Monica Longobardi - Lúçeghe, sepie, rondinèle: un bestiario per Pasolini Franco Scataglini e Paolo Bertolani

 

«E’ paradéis l’è brótt

S’un gnè un po’ d’animèli»[1]

 

«Mi basterebbe essere una virgola nella storia della letteratura», confidava Franco Scataglini (Ancona, 1930-1994) all’amico Gilberto Severini[2]. Con queste parole, il poeta che ha ‘risognato’ nel Novecento il Roman de la Rose di Guillaume de Lorris sognava pure il coronamento della sua lunga marcia nel mondo delle lettere. Autodidatta coltissimo, esercitò vari mestieri tra cui l’impiegato delle Poste, sino al 1976, sognando Jaufre Rudel:

Quanto agli autori, amo Rudel come se fosse qui: la vida provenzale ce lo tramanda come colui che «fez de leis mains vers ab bon sons, ab paubres motz»: fece delle belle melodie con povere parole. È ciò che ho cercato di fare con il mio anconetano, quali che siano gli esiti. La canzone «Quan lo rius de la fontana» io l’ho imparata a memoria. Mi portavo il libretto di Rudel con me quando lavoravo di notte alle «Raccomandate» di Posta-Ferrovia, in Ancona: i miei colleghi, piuttosto ruvidi, finirono per accettare e proteggere quel mio laborioso appartarmi[3].

Di quell’esperienza frustrante o almeno insufficiente per la sua statura di poeta, in attesa di una chiamata che lo portasse fuori dai binari di una vita ordinaria, resta una sconsolata poesia di E per un frutto piace tutto un orto, la sua prima raccolta in neovolgare (1973), in cui si noti una rima impagabile pratiche / natiche:

Resto solo in uficio: / la fronte contro i vetri. / Sorte da l’edificio / i miei colleghi tetri. // C’è sopra el tavolí / una spasa de pratiche. / Su la sedia, ’l cuscì / col segno de le natiche[4].

Ed oggi, ecco uscire per Quodlibet, Tutte le poesie. La prefazione è di Pier Vincenzo Mengaldo (pp. IX-XXI); l’introduzione (pp. XXIII-CVI) e la cura filologica di Paolo Canettieri[5]. Ed esce nella collana di poesia bilingue «Ardilut»; ardilut, il nome della valeriana selvatica nel friulano di Pasolini, un faro, con Pound, per lo Scataglini che, come già il Pasolini di Poesie a Casarsa[6], attinge alle origini romanze[7] per elevare a dignità letteraria la sua piccola patria periferica. Scataglini e la sua lingua poetica pigmentata di dialetto, una sorta di stato aurorale dell’italiano delle origini («un neovolgare eterno», Agamben, p. VIII)[8]: un agontano illustre e popolare[9], mai vernacolo[10]; l’alto e il basso che si allacciano elettivamente nelle rime[11]. Potremmo usare, in proposito, una sua immagine, creata nella Rosa, per significare la potenza di Amore che livella gli stati sociali scaleni degli amanti: «All’imo l’alto aguaglia. / ’L falco sposa a la quaglia» (Scataglini, 2022, p. 395). E anche in questo caso di traduzione innovativa, gli animali, come vedremo, popolano la poesia di Franco Scataglini.

Questo traguardo dell’edizione odierna giunge dopo decenni di semi-oblio, quando le sue opere erano ormai introvabili[12]. Infatti, raggiunta l’agognata meta della sua consacrazione nel mondo letterario, grazie all’apprezzamento di Carlo Betocchi, Pier Vincenzo Mengaldo, Cesare Segre, Franco Brevini, tra gli altri, ecco la morte prematura interrompere per sempre il «sogno fine» di Scataglini. E se è vero, come dice Attilio Bertolucci, che «per tutti i veri poeti è la prima posterità la più crudele» (Lagazzi, 2020, p. 22), anche su Scataglini l’attenzione si era diradata dopo la sua morte, custodita nelle sue Marche[13], quando nel 2014, a Ferrara, gli dedicai – con la collaborazione di Tiziana Mattioli – [14] un convegno nazionale[15], affinché quella virgola volatile sul rigo di scrittura diventasse un punto fermo.

In quell’anno accademico, infatti, dedicai un intero corso universitario alle traduzioni del poema allegorico più noto del medioevo[16], e in particolare a La Rosa di Scataglini, la più bella in assoluto. Corso coronato da un altro convegno ferrarese dove s’incontravano filologi e traduttori editoriali: Sulla traduzione letteraria delle lingue romanze [17], un campo in cui ancora vigevano idées reçues di vecchissimo conio. E fu La Rosa a costituire la pietra di paragone per un vero laboratorio sulle sue riscritture[18]: una traduzione-rifacimento magistrale, al contempo fedele e innovativa, con un lavoro quasi artigianale nel ricostruire il suo nuovo edificio di rime e ritmi, dallo smantellamento dell’antico modello medievale.

Nel 2018, infine, la raccolta di tre miei saggi sul nostro autore: un confronto tra Scataglini e Caproni, alle prese con l’elaborazione poetica del lutto delle proprie madri[19], e la scoperta di un inedito, foltissimo bestiario scatagliniano[20]. «Mi basterebbe essere una virgola nella storia della»… riscoperta di questo poeta («certamente fra i massimi del Novecento», Agamben, p. VII), potrei auspicare duettando con i sogni di Scataglini.

 

La sepia dalfinata!

Ed ecco colgo un’altra coincidenza (ma non ci sono coincidenze…) in un volume dedicato a Pasolini, uscito in questo marzo in cui si celebra il centenario della sua nascita: «Stavo leggendo un breve poemetto del poeta anconitano Franco Scataglini dedicato a Pasolini, Philodemon, e mi sono semplicemente accorto che le poesie in vario modo dedicate a P.P.P. erano tante…», p. VI. Così Roberto Galaverni rivelava il diritto di primogenitura assegnato al nostro poeta nella genesi della sua antologia[21]. E, a proposito di poesie dedicate a Pasolini, poesie che, come recita il nostro titolo, per questo ufficio usano immagini di animali, nella medesima collana «Ardilut» (oggi antologizzato in Galaverni)[22] è uscito El critoleo del corpo fracassao, di Biagio Marin[23], che usò lo scricchiolio delle conchiglie calpestate per evocare lo strazio del suo cadavere[24].

In apertura a Philodemon, sorta di trittico in morte di Pasolini, Scataglini pare tratteggiarne il corpo martoriato tramite l’immagine della sepia dalfinata, quella che il delfino morsica per gioco e che si va a spiaggiare, mutilata, su una risacca adriatica[25] («su l’indolente sì – / sì d’antimamo») che ricorda tanto l’Idroscalo di Ostia[26].  Così si apre Philodemon:

 

La sepia dalfinata!

strise[27] l’omo da prua

e livida spezata

cosa sgrondò la sua

 

anima d’acqua inchiostro

(i tondi da Gorgona

ochi de sepia).

                       A ostro

ributata.

              Abandona

 

così preda el dalfí,

dopo adentata, al mare

su l’indolente sì–

sì d’antimamo[28] (o fiare[29]

meridiane!...)

 

La seppia spezzata che spurga la sua anima intrisa di nero-inchiostro, immagine di un ecce homo[30].

Supplizi di animali, tanti nel suo bestiario, prede senza via di fuga: Insetto de Passió: «Io so’ come la ziza / ’mpicata al fil da cuge / che dal dulor s’intiza / però non pole fuge» [31]. Animali intrappolati in un destino di morte e che si fanno figura del poeta: da quelli mitologici e araldici, come il Minotauro rinchiuso nel labirinto[32], e, attraverso l’emblematico mattatoio[33], sino all’umilissimo bàllero[34], un mollusco che vive nascosto nei cosiddetti “sassi morti”, sinché viene la morte (non proprio con la falce, ma con lo scalpello dei pescatori) a stanarlo.

Agonia che risuona anche in «el stride del maiale / c’a l’alba àne sgozato»[35]. Ostie sacrificali che si fanno figura degli intellettuali oppositori dei regimi e che i regimi macellano[36]:

 

Pasolini l’istesso
su la radura squallida,
el verso drento al sesso
cercato, sbora pallida.

 

Le catastrofi sorte
in grazie de le strofe.
Non c'è ironia: a la morte
se va tuti da scrofe»[37].

 

Le creatùe menùde di Paolo Bertolani

«Ed ecco colgo un’altra coincidenza (ma non ci sono coincidenze…)» nel volume di Roberto Galaverni: la presenza di due poesie di Paolo Bertolani dedicate a Pasolini, anch’esse sagomate attorno agli animali: lucciole (p. 20) e rondini (pp. 21-22).

È da qualche tempo che leggo la poesia di Paolo Bertolani (La Serra di Lerici,1931-2007)[38], nel suo incantevole dialetto periferico senza tradizioni letterarie; di un’adolescenza senza libri, di un destino minore di guardia municipale (a guardia bèla). E poi di una rimonta tenace di autodidatta dalla sua marginalità culturale[39], sodalizi poetici molteplici, tra cui quello paterno di Attilio Bertolucci[40], in quel Golfo dei Poeti[41], terra elettiva di molti letterati dall’Ottocento ad oggi[42], e dove dal 2020 campeggia un’epigrafe che si riferisce a lui come al «miglior fabbro del parlar materno»[43]. E materno pure poiché è «Nel tenero dialetto delle madri»[44] che Bertolani forgia la sua lingua del cuore, il suo lessico familiare che sa di morte annate. Quasi un ‘avernese’ dell’al di qua, per parlare con i Reire[45], e con «le spoglie gentili» che permangono solo nella memoria[46].

Insomma, nella vita ‘marginale’ di Paolo Bertolani leggo molte analogie con quella di Franco Scataglini, solo che per lui la constatazione: «per tutti i veri poeti è la prima posterità la più crudele» e la sua «lunga marcia» ancora vigono, le sue raccolte sparse e di difficile reperimento, gli studi critici diradati. E l’ultima analogia che riscontro è questo omaggio a Pasolini, che non sorprende, va da sé, in un autore che si consacra a «guardiàn de góse» (custode delle voci)[47], ma pure a scriba-dragomanno, l’antica figura dell’interprete, di ambasciatore, di guida ai luoghi del suo altrove:

Era tutto un folto / di creature minute / – uccelli, bambini / miele – / che chiedeva di non essere dimenticato // – e ci sono io, che mi illudo / di essere l’incaricato a inchiodarlo alla croce / del foglio, questo folto ormai secco, / da secoli andato.[48]

Rabdomante dei tesori nascosti del suo mondo contadino[49] ormai svuotato dall’omologazione linguistica[50] e culturale[51]. Il suo malinconico Ubi sunt: «I nó gh’è pu»[52]. E lo fa captando nell’aria (mi viene da pensare, divertita, che Bertolani ottenne il diploma di radiotelegrafista)[53] «’e góse (le voci) … del ciclo senza tempo della natura (uccelli, grilli e un vasto bestiario silvestre e domestico…), o ancora i rumori delle stagioni e degli agenti atmosferici»[54]. Dunque, così come ho fatto scoprendo il bestiario dell’anconetano Franco Scataglini[55] (uccelli e pesci comuni, in larga parte, persino prestati al suo immaginario erotico)[56], mi piacerà censire quello rurale di Bertolani.

Ma è ora di arrivare all’occasione che mi muove oggi: le poesie per Pasolini. La prima è proprio in morte del poeta:

E lúçeghe (a Pasolini)[57]

Nó t’avi ito, te,

che l’én tute spaí?

Se avóa te podessi èsse chí

 

a vede come de lóo

la lúçega a valada,

e quante ’n remana

 

pe a strada, schissà dae rède,

propio come l’è sta per te

l’inverno che con Tilio dar muagión

 

leséndote a diséve

che ’ncò se t’avi torto

t’avi rasón».

 

La scelta delle lucciole è un chiaro rimando ad un animale che già Pasolini aveva eletto a tracciare una catastrofe ecologica e antropologica di un’umile Italia scomparsa[58], non c’è bisogno di spiegarlo, anche se, come quella di Scataglini, la poesia di Bertolani comunque è popolata di creatùe menùde, per lo più volatili, che s’intonano al suo immaginario legato all’entroterra ligure[59]. E v’è da rilevare che di tante poesie dedicate a Pasolini raccolte da Galaverni, solo Scataglini e Bertolani evocano francamente animali, con l’eccezione un po’ obliqua di Marin, come si è visto, e di Zanzotto[60]. Ma rispetto alla lucciola di Zanzotto, tutta e solo ‘pasoliniana’, il quadro di Bertolani è più arioso, mosso, pulsante, talché arriva inaspettata la stoccata delle lucciole schiacciate sotto le ruote «proprio com’è stato per te». Dunque un animale d’aria e acqua («gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti» di Pasolini), delle polle cui si abbeverano le minute creature in Camìn de l’àigua[61] che ricorda tanto la poesia panica di Antonio Bodrero, grandissimo poeta delle nostre vallate occitane («Ah Buonafonte, fonte dell’acqua e dell’aria»)[62]. Ma la poesia di Bertolani non si esaurisce in questa chiave paesaggistica o solo pasoliniana. Se la matrice profonda della nostra letteratura è ineludibile (come fu per Pasolini), non si può non riconoscerla in Dante, i versi di Bertolani sulle lucciole «a vede come de lóo / la lúçega a valada» sono colati nello stampo di «vede lucciole giù per la vallea» («… di tante fiamme tutta risplendea / l’ottava bolgia», Inf. XXVI, 29-32). E ogni dubbio di abbaglio si fuga leggendo l’incipit di un’altra sua poesia (Come na man spèrta): «Avóa ch’lè sea e l’han smisso ’e sigàe / che ’a móscua la dà lègo aa sensàa»[63] che completa il passo dantesco («come la mosca cede a la zanzara»).

E toni danteschi riconosco pure nell’incipit dell’altra poesia dedicata a Pasolini,’E rondinèle, con quei budèi-voragini, quel magnifico verbo ‘serpentare’, oltre che, è palese, per quella selva oscura, dove sono condannati a brulicare, come vermi, uomini senza volto e senza nome[64]:

 

 A vorélo miàe drent’a i mile

 budèi chi le serpénte,

 er mondo i n’apaìssa na spece

 de mación scuo – e i omi che drento

 i ghe bordìghe

 déntici tuti, 

tuti snomà…

 

«A volerlo guardare dentro i mille / budelli che lo serpentano, / il mondo ci appare una sorta / di selva oscura – e gli uomini dentro / vi rovistano / identici tutti, / tutti senza nome…».

E alla commiserazione della nuova “selva oscura” si unisce la voce di Pasolini, «profeta immalinconito» (’ndovìn agomì)[65], Pasolini… che anche se aveva torto, aveva ragione[66]. Bertolani che pativa (e registrava come un sismografo) la ruina del suo universo contadino, del cancellarsi dei «nomi del mondo»[67]. E le rondini? Anche questo volatile è carico di rimandi nella tradizione poetica italiana, ma, in prima istanza, omaggia, tra le altre opere in cui ritorna[68], una famosa poesia di Pasolini («Ah, rondini, umilissima voce / dell'umile Italia!»), la poesia delle rondini, che mutua da Dante («di quella umile Italia fia salute», Inf. I, 106)[69] il titolo L’umile Italia. E le rondini accompagneranno Bertolani sino all’ultima raccolta, presaga della sua morte, dove è il poeta stesso schiacciato – era il destino delle lucciole, ricordate? – dalla cappa del suo cupo «cielo dentro», «de artro che me schissa…»[70].

Così, nella poesia dedicata a Pasolini, tra lo smarrirsi degli uomini senza nome nella selva oscura di un mondo sviluppato «senza progresso»[71], dal puntuale ritorno delle rondini potrebbe baluginare una speranza: 

 

Ma altre voci girano nella sera

raddolcita di questa Italia, più povera di quando

era povera da farci pietà.

Voci che vengono

dalle fessure della terra

a domandare credito: a dirci che qualcosa

sicuramente resta…

–        Le rondinelle

– dicono queste voci che vengono

di là da tutti i boschi e i monticelli,

i campi abbandonati.

–        Le rondinelle,

 che come viene aprile rifanno

 i voli usati…

 

Ma è sempre più difficile rispondere al loro nuovo aprile con lo slancio di un sogno:

 

Ma dalla nebbia del mondo

che ci confonde, ditemi voi

chi riesce

–        voi voci gentili venute

dalle morte annate

a darci nuovo slancio –

                                       chi trova

l’ardire di guardarle

(di farci sopra un sogno)

le belle rondinelle all’imbrunire.

 

«e bèle rondinèle ’nte scuìe».

 

2 maggio 2022

 


[1] Tonino Guerra, in Le parole di legno. Poesia in dialetto del ’900 italiano, a cura di M. Chiesa e G. Tesio, Milano, A. Mondadori, 1984, vol. II, p. 26.

[2] G. Severini, La lunga marcia, in La poesia di Franco Scataglini, Atti del Convegno di Studi (Ancona, 3-4 dicembre 1998), a cura di M. Raffaeli e F. Scarabicchi, Ancona, Il lavoro editoriale, 2000, pp. 145-149, citato da p. 148.

[3] F. Scataglini, Questionario per i poeti in dialetto, «Diverse lingue», III, 5/1, 1988, pp. 27-35; Scataglini, 2022, p. LXXX.

[4] M. Longobardi, Il giardino e la rosa. Tre saggi per Franco Scataglini, (MIMESIS / UnifeStum Collana del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara N. 4), Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2018, p. 22, nota 43 (d’ora in avanti, Longobardi, 2018), Scataglini, 2022, pp. 61-62.

[5] F. Scataglini, Tutte le poesie, avvertenza di G. Agamben; prefazione di P.V. Mengaldo; a cura di P. Canettieri, Macerata, Quodlibet, 2022, («Ardilut» 5), (vi si farà riferimento come Scataglini, 2022). L’edizione include anche altre prove poetiche, tra cui l’esordio in versi italiani (Echi, Ancona, Stab. Tip. S.E.V.A., 1950) e La tortora quinaria («un abbozzo di raccolta non data alle stampe, ma ben organizzata in ogni sua parte, La tortora quinaria», Scataglini, 2022, p. LXXV); ma soprattutto mette a disposizione un Glossario esaustivo, pp. 841-948.

[6] La precoce esperienza delle Poesie a Casarsa (Bologna, Libreria antiquaria Mario Landi, 1942) origina proprio dai suoi studi sulla poesia trobadorica. Per i corsi universitari di Filologia romanza seguiti da Pasolini, si veda G. Santato, Pier Paolo Pasolini: l’opera poetica, narrativa, cinematografica, te­atrale e saggistica: ricostruzione critica, Roma, Carocci, 2012, in part. p. 23.

[7] M. Longobardi, Franco Scataglini: un poeta romanzo. Dalla Rose alla Rosa, «Critica del testo», XVIII/1, 2015, pp. 199-243. Egli ricerca il suo “agontano illustre”, pedinandolo, oltre che nella letteratura francese e provenzale, anche negli autori italiani delle origini, per esempio, Giacomo da Lentini, evocato dallo stesso titolo della prima raccolta in neovolgare (E per un frutto piace tutto un orto) e nella poesia d’esordio che termina: «Maestro d’un maestro, / Jacopo da Lentini, / cosa ciavrà ’n canestro / ’sto Franco Scataglini?», Scataglini, 2022, p. 7. E lo ricerca anche negli ancessor marchigiani, come Olimpo da Sassoferrato, per cui si veda A. Fantasia, T. Mattioli, Per Olimpo da Sassoferrato: sinopie di un’antologia, «Critica del testo», XVIII/1, 2015, pp. 155-186.

[8] Le osservazioni di Canettieri: «La poesia di Scataglini è stata definita dialettale, neodialettale, neovolgare. Definizioni rischiosissime e fuorvianti per un pubblico non specialistico: di fatto, si tratta di una lingua d’autore fondata su un anconetano rivisitato sulla base di specifiche ricerche culte, condotte da un poeta autodidatta fra gli arcaismi della lingua dell’Italia mediana delle origini. Se i poeti dialettali giocano proprio sulla tensione che genera la distanza della loro lingua da quella letteraria, Franco Scataglini “lavorando in modo alacre ed eccellente su una parlata così prossima all’italiano, ne cava una sorta di variante preziosa e sperimentale, pigmentata della lingua letteraria (Mengaldo, 2001)”», Scataglini, 2022, pp. XXXII-XXXIII.

[9] Si senta Mengaldo: «Ma preferisco discorrere dell’ampia copia di vocaboli antipoetici, dotti o specialistici o realistici che attraversano così spesso la poesia di Scataglini (considero le voci di lingua, ma anche le dialettali prossime alla lingua). E per un frutto è una raccolta fondamentalmente lirica e perciò il fenomeno in questione vi si affaccia raramente: immanenza, manicure: ma la sua frequenza cresce in So’ rimaso la spina: ripiturata, frenatore, capotreno, lavandì, imbambolamento, demoliziò, schiavardà, operai, cantiere, fenomenale ecc. E soprattutto cresce, per le ragioni cui accenneremo, in Carta laniena: rotaie, cruciverba, motofurgoncì e latarolo, s’invagina, probabile coniazione dell’autore, edilizia, carpentieri, rionale / cinema, siderale, imbarcadero, carburaziò, lino/leum, testicoli, indomestiche, aspira/polvere, tivù, marciapiede, uint-serf, s’india (Dante), benzinareto, deltaplani, giumbo (anglismo per ‘tipo di aereoplano’; così anche in un testo del vecchio Montale), truviera ‘trovatrice’, shrapnels (già a suo tempo in Apollinaire), ecc. ecc.», Scataglini, 2022, pp. XIV-XV.

[10] «Scataglini rifugge chiaramente dalla rozzezza popolare del dialetto in quanto tale e dall’auto-ghettizzazione della poesia vernacolare. La sua poesia va messa accanto alle esperienze linguistiche dei trovatori e dei poeti duecenteschi, piuttosto che a quella dei municipali…“In termini esistenziali: l’assunzione del dialetto è connessa ad una segreta identificazione della mia vicenda di intellettuale solitario e isolato con quella degli uomini che vengono posti al margine della storia: gli esclusi, quelli che sono deprivati degli strumenti in cui il potere si manifesta: la lingua (incommensurabile per chi la guarda dal suo povero idioma di subalterno) e la cogenza dell’uso della forza quando viene irreparabilmente patita. La lingua dei servi, dunque: lingua dell’affettività domestica e del rassegnato abbandono al corso delle cose. Oppure lingua dell’oscenità e della bestemmia quando la rabbia può sollevare solo un empio brandello di bandiera contro la soggezione sociale diventata destino”», Scataglini, 2022, pp. XXXV-XXXVII.

[11] Oltre a strofe / scrofe, che vedremo a breve, e pratiche / natiche, appena viste, per La Rosa: «La cifra di Scataglini, anche in questo poemetto, è quella di accostare comune e ricercato, ad esempio accostando in rima lemme lemme: Gerusalemme, o anche, fuori di rima, il “drapo porpora d’Arabìa” definito “fresco de sartoria” (è sempre il Segre a notarlo). Poi si annoverano parole latine o latinismi usati in maniera giocosa, reminiscenze colte attinte da Dante, dalla poesia provenzale o da quella italiana dei primi secoli, con funzione sia nobilitante sia ironica», Scataglini, 2022, p. XLV.

[12] E per un frutto piace tutto un orto, prefazione di P. Acquabona, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1973. So’ rimaso la spina, prefazione di C. Betocchi, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977. Carta laniena, introduzione di F. Scarabicchi, postfazione e glossario di M. Raffaeli, Ancona, Residenza, 1982. Rimario agontano (1968-1986), a cura di F. Brevini, Milano, Scheiwiller, 1987. La rosa, prefazione di C. Segre, Torino, Einaudi, 1992.  El Sol, Milano, A. Mondadori, 1995.

[13] Regione, peraltro, dagli umori poetici vivacissimi. Si veda G. Garufi, La poesia delle Marche. Il Novecento e oltre, Ancona, Affinità Elettive, 2021. Ringrazio Eugenio de Signoribus che ho avuto il privilegio di conoscere a Cupra Marittima, dove vive, e che mi ha parlato della sua generazione di poeti e di Scataglini.

[14] Alla collega Tiziana Mattioli, che portò a Ferrara il contributo dell’Università di Urbino, si deve pure il precedente Per Franco Scataglini. Indagini di poesia, Atti del convegno Urbino, 9 maggio 2012, a cura di T. Mattioli, Rimini, Raffaelli editore, 2013.

[15] Il giardino e la rosa. Franco Scataglini oggi, (Ferrara, 24-25 novembre 2014), i saggi (Roberto Antonelli, Pietro G. Beltrami, Paolo Canettieri, Monica Longobardi, Tiziana Mattioli, Antonio Prete) pubblicati in «Critica del testo», XVIII/1, 2015.

[16] Era appena uscita una classica traduzione di servizio della Rose (G. de Lorris, J. de Meun, Romanzo della rosa, a cura di M. Liborio e S. De Laude; traduzione di M. Liborio, Torino, Einaudi, 2014), che finalmente però emancipava il testo di questo romanzo in versi da una vecchia e inappropriata “versione in poetichese”, ancorché integrale. Quella di Scataglini, invece, è una traduzione parziale, che corrisponde ai primi 1692 versi dell’originale.

[17] Sulla traduzione letteraria delle lingue romanze, Atti della Giornata di studi (Ferrara, 1 aprile 2014), a cura di M. Longobardi e A. Tarantino, «Romània Orientale», XXVII, 2014, pp. 5-242; Daniele Petruccioli si occupava del portoghese; Paolo Cherchi del catalano; Alfonso d’Agostino del castigliano, io del francese antico e Angela Tarantino del rumeno. Conclusioni di Pietro G. Beltrami.

[18] Una Rose è una Rosa è una Rosa. Le versioni poetiche del Roman de la Rose, pp. 87-120.

[19] «Nel secondo contributo (2016) scoprii per la prima volta distinte relazioni testuali fra Tre circostanze, da So’ rimaso la spina (1977), la poesia di Scataglini più incentrata sulla morte, e un ristretto manipolo di poesie di Caproni, consacrate al lutto per la madre Annina (da Il seme del piangere). Sono riflessioni sulla presenza della morte nella vita del poeta anconetano (la cardiopatia e l’infarto che ne decretarono la precarietà), ma anche un ricordo dell’intermittenza della morte osservata, da bambino, nell’epilessia della madre. Insomma, una sosta Ad portam inferi. Oltre ai richiami testuali, le interviste del poeta, i suoi sogni ricorrenti, le testimonianze di Rosellina cooperarono nel serrare una fitta rete di relazioni tra i due poeti (Scataglini intervistò Caproni, nella sua casa romana, nel 1980). Le due amate madri morte a pochi anni l’una dall’altra (1950 e 1953) e inseguite nel ricordo (assonanti nei nomi: Annina e Argentina), e infine la “prova” di un iperbato per entrambi i poeti, da cui spunta il comune amico: il poeta Carlo Betocchi», Longobardi, 2018, p. 21.

[20] Oltre all’articolo uscito su «Critica del Testo», 2015 (adesso Longobardi, 2018, pp. 25-66), vi univo «Tre circostanze»: tracce di una filigrana poetica tra Franco Scataglini e Giorgio Caproni, «Strumenti critici», n 140, XXXI, n.1, gennaio-aprile 2016, pp. 147-160 (Longobardi, 2018, pp. 67-81) e Il bestiario e il Bestiaires d’Amours di Franco Scataglini (Longobardi, 2018, pp. 83-125).

[21] P.P.P. Poesie Per Pasolini, a cura di R. Galaverni, Milano, Mondadori, 2022, cit. da p. VI; Philodemon alle pp. 145-147. Di Galaverni è pure la recensione all’opera omnia, Il dialetto della vita come l'antico volgare, «la Lettura - Corriere della Sera», 3 aprile 2022, p. 25.

[22] Una scelta di queste liriche si legge in Galaverni, 2022, pp. 88-92.

[23] B. Marin, El critoleo del corpo fracassao. Litanie a la memoria de Pier Paolo PasoliniLo scricchiolio del corpo fracassato. Litanie in memoria di Pier Paolo Pasolini, a cura di P. Camuffo e I. Crico, Macerata, Quodlibet, 2021. In appendice: Pier Paolo Pasolini nei diari di Biagio Marin: appunti di un itinerario privato di P. Camuffo. Il critoleo di cui parla Marin, di fatto, è parola che allude allo scricchiolio sinistro delle conchiglie calpestate dai piedi del bagnante, evocando le ossa del corpo di Pasolini frantumate dall’auto che lo finì. Di questa opera e del suo autore parlo più diffusamente in Ecce homo: tre modi poetici di evocare la morte di Pasolini, in pubblicazione.

[24] «In spiasa gera tante capesante / le me speteva site assieme a tu, / per êsse tolte su / prima d’êsse pestàe da male piante» («Sulla spiaggia c’erano tante cappesante; / mi aspettavano zitte assieme a te, / per essere raccolte / prima di essere pestate da piedi malvagi»): B. Marin, Poesie, a cura di C. Magris e E. Serra, Milano, Garzanti, 1981, pp. 306-307. Sin da piccolo, Biagio Marin raccolse conchiglie (in dialetto, le scusse, B. Marin, La vose de le scusse, Milano, Scheiwiller, 1969), conservandole tutta la vita come preziose reliquie del tempo dell’infanzia, lente concrezioni della perfezione del creato: B. Marin, Elogio delle conchiglie, Milano, Vanni Scheiwiller, 1965; A. Priore, Biagio Marin. Il poeta delle conchiglie, Trieste, Luglio editore, 2018. C. Grisancich, Conchiglie. Sessant'anni di poesia (1951-2011), a cura di W. Chiereghin, Trieste, Lint, 2011.

[25] Era un tipo di pesca ‘a terra’, sulla spiaggia dove si arenavano le seppie. Per il lessico dei pescatori anconetani, cfr. F. de Melis, Poesia e antropologia. Franco e i delfini: dolcezza e mancanza nei pescatori e in un poeta, «La Ricerca Folklorica», n. 41, 2000, pp. 129-131.

[26] Scataglini, 2022, pp. 222-225 (prima in Carta laniena).

[27] Gridò.

[28] antimamo: maretta, risacca. 

[29] Fiammelle.

[30] Nel terzo e ultimo quadro di Philodemon è evocato lo squallore del luogo delle sevizie: «… ’Nt’ un campeto // un’alfa a fari smòrci / (el stellato è un arazo / sculorito). / Erba, sorci / furtivi sopra el guazo // quando a voce soave / el caso dice: Rana. / Qualcuno agisce. / O nave / de la cità lontana».

[31] In So’ rimaso la spina ci sono altre ‘passioni’: oltre questo moscondoro catturato (ziza è vernacolare per cetonia), Scataglini, 2022, p. 140, per esempio, le cicale di mare (canocchie o pannocchie) morenti («Nochie che meze morte / sgríciula co’ le zampe / l’aria»), Scataglini, 2022, p. 74.

[32] «Mèz’omo e mèzo toro / andai p’i coridoi / dai architravi d’oro / e bianchi com’i scòi. // Fui servo de la brama / che m’ha cegato e vinto / fàtase fildelama / in fondo a labirinto», Scataglini, 2022, p. 161. «Minotauro… destinato a ritornare, ormai fossilizzato nella materia inerte dell’esistenza, nel bucranio scolpito sulla facciata del mattatoio», Scataglini, 2022, p. LXII.

[33] L’equiparazione dell’uomo con l’animale votato al sacrificio, nello stordimento del trapasso, si legge chiaramente in Io so’ ’sta vita esplosa: «Tortura e febre a caso / me viene dentro, e moro / senza morí e so’ raso / come ai macelli ’l toro», Scataglini, 2022, p. 48.

[34] «El bàllero ’nt’un scoio / scavato el bugio fondo / s’arduce a ’n vive spoio, / pavido d’esse al mondo. // Rintanato non sorte / da quella scurità / finché, ativa, la morte / ’n se mete a scarpelà.», Scataglini, 2022, p. 141.

[35] «Campi de Chiaravale / ’ndove c’andai sfolato / (el stride del maiale / c’a l’alba àne sgozato)», Scataglini, 2022, p. 132.

[36] «Una vittima del mattatoio dell’esistenza, in cui Scataglini riconosce il proprio destino e quello di tutti; perché poi mattatoio e bucranio evocano, in allegoria, la storia degli ebrei e della loro mattanza, “omini soto al giallo / astro de l’agonia” (Ferri, 2000). Vittime, come vittima fu Philodemon, un Pasolini amante del prorio (sic) demone, La sepia dalfinata», Scataglini, 2022, p. LXIII.

[37] Da C'era el fascista Horthy, in El Sol, pp. 109-110; Scataglini, 2022, p. 503. «il fascista ungherese Horthy, una spia che sopravvive, per la meschinità del torto, al poeta Attila József, o un altro poeta suicida, Vittorio Reta, lo stesso Pasolini: poeti morti scannati come maiali, senza ironia, per catastrofi nate «in grazia de le strofe», Scataglini, 2022, p. LXXIV.

[38] E sono già stata, ‘in incognito’, tra le strade della Serra, alla scuola a lui intitolata, ma soprattutto presso la sua tomba, che è tutto un mio modo ‘intimo’ di entrare in comunione con i luoghi di un poeta, l’ultima dimora soprattutto.

[39] «Tenace autodidatta… legge autori che risulteranno essenziali alla sua formazione: Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Flaubert, Leopardi…Kafka… Faulkner, Poe, Dreiser, Caldwell, … Dante… Pascoli, Porta… Belli… Baudelaire, Montaigne, Rimbaud…». Cfr. G. Adamo, Tra poesia e prosa, tra lingua e dialetto: la voce di Paolo Bertolani, «Strumenti critici», ns XX, 2005, pp. 291-318, cit. da p. 291.

[40] «Un giorno, girando per Lerici in divisa, Paolo incontra Bertolucci dal giornalaio…e gli dice: “Scusi se mi permetto, lei è Attilio Bertolucci?” Il poeta col panama in testa lo guarda, fissa la divisa e chiede di rimando: “Ho commesso qualche infrazione?”. La loro amicizia è nata così». Traggo molte di queste informazioni biografiche dalla bella monografia di P. Lagazzi, Quella ricchezza detta povertà. I sentieri di Paolo Bertolani, Forlì, CartaCanta Editore, 2020; questo primo incontro con Bertolucci si legge a p. 19. Tra le molte poesie a lui dedicate, colgo questa espressione toccante di riconoscenza: «l’è come te m’avessi misso ’n man / na messóa – a pu moà – e ’nsegnà / dond’i g’è alèsto ’r gran» («è come tu mi avessi messo in mano / una falce – la più affilata – e indicato / dove è pronto il grano»), P. Bertolani, ’E góse, l’aia, Parma, Guanda, 1988, p. 62. Il senso di vuoto per la sua scomparsa si legge in Come quando de nòte i tage ’a luse («Come quando di notte tagliano la luce»), P. Bertolani, Libi, con una nota di G. Tesio, Novara, Interlinea, 2001, pp. 88-90.

[41] «Non si capisce, infatti, il fenomeno Bertolani, se non si tiene presente che, a partire dal secondo dopoguerra, il Golfo di Spezia e Bocca di Magra in particolare, diventeranno la meta turistica prediletta di molti personaggi della cultura italiana; ad iniziare dagli editori Einaudi e Valentino Bompiani, fino agli scrittori: Montale, Pavese, Vittorini… Con Mario Soldati, Franco Fortini, Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, Bertolani instaurerà un rapporto di profonda amicizia…» (A. Giannanti, Testi con-testi. Saggi su Chiari, De Roberto, Alvaro e altro, Cosenza, Pellegrini editore, 2013, IX «Il viaggio è qui». Paolo Bertolani il «custode delle voci», pp. 145-156, cit da p. 145).

[42] Anche il padre Dante, per il vero, cita questi luoghi, es.  in Purg. III, 49-51: «Tra Lerice e Turbìa la più diserta, / la più rotta ruina è una scala, / verso di quella, agevole e aperta». La poesia di Bertolani si nutre di Dante; in un passo allude in modo ludico alla presenza, anche storicamente accertata, del poeta nei suoi luoghi: «Dante i gh’è sta, / diséndone. / – Retrovàlo però l’è fadìga. / pensàlo pe ’sti lèghi / ’ngonelà», ’E góse, l’aia, p. 81.

[43] A San Terenzo; lì c’è anche la suggestiva Villa Magni, dove visse gli ultimi mesi di vita il poeta Shelley, naufragato in quelle acque nel 1822 (nel mio pellegrinaggio ho toccato anche questa meta).

[44] P. Bertolani, F. Bruno, Itinerari del monte e degli amori. Una corrispondenza in versi 1978-1992, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2002, p. 41. Giannanti nota infatti che l’adozione del dialetto per la poesia avviene in Bertolani per il trauma del lutto della prima moglie, per un processo psicologico di regressione ai tempi della madre giovane, recuperando quindi non tanto e non solo la parlata della sua comunità, quanto il suo lessico familiare (Giannanti, 2013, pp. 149-150).

[45] I Reire sono gli antenati in occitanico.

Anche nel caso della poetessa friulana Ida Vallerugo, la scelta di passare al dialetto fu motivata da un lutto: «Con Ida Vallerugo, i Reiremerque (i detti degli avi) sono l’“intimo parlar” della sua famiglia, che si converte in lingua poetica a partire da un lutto, quello dell’amatissima nonna, la Maa Onda della precedente raccolta. Da un colloquio interrotto ad opera della morte, insomma, rinasce il friulano, il “suon di lei”, l’avelenghe dei suoi ancessor, tombato fino ad allora come un fiume carsico» (M. Longobardi, Troubadours de lunchour. Periferie trobadoriche, in L’Europe romane: identités, droits linguistiques et littérature, a cura di M. Longobardi e H. Sheeren, «Lengas» [En ligne], 79, 2016, URL: http://journals.openedition.org/lengas/1057).

[46] Sentendo ancora la presenza delle compagne defunte tra loro, Bertolani dice al suo interlocutore: «è come se le nostre “lettere” fossero indirizzate verso l’al di là, e là volte in avernese, che immagino possa essere la lingua comprensibile ai pallidi abitanti di quei misteriosi territori» (Itinerari del monte e degli amori, p. 12).

[47] «C’è un fondo pasoliniano in Paolo Bertolani che, fatta salva l’originalità dello stile (straordinaria, anche a un solo sguardo), potrebbe fornirci una sua prima collocazione sul versante delle culture marginali, delle lingue da salvare», Lagazzi, 2020, p. 47. Dopo la sua morte, il premio per la poesia Lerici Pea ha attivato una sezione dedicata alla poesia in dialetto e intitolata a Paolo Bertolani: «Lo spirito del Premio “Paolo Bertolani” trova piena corrispondenza nelle posizioni espresse dall’UNESCOdall’Unione Europea e dal Pen Club italiano, che annoverano tra i diritti umani inalienabile, la libertà di usare la propria “lingua materna”, e riconoscono alle più di 300 lingue ancestrali e dialettali presenti sul territorio italiano, pari dignità culturale e letteraria, da tutelare e divulgare tramite iniziative nazionali e regionali» (http://lericipea.com/premio/premio-bertolani/).

[48] G’éa tuto ’n fódo, (Libi, p. 21). E. Zuccato, Il dragomanno errante. Quaderno di traduzioni,
Brescia, Atì, 2012.

[49] «Sparisce l’arcaica Italia contadina, e quella sparizione ha i suoi testimoni, attoniti, incantati: Bertolani è fra costoro, tenero, appassionato», Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano, A. Mondadori, 1985 (2. Ed), p. 1423 (Le cicale, pp. 1423-1427).

[50] «La poesia neodialettale può essere considerata la risposta su un piano culturale e letterario a quella sparizione di un universo antropologico popolare, che si realizza come conseguenza del processo di industrializzazione, e in particolare con l’avvento dei media e del consumismo che operano una progressiva e radicale azione di omologazione delle differenze culturali e linguistiche» (Giannanti, 2013, p. 148).

[51] «Qui altro che evocare / le mie ormai opache nel tempo / scuole silvestri… / Gente che diboscava, / battitori d’olive per maestri. / Lezioni quiete, all’osso / (“lo senti? Questo è il tordo, / il tordo del freddo”).», Itinerari del monte e degli amori, p. 20.

[52] P. Bertolani, Seinà, presentazione di G. Giudici, Torino, Einaudi, 1985, pp. 36-37 (Ninanana). Il poeta vi evoca, come in una litania, una pietra, un filare d’uva fragola, un contadino che sapeva tirare su muretti e innestare, un’aria fina… e, ad ogni immagine del passato segue, come un rintocco di campane a morto: «La nó gh’è pu…I nó gh’è pu».

[53] «Ma lo fa con orecchio finissimo: con l’orecchio di chi sa ascoltare la musica segreta di un dialetto… impalpabile solfeggio» (Racconti italiani del Novecento, 1985, p. 1423). A proposito di orecchio fino, noto questi versi di suoni amplificati dallo spopolamento della campagna: «Nel sole non si sente che lo schiocco / dei baccelli che esplodono, e nel fondo / asciutto del fosso scattare / a saetta il ramarro…» (Itinerari del monte e degli amori, p. 42).

[54] Giannanti, 2013, p. 152.

[55] «animali della sua “cità litorana”, con la loro nomenclatura popolare e feriale, se còlti nel loro ambiente naturale, marino, portuale, suburbano, ma vestiti a festa con nomi più colti ed araldici nella folta “ucelliera” della Rosa» (Longobardi, 2018, p. 21). «Il suo numero (ad un conto casalingo, emergono una sessantina di animali – La rosa esclusa – tra cui una quindicina di specie di pesci) e la varietà di essi, tra terrestri, marini e celicoli, è tanta… Eppure, nella letteratura critica, questa copiosa presenza (e relativo simbolismo) non è stata notata» (Longobardi, 2018, pp. 94-95).

[56]«Intiza e toie pace / l’esca de ’na sotana. / Io so’ ’l sgombro vorace / che ’n cuchiarí l’ingana.» (Scataglini, 2022, p. 17). «Fiola, come le àgore / drento ciài spina verde. / So’ ’n omo che s’impégola, / un cristo che se perde» (Scataglini, 2022, p. 104) (le agore sono le aguglie); «Andría de corsa, biglia / sul pano silenziosa, / al fondo de conchiglia / de la tua buga rosa.», Scataglini, 2022, p. 106. «Est’amore m’ha coto / come ’na mugelina. / Spolpato sopra e soto / so’ rimaso la spina.», Scataglini, 2022, p. 107 (mugelina = muggine, cefalo).

[57] Seinà, p. 30. «Non avevi detto, tu, / che erano tutte sparite? / Se ora tu potessi essere qui // a vedere come di esse / luccica la vallata, / e quante ne restano // per la strada, schiacciate dalle ruote, / proprio come è stato per te / l’inverno che con Attilio dal muraglione // leggendoti dicevamo / che anche se avevi torto / avevi ragione».

[58] P. P. Pasolini, L’articolo delle lucciole, in Saggi sulla politica e sulla società; a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, A. Mondadori, 1999, pp. 404-411 (da Il vuoto del potere in Italia, «Corriere della Sera», 1 febbraio 1975, https://www.corriere.it/speciali/pasolini/potere.html).

Già L. Sciascia, L’affaire Moro, Palermo, Sellerio, 1978, riprendeva, in esordio, la metafora di Pasolini: «Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant'anni: … Non potevo subito pensare a un ritorno delle lucciole, dopo tanti anni che erano scomparse… ».

[59] Molte lucciole si disperdono con il taglio di un albero secolare («che facevamo visitare / come una chiesa») in un’altra sua poesia: «Fódi. Ma adè sta’ savio, sméta de sercàlo / co’ l’arbio chi fèva ’r guardiamàcia / aa valàda. / Ormai i l’han tagià e i nó revén, / e con lu nicò ’i artri, / te pè cuntàgi ̓e lùçeghe, / ’e castagne grodà…» (Libi, p. 59).

[60] «Challenge of the firefly / nevermore dead – forever / forgotten smile of Pasolini // Sfida della lucciola / giammai morta – per sempre / obliato sorriso di Pasolini», Galaverni, 2022, p. 159.

[61] «…Viagiàndo / la’ncontra ogni spéce de usèi, / chi ciòde ’e ae e i beve / ’nta séa, e i lighèi chi la prève / co’ ’e sampéte e i la surbe» («Viaggiando / incontra ogni specie di uccelli, / che chiudono le ali e bevono / nella sera, e i ramarri che la saggiano / con le zampine e la succhiano»), Paolo Bertolani, Raità da neve, Novara, Interlinea, 2005, p. 93.

[62] A. Bodrero (Barbo Toni Boudrìe), Opera poetica occitana, saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di D. Anghilante, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale, 2011, pp. 230-237. Si leggano pure nella traduzione di Fausta Garavini le Parole per quattro sorgenti (Font-Beleta, Font-de-Guisard, Font-Mòrta, Font-del-Fabre) del capolavoro di Max Rouquette, Verd paradís, in “Lo sol poder es que de dire”. La letteratura occitanica oggi, «Paragone» 117-119, 2015, pp. 27-32.

[63] Come una mano sapiente – «Ora che è sera e hanno smesso le cicale, / che la mosca dà posto alla zanzara», Raità da neve, p. 50.

[64] ‘E góse, l’aia, pp. 64-65.

[65] La poesia dedicata a Pasolini prosegue: «che il mondo sempre più combacia / con quanto è uscito / dalla tua fronte di retto / profeta immalinconito. / Sono ancora a patirlo nei fatti / quanto hai detto, scritto». L’aggettivo agomì rimanda al suo ruolo di «agomì santinèla», ovvero custode delle voci in P. Bertolani, Avéi, Milano, Garzanti, 1994, p. 72.

[66] Estendendo il senso dell’ultima frase della poesia Le lucciole, così osserva Galaverni, 2022, p. XVI: «Al di là della questione delle lucciole, mi sembra un’immagine perfetta, o comunque la meno imperfetta, per provare a fotografare Pasolini nel suo complesso, anzitutto perché invece di sciogliere la contraddizione e il paradosso che gli sono consustanziali, li comprende e li accetta, se ne fa carico. Pasolini, dunque, come qualcuno che anche se aveva torto, aveva ragione».

[67] «I n’han pu / nomi. ’Nte ’stó mondo / pao come na tòa. / Sensa chèe. / Sensa sómi» («I viottoli. Non hanno più / nomi. In questo mondo / piano come una tavola. / Senza cuore. / Senza sogni», ’E góse, l’aia, p. 73). Lo svanire dei nomi (snomàsse) di un mondo che è in dileguo è lamentato, per gli uccelli, di cui non si sa più distinguere le uova nel nido, in Coà: «Nó dimandae, che avóa / a nó saviéi destingue / na tordéna da ’n luí», Seinà, p. 21. Il motivo è ripreso in Itinerari del monte e degli amori, p. 43: «a un trillo d’uccello / di cui non sai più il nome». In A’n fante daa Sèra, (Raità da neve, p. 84) si rimpiange un tempo «quando avevano un nome anche le pietre». È lamento comune ai poeti occitani del Novecento che sentono svanire i nomi delle cose, delle erbe, dei mestieri nella loro lingua minoritaria su cui è sceso il silenzio, cancellata dalla lingua egemone francese (qui degli uccelli che seguitano a volare, ma nessuno ne conosce più i nomi): «La lenga s'es perduda au fons dau bòsc … La lenga s'es perduda… E los aucèls vòlan sens nom (Max Rouquette)». Alle parole perdute del mondo contadino dedica un grande libro G. L. Beccaria, I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, Torino, G. Einaudi, 1995.

[68] Le rondini gremiscono anche l’opera in prosa (es. le varie versioni della rondine che sta per annegare) e il cinema di Pasolini. Ne parla diffusamente Silvia de Laude in un complesso percorso che coinvolge vari autori e critici, per includere anche il sacrificio cruento di una lucciola («ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere ec. finché non la cancella») in un abbozzo autobiografico di Leopardi, per cui si veda S. De Laude, La rondine di Pasolini. Introduzione di A. Zaccuri, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2018 (in part. La digressione 14 «La lucciola di Leopardi: “Misericordia alla poverella”», pp. 83-86).

[69] P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti, Milano, A. Mondadori, 2003, vol. I, testo alle pp.800-806, scheda p. 1632.

[70] Rondinèle (Raità da neve, p. 54): «È quasi maggio e il cielo / è ancora vuoto di tutte quelle / belle rondini… / Ma quest’anno, / non passano? O sono io che non le vedo, / tanto il mio cielo dentro è gremito / di altro che mi schiaccia, e qui nelle sere / non sento che il suo peso? // (…e le rondini sono così leggere…)».

[71] «quanto siano capziosi i miti del cambiamento e del benessere (in altri tempi, Pasolini parlò di uno “sviluppo senza progresso”). E tali miti sembrano informare la nostra alienata società e quell’ottundimento delle coscienze che, inesorabile, lavora alla distruzione di ogni memoria», Giannanti, 2013, citato da p. 156.