrebbe pertanto sentirsi perso nella traversata. Non ci sono guide a indirizzarlo: solo, nella scenografia, familiari risultano una cartina scolorita con la struttura dell’Inferno e un ritratto di Dante, riproposto nella classica posa di profilo, quale protettore lontano di questo onirico viaggio.

L’ingresso di questa moderna “città dolente” è costituito da un ascensore di un condominio più infernale del consueto. Attraverso le sue porte, che si aprono e chiudono rapidamente, un Dante agens tramortito si sposta fra i vari cerchi infernali, lottando – tra la farsa e la caricatura – per poter entrare sulla scena.  A venirgli incontro non c’è però alcun Virgilio, né altra guida rassicurante che lo conduca tra i piani di un palazzo dove se ne vedono di tutti i colori; al più, Dante incappa in scombicchierati fan che sarebbe meglio perdere che trovare. Il pellegrino è significativamente privo di parola: l’afasia che lo ha colpito è superata solo dalla musica che suona dal vivo, alternando il piano al contrabbasso, il sitar allo xilofono e a strumenti da lui inventati.

Il viaggio intrapreso, anche in questo caso, non risulta facile, non rincuora. Ad ogni cerchio/piano si incontra un dannato diverso: un neghittoso pantofolaio che fa di tutto per non fare nulla, e che per questo adatta il divano di casa a proprio microcosmo; un medico con inconfondibile parlata tedesca, il dottor Hannes Klaus Kleinepille, circondato da un codazzo di assistenti, desideroso di sperimentare sul malcapitato di turno i suoi preparati («pilloline»), e il cui pronunciamento sulla malattia del paziente è atteso come il giudizio del guardiano dell’inferno Minosse; un pedante letterato in canottiera, che nell’intimità della sua toilette si prepara per diventare un «loico» come Cavalcanti ma che risulta infine un semplice assistente universitario impacciato e stralunato uscito dalla penna di Ermanno Cavazzoni. C’è poi un “Giangiotto” (sic, con la ‘g’), che evoca il Malatesta cornuto marito di Francesca: dal basso del divanetto su cui passa la giornata sciorina luoghi comuni come verità inconfutabili. La sua indolenza sembra quasi suggerire allo spettatore la giustificazione del tradimento di Francesca con il cognato (che immagineremo assai più vitale). Altri personaggi si aggirano sul palcoscenico oltremondano privi di qualsiasi speranza di potervi uscire: una mamma fin troppo sola, una drag con la testa in un acquario, e poi Franco Basaglio, un migrante le cui parole al vento seminano vane speranze come l’«orazion picciola» del marinaio Ulisse, ma che, contrariamente al re di Itaca, non ha alcun compagno da chiamare in correità; infine, ma non per importanza, un’artista che minaccia di ammazzarsi, rischiando di cadere nella selva dei suicidi (ma che in realtà altro non è che la selva delle teste degli spettatori)… Attraverso la corda e il trapezio cui è appesa, l’acrobata potrebbe sembrare una Francesca rapita dalla furia del vento infernale. A guardar bene, è invece una Beatrice che non disdegna di calarsi in questo buffo inferno, attirando verso l’alto gli sguardi degli spettatori, impossibilitati a «riveder le stelle» dal tendone del circo, ma che rimangono a bocca aperta nel vedere rappresentato fisicamente, dopo tanto averne sentito parlare, il meccanismo della grazia, una grazia funambolica e circense.

A tratti, ma sono solo momenti, ci sembra di intravedere qualche forma di riscatto: così è quando tutti i protagonisti di questo spettacolo, con straordinaria bravura, tentano di avvicinarsi al regno celeste mettendo in musica e cantando “Vergine madre”, come farebbero i beati. Ma è pura illusione, che subito svanisce in nuove infernali acrobazie. L’essenza di questa scombinata avventura si incarna nella figura del dantista in canotta, assistente universitario alienato dal mondo e circondato dalle pagine di libri letti compulsivamente. Come il Nembrot dantesco, le parole con le quali cerca di spiegarci il “Sommo” sono confuse in un grammelot drammatico ma a tratti esilarante. Il senso supremo del suo incomprensibile discorso, che sembra sintetizzare secoli e secoli di esegesi dantesca, si trova nelle poche frasi che riusciamo a intendere: “il Purgatorio cosa è? Il Purgatorio è uguale alle Poste!”.

 

Pubblicato il 24/12/2021