Mariza Rusignuolo - Momenti metafisici nelle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani

 

L’impressione che si trae da una lettura approfondita delle Cinque storie ferraresi pubblicate nel 1956 da Giorgio Bassani è simile a quelle che si prova al cospetto di alcune tele di Giorgio De Chirico.

I personaggi delle storie si muovono, infatti, in una dimensione irreale, quasi allucinata, soffocati da un cerchio che si stringe sempre più intorno a loro isolandoli e costringendoli, loro malgrado, ad una forzata incomunicabilità ed emarginazione. Le piazze vuote, le presenze inquietanti dei quadri di De Chirico sembrano tradursi, tout court, nei racconti, in una società assente, immobile, che prende le distanze dall’individuo, che non mostra alcun sentimento di solidarietà nei suoi confronti ma che, al contrario, si piega ai peggiori compromessi nei confronti del Regime.

Lida Mantovani, Elia Corcos, Geo Josz, Clelia Trotti, Pino Barilari sono una campionatura di personaggi accomunati dall’esperienza del dolore, del disagio davanti ad un mondo di indifferenza, opportunismo e biechi interessi, la cui storia personale riflette la storia di un’epoca che si connota per connivenze latenti, malvagità ed emarginazione per chi non è in linea col cliché fascista–borghese.

La protagonista del primo racconto è Lida Mantovani giovane sartina, non bella, non colta, che vive con la madre dopo aver dato alla luce un figlio avuto da un ragazzo ebreo, David, da cui è stata poi abbandonata. Nel personaggio, delineato con dovizia di particolari psicologici, sembra riflettersi il destino della madre, anche lei sedotta da un soldato americano durante la guerra. La protagonista del racconto è a ben guardare un personaggio piuttosto passivo, priva di un forte carattere, che si lascia travolgere dagli eventi e che rimugina stando «sempre con la faccia girata indietro a rimasticare cose passate». Lo sguardo delle due donne si incrocia raramente e tra loro c’è un ponte di incomunicabilità che, come boomerang, si rifrange negli spazi circostanti, dominati da solitudine e silenzio sia all’interno della casa che all’esterno, nella via Salinguerra, dove si ha l’impressione di essere «fuori della cerchia delle mura urbane». Nella casa sembra incombere l’incomunicabilità di tanti personaggi pirandelliani o del teatro dell’assurdo di Beckett e lo stesso silenzio di tanti interni, descritti dalla scrittrice siciliana Maria Messina, speculari della solitudine esistenziale a cui sono condannati i personaggi. Nell’atmosfera di miseria e di povertà in cui le donne vivono in un seminterrato, sembra esserci un barlume di luce quando compare Oreste, l’uomo che accetta il bambino di Lida e che lei sposerà alla morte della madre. Presto anche Oreste, però, la lascerà e Lida cadrà nuovamente in una desolante solitudine travolta dal ricordo di David e dal persistente dubbio di non aver reso felice il marito per non avergli dato un figlio suo.

Nella seconda storia La passeggiata prima di cena l’incipit è realizzato con una tecnica quasi cinematografica che fa emergere da una vecchia cartolina ingiallita la storia del dottor Elia Corcos, ebreo, e di Gemma Brondi, infermiera non ebrea. La vita e l’atmosfera della città di Ferrara risalgono dal passato gradualmente. Borghese e benestante Elia Corcos sposa Gemma, una ragazza molto «comune e insignificante […] dagli occhi morati dove il raggio della gioventù brillava soltanto di rado», appartenente ad una famiglia contadina e tale scelta inusuale lascia stupiti i suoi stessi concittadini suggellando la sconfitta e il sacrificio del dottore. Ad un certo punto della narrazione l’occhio dello scrittore si sposta come un obiettivo, fino a presentarci l’apprendista infermiera Gemma Brondi e il suo incontro con il futuro marito, il Dottor Corcos. Di quest’ultimo personaggio Bassani si sofferma a descrivere, in quanto ebreo borghese, il suo rapporto con la società, il suo non integrarsi, la sua enigmaticità. Dal matrimonio nascono due figli Jacopo e Ruben, presso la casa del padre di lui, nel cuore di quello che era stato fino a non molto tempo addietro il ghetto. Morto il secondogenito Ruben di meningite a soli otto anni, Elia, anziano e vedovo, sarà deportato col figlio Jacopo nell’autunno del ’43 in Germania, e lo sterminio, con prorompente drammaticità storica, pervade le pagine del racconto in cui emergono i vari punti di vista dei personaggi. Da un lato gli ebrei, diffidenti e distanti verso Gemma e la sua famiglia, dall’altro la famiglia e i parenti di Gemma, non meno diffidenti che si rifiutano, a parte la sorella Ausilia, di frequentare la casa dei due sposi. Meticoloso l’autore nel delineare con approfondito tocco la psicologia delle creature nate dalla sua penna, in particolare di Elia, che è un personaggio condannato ad un isolamento non voluto, forzato, che guarda senza forse vederle realmente cose e persone «in qualche modo da fuori del tempo».

Geo Josz, protagonista della terza storia dal titolo Una lapide in via Mazzini è un sopravvissuto alla deportazione nazista e Bassani lo tratteggia mentre contempla a Ferrara, nell’agosto del 1945, una lapide dedicata agli ebrei deportati e uccisi dai nazisti e in cui compare anche il suo nome inciso nel marmo. Geo è un personaggio scomodo per i Ferraresi, che ricorda loro, in ogni istante, i fatti tragici della Shoah, che comunica loro il suo disagio, invano nascosto dietro una lunga barba bianca, che inutilmente rivuole la sua casa divenuta la base dei partigiani subentrati al Comando delle Brigate nere. Va dunque allontanato perché rappresenta un ostacolo alla normale ripresa della quotidianità auspicata dai ferraresi che desiderano mettere una bella lapide sui drammatici eventi. Il grido interiore, soffocato e surreale di Geo sembra però elevarsi al cielo e risuonare alto fino alle mura.

            L’incipit del quarto racconto dal titolo Gli ultimi anni di Clelia Trotti si apre con un funerale laico ambientato nel primo dopoguerra a Ferrara in onore di Clelia Trotti, una vecchia maestra socialista morta in carcere, a cui assiste un giovane letterato ebreo, Bruno Lattes, che ha conosciuto la maestra prima di riuscire a sottrarsi, fuggendo dall’Italia, alla deportazione e alla morte. Bruno è tornato nel piccolo mondo provinciale e riesce a rintracciare, con l’aiuto di più persone a cui chiede notizie, Clelia. Sembrano echeggiare nella narrazione riverberi de La luna e i falò di Cesare Pavese perché tornato nel paese d’origine, il personaggio rimane disilluso e disincantato. Il tempo sembra essersi fermato nonostante gli eventi bellici tragici e funesti. Con una serie di flashback memoriali che l’autore riesce a imbastire con una mirabile strategia narrativa, Bruno rievoca gli incontri furtivi di un tempo con l’anziana maestra che viveva sotto stretta sorveglianza della polizia fascista, la figura della donna idealista e sognatrice gli appare con nitida chiarezza e non può fare a meno di domandarsi che cosa fosse venuto a fare «…lui, sopraggiungendo tardi, se non appunto per rendersi conto che la società giusta e civile di cui Clelia Trotti rappresentava insieme la prova vivente e il relitto, non sarebbero tornati mai più». Bruno si dibatte tra queste domande farneticanti che lo conducono ad una vera e propria crisi d’identità sentendosi un escluso, un emarginato, un ebreo così lontano da quelle giovani coppie bionde, belle e ariane che appaiono con una struttura circolare all’inizio e alla fine del racconto.

Protagonista dell’ultimo racconto, Una notte del ’43, è un farmacista invalido, Pino Barilari, che è stato testimone di un fatto tragico avvenuto il quindici dicembre del ’43 in cui furono fucilati undici ferraresi e messi in carcere alcuni prigionieri politici a causa dell’assassinio del console Bolognesi, ex segretario federale. La vita di Ferrara è sconvolta e ansia e paura circolano per le strade. Ci si interroga su chi possa avere ordito la strage, si fa spazio la notizia che siano stati gli squadristi veneti in seguito alla spia fatta da qualche ferrarese che ha rivelato i nomi dei colpevoli del delitto e i loro nascondigli. E il narratore afferma: «Vennero da ultimo la liberazione e la pace, e per molti ferraresi, per quasi tutti, l’ansia improvvisa di dimenticare». Con il bisogno spasmodico di pace e di dimenticare dei ferraresi, Pino Barilari come Geo Josz è malvisto perché è una figura che ricorda loro di non aver saputo fare giustizia dei rei dell’eccidio. Lui è lì a ricordarlo ogni giorno con «le lenti scintillanti di un binocolo di montagna» con cui osserva richiamandolo con una voce «non forte, bianca e incrinata» chiunque attraversi «il marciapiede della fucilazione», lui che ha taciuto sebbene testimone, è lui stesso vittima della società ferrarese e del sistema e anche vittima della moglie da cui poi si separerà poiché quella notte del ’43 lei rincasava da un tradimento. E adesso a Pino Barilari non resta che sprofondare nella sua solitudine, consumando le sue giornate sorvegliando il marciapiede di fronte, ridacchiando e borbottando come divorato dalla follia. Reso invalido da una tabe dorsale, il personaggio è chiuso nel suo rimorso che lo spinge a ricordare l’eccidio come una voce interiore inquietante e a scrutare dall’alto della sua finestra i ferraresi e il loro male oscuro della vigliaccheria.

Sullo sfondo dei cinque racconti si staglia, come filo conduttore, la città di Ferrara, ben connotata nelle vie, nei monumenti ma che, simile nell’atmosfera e nei profili sinistri dei palazzi alla Ferrara de Le Muse inquietanti di De Chirico, assurge a simbolo di una condizione esistenziale, di un modo particolare di vivere la storia di un’epoca che condanna all’isolamento chiunque contrasti il cliché fascista–borghese. Nel tessuto della narrazione il giudizio polemico di Bassani e di condanna nei confronti di una società siffatta e del Regime si eleva col ricorso a particolari espedienti stilistici come il punto di vista multiplo, a raggiera, che gli consente lo snodo degli eventi per bocca di uno o più personaggi di cui lui, il narratore, tiene saldamente le fila con la forte e dissimulata presenza di testimone–poeta che, simile all’uomo di fumo Perelà di Palazzeschi, scruta dall’alto la gente e la giudica.

Ne consegue un linguaggio simbolico, sfumato, carico della tensione emotiva dell’autore, inframezzato da echi della memoria, da immagini–metafora che riflettono in modo calibrato una prorompente interiorità.

 

18 marzo 2025