«Tutta l’arte greca è attraversata dalla legge orgogliosa, che soltanto ciò che è massimamente difficile risulta un compito degno dell’uomo libero».
Così Nietzsche, nel suo scritto Il dramma musicale greco[1], scrive riguardo alle difficoltà di fronte alle quali si doveva trovare il drammaturgo della Grecia antica nella messa in scena della più grande delle forme artistiche di sempre, la tragedia. La dissertazione del filosofo nasce dalla riflessione di quanto sia stata nobile l’arte greca, e in particolare la tragedia, summa di tutte le arti, rispetto alla mediocrità della musica, sia quella a lui precedente, sia quella a lui contemporanea.
Secondo il filosofo, l’unica forma artistica a cui si può lontanamente paragonare la tragedia greca è l’opera lirica, che però rimane «una scimmiottatura del dramma musicale antico»[2]. La critica che esprime Nietzsche con così tanto ardore era in realtà la manifestazione di un’insofferenza artistica che già da alcuni decenni si era affacciata in Europa, e in particolare in Germania, e di cui Wagner era stato il corifeo. La sua rivoluzione musicale aveva stravolto in toto tutte le tradizioni che il belcanto della prima metà dell’Ottocento, prevalentemente italiano, aveva consolidato. Le opere del compositore tedesco sono grandiose architetture in cui musica, canto, poesia, recitazione e psicologia si fondono nel Wort-Ton-Drama, “l’opera d’arte totale”: egli stesso definiva le sue opere «azioni» o addirittura «gesta della musica divenute visibili»[3]. In questo senso si potrebbe dire che le sue composizioni pretendono un’attenzione quasi religiosa a cui lo spettatore deve assistere senza la minima distrazione.
«Non c’è mai un suono puro, tutto è amalgamato. Mai è concessa all’orecchio la festa di un timbro limpido. Non si sente mai un flauto, o una viola, o la voce umana, ma un miscuglio di tutto questo»[4]. Il lamento di Stravinskij è indicativo per intuire come una sensibilità sonora tradizionale venisse squassata da una nuova e antitetica[5]. La musica wagneriana è caratterizzata da un mosaico di Leitmotive, che tratteggiano un’attività psichica in continuo divenire ed è priva di quelle cesure che erano la fine dei vari pezzi lirici nell’opera tradizionale. Il dramma doveva avere una struttura ciclica, che senza soluzioni di continuità coinvolgesse lo spettatore, attraendolo nel vorticoso circolo di una nuova arte ispirata a concezioni teatrali antiche: un inedito modo di pensare la musica che non casualmente sorgeva nella nuova temperie intellettuale[6].
Questa “restaurazione” wagneriana risolveva quel danno indelebile che, secondo Nietzsche, avevano procurato in particolare Euripide e il Socrate platonico[7]. In particolare Euripide, definito «il poeta del razionalismo socratico»[8], avrebbe portato una precipitosa caduta la più alta forma d’arte di sempre. Sempre secondo il filosofo, con il terzo grande tragediografo greco iniziò una dannosa tendenza che poi sarebbe diventata tipica di tutte le altre stagioni musicali della storia, ossia, la netta separazione delle sue componenti maggiori – musica, poesia e danza – con il prevalere di una, la musica, sulle altre. In tal modo, si interrompeva quell’armonia che contraddistingueva il dramma musicale greco in origine e che ne costituiva l’essenza stessa. In particolare, fu l’affrancarsi della musica dal supporto testuale a causare la corruzione che poi debilitò irreversibilmente il dramma antico: la tendenza di «comporre musica non più per l’orecchio, bensì per l’occhio»[9], affinché si ammirasse la destrezza di composizione e d’esecuzione. In realtà, sostenere che, prima di Euripide, i tre elementi essenziali del dramma – parola, musica e danza – fossero perfettamente amalgamati, risulta non troppo corretto dal momento che il teatro greco di Eschilo e Sofocle sembra nutrire una spiccata predilezione per la parola, ossia il testo tragico, rispetto alle altre due componenti[10].
A prescindere dalle considerazioni nietzschiane, è vero che all’epoca di Euripide prese piede una corrente musicale, detta “Nuova Musica”, che ebbe come effetto precipuo la valorizzazione dell’aspetto musicale che, da accessorio qual era, diviene funzionale[11]. E la “vicinanza” di Euripide a Timoteo di Mileto[12], uno dei maggiori rappresentanti di questo nuovo gusto musicale[13], fu sicuramente una delle cause dell’evoluzione del teatro euripideo[14].
La rivoluzione wagneriana produsse degli effetti di svolta nel melodramma italiano, non fu di certo la causa prima del cambiamento, ma senz’altro fece da catalizzatore a dei moti di evoluzione in questa direzione già sollecitati dalla figura di Gluck e poi rabbuiati temporaneamente con le figure di Mozart e Rossini[15]. Una personalità artistica che rimase particolarmente influenzata dall’opera di Wagner fu sicuramente Giuseppe Verdi: nonostante il compositore italiano volle sempre dimostrarsi totalmente disinteressato alla rivoluzione wagneriana, la sua ostilità rimase solo nelle enunciazioni teoriche ma non nella pratica dell’arte[16]. Nell’ultima produzione verdiana, infatti, si verifica un fenomeno che è facilmente interpretabile attraverso il contatto artistico con il compositore tedesco: il valore funzionale che la musica aveva nell’opera wagneriana − per cui si determinano la struttura, la trama e la connotazione psicologica del dramma stesso − si manifesta anche nell’opera verdiana, in modo naturalmente meno accentuato, ma comunque presente.
Questi due geni artistici, uno per il teatro greco e l’altro per il melodramma italiano, sono dunque accumunati dal fatto che entrambi vissero in un’epoca di “passaggio”: la sensibilità teatrale stava portando a maturazione un processo nuovo, un fenomeno inedito che poi determinerà non solo un’evoluzione nella pratica drammaturgica ma anche lunghe e profonde discussioni in merito. In entrambi il rapporto parola-musica viene stravolto e l’incipiente processo, reticente fino a qualche anno prima, viene catalizzato da personalità insigni e vicine nel panorama musicale: appunto Timoteo e la “Nuova Musica” per Euripide, la musica di Wagner per Verdi. La parola − anche se accompagnata da tutti quegli espedienti teatrali, quali la danza, la musica ed effetti scenici − si vede detronizzata dal ruolo fin prima ricoperto, non conducendo più da sola l’intera tensione tragica. In questo senso, la musica, prima discreta e fedele lacchè, diviene una compagna alla pari nella resa tragica delle vicende.
La rivoluzione musicale contemporanea ai due autori considerati determina, dunque, una maturazione simile, rendendo inevitabile il raffronto per l’identico problema che essi affrontarono, e che ironicamente viene detto da Antonio Salieri: Prima la musica poi le parole (1786).
Separati da più di due millenni di culture e sensibilità musicali differenti, mutatis mutandis, il teatro euripideo e quello verdiano recepirono nello stesso modo e con lo stesso filtro sensibilità musicali nuove, intraprendendo così due percorsi che si profilano assai simili nelle loro tappe essenziali e nel suo risultato ultimo: la compenetrazione della musica sul testo e il lento dissolversi delle forme chiuse[17]. Da un inizio in totale armonia con le tradizioni precedenti, in entrambi nasce poi una tendenza allo sperimentalismo (favorito dalla popolarità di cui godeva l’incipiente rivoluzione musicale che li circondava: la rivoluzione wagneriana per Verdi, la musica del Nuovo Ditirambo per Euripide). Questa prima fase, quella del “primo Euripide” − fino alle Troiane − e del “primo Verdi”[18] − fino alla Aida − si cristallizza in un’opera che racchiude le sperimentazioni maggiori, suggellandole però attraverso «una coerenza di tono e omogeneità di ispirazione»[19], appunto le Troiane per Euripide e l’Aida per Verdi; si arriva infine a una fase, quella dei cosiddetti “secondo Euripide” e “secondo Verdi”, in cui lo stile sembra modificarsi a tal punto che – in una maturità come quella di fine produzione in cui ci si aspetterebbe una tendenza al comporre più o meno stabilizzato – si scatena una vena espressiva sperimentalistica che stravolge i canoni della produzione precedente e la sensibilità seguente.
1. Sulla scia della tradizione, nella prospettiva dell’innovazione
Nella prima produzione di entrambi, il rispettoso riguardo nei confronti della tradizione si mantiene negli aspetti formali[20] ma l’esigenza di far sentire la propria novità si esprime sin dall’inizio per una sensibilità più “popolare” nella trattazione della trama tragica e dei personaggi. Tale sperimentalismo è il sintomo di un processo evolutivo che sarà poi responsabile di quelle rivoluzioni che nell’ultima produzione non saranno più solo legate alla trama o ai personaggi ma anche alla metrica e alla musica[21]. Questa tendenza alla sperimentazione, prima reticente poi sfrontata, è il punto di partenza comune a entrambi e lo si comprende bene dal momento che, prima di innovare ciò che è più vincolato alle consuetudini tradizionali − come la musica/metrica o l’impiego del coro o la scansione tra le forme chiuse −, risulta più accessibile sperimentare in ambiti meno costrittivi, come la scelta della trama e la connotazione psicologica dei personaggi. In particolare, l’esigenza di trovare una tragicità nuova, più popolare, per il protagonista tragico e i riferimenti alla realtà politico-sociale sono i sintomi di una sensibilità che mira a suscitare forti reazioni nel pubblico: tra i contemporanei Verdi avrà più fortuna di Euripide e il successo di uno non corrisponderà a quello dell’altro. L’esigenza di innovare muterà quando l’insofferenza dei due artisti si sposterà poi ad ambiti diversi, come appunto nella musica.
Come ha notato Di Marco in Euripide c’è «una sorta di voluttà nel sorprendere, un gusto del paradosso − di chiara impronta retorico-sofistica − che lo induce non di rado a rovesciare il profilo tradizionale dei suoi personaggi»[22]. Il valore del λóγος, ancora prima dell’arrivo di Gorgia ad Atene (427 a.C.), è al centro della discussione filosofica, all’inizio con le figure di Anassagora e Archelao e poi con le dottrine sofistiche di Protagora: il dibattito che ne scaturì permea le tragedie più antiche di Euripide[23]. Infatti nel primo periodo della produzione euripidea fino alle Troiane la parola poetica mantiene quella forte valenza che caratterizza la produzione tragica di Eschilo e Sofocle, ma il «razionalismo euripideo»[24] ridimensiona gli accenti di pathos tragico e la monolitica coerenza che il protagonista aveva rivestito nel teatro fino ad allora. Il primo caso esplicito di questo socratismo (platonico) in Euripide lo si ravvisa nei vv. 377-383 dell’Ippolito (428 a.C.): questo passo è stato considerato, a lungo e a buon diritto, come la prima testimonianza della nuova concezione filosofica[25]. L’impostazione razionalistica dell’indagine non solo è responsabile di una nuova critica nei confronti delle responsabilità divine nelle sorti umane[26] ma rappresenta anche il motivo per cui Euripide adotta una nuova analisi delle vicende stesse e dei personaggi: gli agoni e i monologhi sono lo specchio più visibile di questo dibattito. Si osserva, dunque, una svolta antitetica nella trattazione dei personaggi tipica della tradizione tragica precedente: le figure sono umanizzate a tal punto che perdono quell’integrità morale cara alla mentalità aristocratica dell’onore − tangibile nell’“eroe tragico” − ma che tanto al pubblico di Euripide dovevano piacere (cf. Ar. Ra. 771ss.)[27]. Sono “eroi straccioni”, sono donne le cui psicologie (dipinte a volte con tinte noir) si realizzano attraverso una risoluta volontà nell’azione che ne fa eroine dal coraggio non meno mirabile di quello dei tradizionali eroi tragici di Eschilo e Sofocle. Attraverso il passaggio da uno stato emotivo a uno razionale, il protagonista euripideo assume un maggiore spessore tragico che rompe quel granitico carattere e quella monolitica coerenza che fino ad allora determinava l’“eroe tragico” nel teatro tradizionale[28]: emerge il desiderio di una maggiore unità del dramma, più profonda, e si ravvisa nella sorte tragica del protagonista l’elemento unificante[29]. In questo senso, nell’ultima produzione una nuova unità del dramma viene ricercata e poi affidata al personaggio tragico: in seguito la coesione drammatica si sposterà più sull’aspetto musicale.
Ma questo nuovo “modello” tragico non rimane rilegato a un periodo circoscritto della produzione euripidea ma ritorna in tragedie più tarde anche se meno spiccatamente, natura non facit saltus. Nelle Troiane si ripropone, in particolare nella figura di Cassandra, per poi “atrofizzarsi” a detta di Di Benedetto: continua a ripresentarsi in alcune figure − come Ifigenia nell’Ifigenia fra i Tauri, Creusa nello Ione, Giocasta nelle Fenicie, Ifigenia nell’Ifigenia in Aulide − ma senza che il personaggio, nel suo passaggio dallo stato di dolore a quello di serena decisione, mostri lo stesso grado di spessore emotivo e incisività dialogica, appunto perché il protagonista euripideo perde lentamente rilevanza come fulcro centrale del dramma[30]. È inoltre interessante notare come in Euripide lo “stile mimetico”[31] muti gli strumenti attraverso cui si esprime: dapprima, nella prima produzione, esso è reso attraverso la sintassi (cf. Di Benedetto 1971, 25-32-56), mentre nella seconda si realizza in particolare attraverso un nuovo uso della metrica e, con grande probabilità, anche della musica. Se si considera il già discusso momento di “razionalismo euripideo”, il carattere instabile delle eroine nella sua fase irrazionale non si realizza attraverso un ritmo e uno stile metrico desultorio − come accade invece nelle tragedie tarde − ma attraverso una sintassi irregolare. In tal senso si può dire che lo “stile mimetico” della narrazione tragica, tipico del ductus euripideo, evolve i propri strumenti nell’evocazione del sentimento tragico.
Eppure «lo sviluppo dell’arte tragica euripidea non si intende senza la storia della guerra del Peloponneso»[32], e vaghi echi di questo lungo conflitto si possono già udire nella Medea, rappresentata alla vigilia dell’imminente guerra (431 a.C.). Lo scontro famigliare, che oppone orgogliosamente i due coniugi e che porta i figli stessi a pagare il fio del torto subito, non può che richiamare alla mente il conflitto che sta per realizzarsi tra due città − Sparta e Atene − prima legate da una fraterna amicizia e poi spietatamente opposte in uno scontro di cui dovranno pagare il prezzo le generazioni a venire. Lo si coglie bene nel prologo espositivo della Nutrice (cf. v. 16: «ora invece tutto è inimicizia e i rapporti più cari sono compromessi» [trad. V. Di Benedetto]) o nel breve intermezzo del Coro nell’agone tra Medea e Giasone (cf. vv. 520s.: «tremenda e insanabile è l’ira, quando l’amico con l’amico giunge a contesa» [trad. V. Di Benedetto]). Un’altra tragedia in cui forte è l’accento politico è Eraclidi rappresentata con ogni probabilità dopo il primo anno di guerra[33]: comune agli ultimi due stasimi (cf. vv. 748-83: prima della vittoria ateniese; cf. vv. 892-927: successivo alla vittoria) è la fede in Zeus garante della giustizia e alleato di Atene. Dietro al tono accorato dei vv. 1102-10 dell’Ippolito si scorge un senso di disorientamento nella fiducia verso gli dèi e nel destino polyplánetos, “dalle molte vicissitudini”. Altrettanto si può cogliere nell’Andromaca ai vv. 471-75 e ai vv. 481ss.: dietro al biasimo del Coro per un governo diviso tra due persone, si può cogliere una critica di Euripide per quel contrasto che opponeva i “radicali” ai “moderati”[34]. In questo senso si profila una perdita di contatto tra il tragico e la classe politica del suo tempo: è l’inizio di un processo che porterà il drammaturgo sempre più a porsi di fronte alla realtà con disinteresse e, forse, sfiducia[35]. I richiami alla situazione politico-sociale di Atene continueranno sino alle Troiane ma in modo sempre meno frequente ed evidente: nella produzione euripidea si coglie in fieri un processo di “spoliticizzazione”, per cui il modello del personaggio tragico che appare dotato di una forte consapevolezza intellettuale e una fiera condotta si innova attraverso un dimesso ritrarsi, in cui la lode di un vivere modesto e sereno diviene tra i principali slogan[36].
E mentre la guerra del Peloponneso cambiava la storia di Atene portando ripercussioni anche nel pensiero degli intellettuali, altrettanto suscitava il periodo della Risorgimento italiano nel XIX secolo. Verdi in particolare rappresentò una voce non trascurabile all’interno di un coro che per la prima volta invocava lo spirito nazionale a difesa dell’invasore straniero. Egli non fu un intellettuale esente da impegni politici ma anzi, l’amicizia che lo legava a persone come il conte di Cavour, lo iniziarono alla stessa carriera politica, tanto da farne un deputato del primo Parlamento d’Italia. Eppure il patriottico musicista non asservì mai la sua arte a un fine politico: dopo l’inno di Mameli musicato nel 1848 su richiesta di Mazzini, Verdi rifiutò sempre altri incarichi del genere[37]. Ma anche se la partecipazione del compositore alla politica riguarda l’uomo e non l’artista, l’arte di Verdi fu tutt’altro che estranea ai suoi entusiasmi politici e, infatti, «la corda patriottica vibra in tutte le sue opere giovanili» (ibid.). Si pensi al Nabucco (1842)e al Coro degli Ebrei esuli e oppressi che, nel celebre «Va’ pensiero», invitano la mente a posarsi sui clivi e sui colli «Dove olezzano tiepide e molli / L’aure dolci del suolo natal» in quella che è «la patria sì bella e perduta». L’esaltazione del valore italiano si coglie anche nel Coro de I Lombardi alla prima Crociata (1843): ancora una volta si dipinge una situazione di massa in cui il popolo sfiancato dalle fatiche del deserto rivolge il pensiero alla patria lontana nel «O Signore, dal tetto natio» del quarto atto. Altrettanto volle richiamare l’Ernani (1844), rappresentata per la prima volta a Venezia − ultima città ad ammainare nella penisola la bandiera dell’insurrezione − nella scena in cui i congiurati cantano il «Si ridesti il Leon di Castiglia». La temperie del Risorgimento si respira anche nel «Cara patria, già madre e reina» dell’Attila (1846) e ne «La patria tradita piangendo ne invita» del Macbeth (1847). Tuttavia dopo il 1848 l’arte di Verdi perde quell’entusiasmo patriottico: La battaglia di Legnano (1849) è l’ultima opera esaltano spirito nazionale e l’ardore guerresco.
Analogamente al caso euripideo, in Verdi si verifica un processo di “spoliticizzazione”: il sentimento patriottico, prima fiero ed esultante, lentamente scema. Non a caso questo sentimento, molto vicino al gusto popolare, si accompagna a una visione del personaggio tragico come unico centro focale del dramma.
Infatti, come per Euripide, così per Verdi l’azione tragica si incentra su pochi personaggi, se non addirittura su uno solo, di cui vengono studiate e descritte le dinamiche interiori nel loro continuo divenire e nella loro coinvolgente passionalità, come se si indentificasse in loro l’unità del dramma. L’occhio del musicista si fa particolarmente attento a figure marginali della società, figure prima di allora poco, se non addirittura per nulla, trattate: si pensi in particolare alla trilogia popolare con il buffone di corte Rigoletto (1851), la cortigiana Violetta della Traviata (1853) e il trovatore Manrico del Trovatore (1853). Sono figure per cui Mila parla della «prima perfezione di Verdi»[38], appunto perché la coesione drammatica e teatrale dell’intera opera è dovuta unicamente al protagonista, il solo vero personaggio della scena, fenomeno facilmente paragonabile a quello del primo teatro euripideo. E come Euripide nei suoi protagonisti mette in evidenza gli elementi di discordanza e discontinuità[39], ad altrettanto Verdi mira, in particolare nella trilogia popolare: «in Rigoletto coesistono e lottano il padre e il buffone, in Azucena la madre e la zingara, in Violetta la cortigiana e l’amante»[40].
Ma l’analisi introspettiva ed emotiva del protagonista tragico in Verdi − soprattutto dopo la trilogia popolare − si evolve attraverso un processo in cui, lentamente, gli accenti di pathos si tingono di colori ambigui, determinano una sorta di umorismo: le sorti dei personaggi iniziano a essere viste anche al di fuori, portando così l’autore a interessarsi anche delle sorti di personaggi minori[41]. Il tragicomico diviene uno strumento che, come un prisma, permette di diffrangere la personalità per protagonista, così da coglierne anche aspetti minori. È uno strumento di sperimentazione che indica un modo di fare teatro che sta trovando soluzioni alternative per esprimersi. Non a caso è presente anche in Euripide ed è il sintomo di una visione dell’“eroe tragico” che si evolve[42]: attraverso il tragicomico si catalizza quella forza centrifuga che porta al ridimensionamento della centralità drammatica.
I due artisti, nella prima produzione, alla centralità di un personaggio tragico che faccia da centro del dramma sviluppano l’interesse per una tragedia fatta di molteplici caratteri, di storie che si intrecciano, di contraddizioni, di un messaggio che è un “non-messaggio”[43]. Questa insofferenza teatrale, frammista di elementi eterogenei, mostra in nuce un genio artistico in un continuo dimenarsi alla ricerca di una nuova soluzione drammaturgica coesa e coerente. Entrambi troveranno nella musica lo strumento per esprimere la nuova sensibilità: il dramma teatrale lentamente passerà a divenire un dramma musicale in cui la musica farà da filo conduttore.
Ma prima di ogni rivoluzione c’è sempre il germe di un’insofferenza pronto a proliferare.
2. Il cambio di rotta: rivoluzione ed evoluzione
Mentre la “rivoluzione” musicale wagneriana iniziava a Bologna nel 1871, in quello stesso anno, il genio verdiano si esprimeva al Cairo con un’opera che segnerà non solo la sua stessa produzione ma anche la forma del melodramma stesso. Aida (1871)si colloca nell’iter creativo verdiano in una posizione molto simile a quella occupata da Semiramide nella carriera rossiniana: entrambe risultano opere riassuntive di un’intera tradizione (una del belcanto classico, l’altra della tragedia romantica) e di tutta una precedente produzione personale. Entrambi, Verdi e Rossini, conosceranno poi una breve stagione creativa di segno assolutamente differente (le tre opere francesi di Rossini; il dittico shakespeariano di Verdi), a conferma di una precisa poetica. Aida,infatti, si situa in una posizione conclusiva più generale, esaurendo la concezione puramente vocale dell’opera a forme chiuse a tal punto che nella fase successiva l’apporto sinfonico sarà determinante[44].
Nell’Aida l’elemento che attira l’attenzione è il fatto che tutti i pezzi cantati si susseguono uno dopo l’altro senza essere inframmezzati dai recitativi veri e propri, ma da una variante del recitativo, il declamato lirico (Ponchielli, contemporaneo di Verdi, ne fa un uso abbondante, segno di una sensibilità nuova e diffusa), ossia il recitativo accompagnato dall’orchestra invece che dal clavicembalo. Un’influenza della musica wagneriana nell’Aida è la presenza del Leitmotiv, motivo tipico di Wagner, che compare già all’inizio del Preludio, affidato ai violini, come tema di Aida. Lo si riode all’entrata in scena della protagonista (soprano), subito dopo la conclusione del duetto Radamés-Amneris (tenore-mezzosoprano) nel «Quale insolita gioia nel tuo sguardo», nell’aria «Ritorna vincitor» e di nuovo all’ingresso di Aida nel II e nel III atto. L’adozione di temi ricorrenti, in rapporto a determinati atteggiamenti e pensieri dei personaggi, era un procedimento wagneriano destinato a essere universalmente accettato (se ne avvale mirabilmente anche Bizet nella Carmen del 1875)[45]. Con il suo apparato sfarzoso − come l’impiego di folte schiere di comparse oltre che di coristi − fu un’opera per i nuovi ricchi, ovvero, la società alto-borghese; non a caso la sensazionale liturgia wagneriana di Bayreuth era ispirata ai gusti di questa emergente classe sociale[46]. Tuttavia l’Aida è anche un salto all’indietro, un ritorno al melodramma tradizionale e un po’ antiquato dopo gli esperimenti del Simone, della Forza e del Don Carlos. Nel nuovo clima musicale, teso e animato da aspre polemiche, Verdi torna a un’opera dal sapore antico, un melodramma restauratore che riassume per l’ultima volta la tradizione italiana del vocalismo puro[47]. I conflitti tra i personaggi conservano l’eroico fulgore degli scontri guerreschi del rude melodramma padano: in essi Verdi «contadino e non cittadino»[48] esprime appieno la sua formula: «fuoco e brevità!»[49].
E come Verdi recepisce il nuovo gusto musicale e teatrale, cristallizzandolo però in una forma teatrale coerente in sé e con la produzione precedente, così fa Euripide nelle Troiane.
La tendenza verso la poesia bella, caratterizzante tutta l’ultima fase della produzione drammatica di Euripide, si innesta a partire da un punto cruciale, appunto le Troiane[50]. E come per Verdi, a partire in parte dall’Aida, in cui la narrazione inizia a svilupparsi senza più forti stacchi o cambi di registro melodico e strumentale, così la struttura sintattica delle Troiane sembra mostrare la medesima tendenza: il discorso procede senza pause e arresti, con un ritmo serrato, in modo che un’immagine è immediatamente sostituita da un’altra e questa da un’altra ancora, basti pensare all’iniziale monodia di Ecuba[51]. Tuttavia, al fine di rendere un continuum musicale e drammatico – attraverso una sorta di Leitmotiv ante litteram – Euripide usa come espediente la ripresa intenzionale di motivi che aveva già utilizzato nella parte iniziale della tragedia[52]. Nelle Troiane il gusto per il patetico è costante e garantisce l’intrinseca unità della tragedia, anche se la ricerca esasperata di effetti patetici tende a mettere in crisi un certo tipo tradizionale di tragedia, caratterizzato dallo svolgimento serrato e coerente di una ben precisa vicenda drammatica[53]. Il gusto per la descrizione a tinte forti è un esigenza descrittiva che nasce a partire dalla storiografia, già con Tucidide (si consideri la disfatta di Siracusa), poi in modo particolarmente spinto con la storiografia detta “tragica” (Duride di Samo, Filarco di Atene) ma che è anche tipica della “Nuova Musica”[54]. Forse per pura casualità, o forse perché segnale di un’insofferenza latente verso i gusti tradizionali, la ricerca dell’esotico diventa il sintomo di un nuovo modo di sentire: l’eroismo e l’esotismo dell’Aida, fino ad allora ignorati da Verdi, o al massimo sfiorati (la canzone moresca della Eboli nel Don Carlos), apportano al casto e rigorista melodramma contadino il languore orientaleggiante di certe danze e certi cori femminili[55]. Allo sesso modo, nelle Rane di Aristofane l’Eschilo aristofaneo accusa Euripide di aver riempito il suo dramma di arie popolari, lamentevoli, esotiche; egli avrebbero imitato «le canzoni delle puttanelle, i canti conviviali di Meleto (mediocre poeta, accusatore di Socrate), le arie per aulòi di Caria[56], i threnoi e le musiche di danza» (Ra., 1300ss.; trad. G. Comotti[57]). In questo senso il 415 a.C. è stato considerato da molti studiosi come un momento di svolta fondamentale nella carriera di Euripide: l’anno in cui egli dovrebbe aver accettato le nuove correnti[58]. Questa tesi è stata sostenuta per la prima volta da Walther Kranz, a partire dalla sua interpretazione dei vv. 511-513 delle Troiane («circa Ilio, o Musa, / con lacrime cantami / una melodia funebre di nuovi inni» [trad. E. Cerbo]). In questi versi, il Coro introduce il suo canto come una “melodia di nuovi inni”: nell’ottica dello studioso, esso costituirebbe un «fanfare advertizing»[59] dell’iniziale debutto di Euripide nello “stile ditirambico” nella tragedia[60]. Per questo motivo, infatti, Webster sostiene che «if Maas’ dating of Timotheos’ Persae before 415 is right, it look as if Euripides waited until the new music was well established before he took it over into tragedy first for recognition duets and then for monodies»[61].
Eppure non mancano nella tragedia euripidea echi del precedente modo di comporre: come il già discusso “razionalismo euripideo” − nella figura di Cassandra − e la presenza di riferimenti politico-sociali. Il dimenarsi di Cassandra tra momenti di esaltazione profetica e momenti di maggiore lucidità caratterizzava già il personaggio la stessa figura femminile nell’Agamennone di Eschilo. Euripide, dopo circa quarant’anni, recupera nelle Troiane la figura di Cassandra in una chiave di lettura simile a quella applicata per alcuni personaggi della prima produzione − e già discussi − come Alcesti, Medea, Fedra e Polissena. La peculiarità del personaggio di Cassandra nelle Troiane è la dimensione puramente razionale che la coinvolge e che prevale su quella irrazionale dopo esserle succeduta[62]. Dopo le Troiane inizia una nuova tendenza descrittiva, meno analitica e più allusiva: non si pone più l’accento sull’analisi del pathos del personaggio attraverso la sua monodia, ma è reso in modo allusivo attraverso la “bellezza” delle singole immagini che esso ricrea in una lingua lussureggiante e ricca di aggettivazione[63].
Neppure mancano i riferimenti al contesto storico in cui nacquero i due drammi: si mantiene il tenue contatto con la realtà che generò queste opere, una sinapsi sempre meno presente nei drammi posteriori. Per la tragedia euripidea, si consideri la strage dei Melii del 416 a.C.[64]; mentre per l’opera verdiana il riferimento è duplice: il carattere sanguinario e la lotta contro lo straniero richiamano gli aspri conflitti della guerra franco-prussiana (1870-1) − che infatti ritardò la messa in scena dell’opera − mentre gli episodi più gioiosi ricordano eventi più lieti, come l’apertura del Canale di Suez nel 1869[65].
Ma come Aida rappresenta una forma in sé organica e perfettamente in linea con il modo di comporre tradizionale, così le Troiane sono caratterizzate da una grande coerenza di tono e omogeneità d’ispirazione, e per questo si può capire perché alcuni la considerino la tragedia più riuscita e più bella di Euripide[66]. In definitiva, attorno a un’opera teatrale che fa da cesura periodizzante tra due produzioni teatrali differenti, si coagulano in forma più attenuata gli elementi distintivi della prima produzione ma si anticipano in modo reticente anche cifre stilistiche future.
3. Reinventarsi all’ultimo
Quella del cosiddetto “secondo Verdi” è la stagione che si apre dopo Aida e copre un arco temporale minore rispetto a quella che viene definita del “primo Verdi”: dopo il 1871, dovranno passare dieci anni prima che il musicista, a sessantotto anni, nel 1881, si cimenti di nuovo in un’opera: il rifacimento del Simon Boccanegra, e poi Don Carlos (1884), Otello (1887) e Falstaff (1893).
Ma la vera stagione innovativa si realizza soprattutto con le ultime due opere[67]: l’evoluzione è tale che, se non si sapesse di chi sia la paternità, si potrebbe escludere tranquillamente che Verdi sia il vero autore. Nelle ultime due opere shakespeariane si materializza la seconda maniera verdiana fondata sulla “parola scenica”. Questa differente concezione del melodramma consiste nel rovesciamento di una scrittura prevalentemente musicale a favore di una visione innanzitutto teatrale. L’invenzione lirica ora discende direttamente dal fatto scenico con il quale essa si integra e dal quale, quindi, riceve la propria struttura musicale[68]. La gloriosa articolazione tradizionale che allineava arie doppie, duetti bipartiti o tripartiti e concertati in due tempi, ancora decisiva in Aida, tramonta. In tal senso Otello, con la sua evidente suddivisione in episodi scenici anziché in pezzi musicali chiusi, apre la via alla dinamica drammaturgica verista[69]. Ma, come osservano acutamente Dorsi-Rausa: «Otello testimonia la formidabile capacità dell’arte verdiana di trasformarsi pur rimanendo se stessa»[70]; infatti, il canto, per quanto rinnovato, rimane il centro dell’arte verdiana attraverso un recitativo-arioso sempre profondamente espressivo. Di segno assai diverso è il Falstaff: l’opera straordinaria dell’ottantenne giunge dopo un vuoto di quattro decenni dall’opera comica (che Verdi aveva tentato in una delle sue prime opere, Un giorno di regno, 1840) e inaugura l’epoca della moderna commedia lirica basata sulla nuova scrittura verdiana (la stessa “parola scenica” dell’Otello)[71].
Per Euripide invece, come già detto, è a partire dalle Troiane che l’ultima produzione del tragediografo si connota per un rinnovamento della lirica: ad esempio, sintomatico di questa evoluzione è il motivo nell’Elena e nell’Oreste per cui il Coro o un personaggio esprime il desiderio di librarsi[72], volando dalla terra verso mete più lontane, motivo che secondo il Kranz deriva dal Nuovo Ditirambo (cf. Cinesia in Ar. Av.,1372ss.); come anche il tema della vecchiaia, che è una componente non irrilevante nel rinnovamento della lirica euripidea e nell’atteggiamento di evasione nostalgica di fronte alla realtà. Sul piano più propriamente metrico-musicale il Nuovo Ditirambo era caratterizzato da pezzi lirici che non si inserivano in uno schema di responsione strofica, e ciò si può confrontare con lo sviluppo delle monodie liriche dell’ultimo Euripide (la monodia del Frigio nell’Oreste, dove talvolta si ha chiara l’impressione che il testo scritto fosse sentito essenzialmente come il punto di partenza per esperimenti di carattere musicale)[73]. Da un punto di vista metrico-musicale, le innovazioni che Euripide attua nella sua ultima produzione sono veramente molteplici e frequenti[74], ma comunque tutte legate a questa nuova sensibilità musicale che si era profilata all’orizzonte con il Nuovo Ditirambo e la “Nuova Musica”, di cui Timoteo, contemporaneo di Euripide e verosimilmente a lui molto vicino, era illustre rappresentante.
E come Wagner determinò l’inizio di un profondo cambiamento per ultima produzione di Verdi, così la musica del Nuovo Ditirambo fu una delle maggiori cause drammaturgiche del “nuovo e ultimo Euripide”. Per Verdi l’ultima produzione mostra «combinazioni ritmico-versali, di soluzioni “astrofiche”, di scelte stilistiche e persino linguistiche in funzione di una drammaturgia musicale – tragica nella prima opera (scil. l’Otello) e comica nella seconda (scil. il Falstaff) – che porta a evidenziare il sorgere di una nuova concezione librettistica, svincolata dalle convezioni metriche della tradizione ottocentesca»[75]. Per Euripide, invece, il mutato rapporto tra accento di parola e accento melodico[76], unito alla grande varietà metrica – basata prevalentemente sulla crescente soluzione dei trimetri giambici[77] e dell’abbondante uso del docmio[78] – porta a un crescente numero di parti astrofiche[79] e monodiche, connotate quindi da un sempre più marcato virtuosismo e professionismo, determinando così anche un lento scemare del Coro che non crea più cesure. E altrettanto accade per Verdi[80].
Esautorato della sua necessaria presenza e partecipazione nell’azione tragica, il Coro non scandisce più il dramma in atti o episodi ma le forme chiuse tendono a dilatarsi e a restringersi venendo a perdere un filo conduttore-narratore: la descrizione emotiva e fisica prevale sulla trama[81]. Il filo narrativo non è più unitario ma tende a perdersi in piccole azioni che come onde fanno perdere l’equilibrio e la stabilità narrativa[82]. Infatti l’unica soluzione tragica per mettere fine a questo continuo incresparsi dell’onda diviene il deus ex machina di cui appunto l’“ultimo e nuovo Euripide” fa abbondante uso.
Riassumendo, come si è visto, in due epoche storiche separate da più di due millenni, avvennero due fenomeni musicali che, mutatis mutandis, ebbero lo stesso effetto: la musica, valicando le consuetudini e le norme musicali fino ad allora rispettate, venne a imporsi non solo come fattore estetico fondamentale ma come unico filo conduttore dell’opera stessa. Si potrebbe pensare a coincidenze, ma qui si è invece voluto provare la necessità del cambiamento per cui i due geni artistici vollero e dovettero confrontarsi con un’epoca che, come loro, aveva acquisito un nuova sensibilità musicale e un nuovo gusto per il “bello”.
Pubblicato il 17/11/2014
Note:
[1]* Ringrazio per la disponibilità e per gli importanti consigli: Marco Ercoles, Lorenzo Focanti, Fabrizio Frasnedi, Camillo Neri, Renzo Tosi. Ma devo tutto questo ad Antonella.
F. Nietzsche, Il dramma musicale greco, in La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti dal 1870 al 1873, trad. it. di G. Colli, vol. I, Milano, Adelphi, 1990, pp. 5-24.
[2] Ibid. Non a caso, «l’opera nasce da un’idea di gruppo, ed è forse l’unica grande forma d’arte che possa vantare questa caratteristica. Il gruppo prese il nome di Camerata fiorentina e annoverava tra i suoi membri giovani intellettuali imbevuti dello spirito del Rinascimento e desiderosi di trasformare la pratica musicale ereditata dal passato» (H. Kupferberg, L’opera, trad. it. L. Ferrari, Milano, A. Mondadori, 1979, p. 8). È facile comprendere quanto il teatro greco potesse essere, per la nascita dell’opera, di grande ispirazione e quale fosse lo spirito che animava il gruppo fiorentino. Sintomatiche sono le parole di Vincenzo Galilei, uno dei membri della Camerata, padre di Galileo Galilei: «perché le parole devono essere cantate da quattro, cinque voci in modo tale da non essere più distinte mentre gli antichi esprimevano le più veementi passioni per mezzo di una sola voce sostenuta dal suono di una lira? Dobbiamo rinunciare al contrappunto e alle differenti specie di strumenti per ritornare alla primitiva semplicità» (Ibid.). È a questo obiettivo che nasceva il cosiddetto recitativo: uno stile declamatorio in cui la musica seguisse i contorni del discorso, in cui la chiarezza delle parole aiutasse la linea melodica a riflettere le emozioni espresse dal testo divenendo la cifra dell’opera stessa. A testimonianza di questo rapporto sbilanciato tra poesia e musica, si consideri che le prime forme teatrali − di quella che poi sarà l’opera lirica in senso stretto − erano denominate &rldquo;dramma per musica”: il primo caso è l’Euridice di Jacopo Peri, il musicista fiorentino, che tre anni prima aveva messo in scena un altro &rldquo;dramma per musica”, Dafne, di cui però non si possiede la partitura (Ibid.; cf. G. Marchesi., L’opera lirica. Guida storico-critica dalle origini a oggi, Firenze, Giunti Ricordi, 1986, pp. 20 s.).
[3] M. Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1963, p. 244 ss.
[4] Ibid.
[5] «Il sistema della melodia infinita esprime perfettamente questa tendenza: è il perpetuo divenire di una musica che non aveva alcun motivo per cominciare come non ne ha alcuno per finire. La melodia infinita si risolve così in un oltraggio alla dignità e alla funzione stessa della melodia, che è, come abbiamo detto, il canto musicale di una frase cadenzata. Sotto l’influsso di Wagner, le leggi che garantiscono la vita del canto sono state trasgredite e la musica ha perduto il suo melodico sorriso» (I. F. Stravinskj, Poetica della musica, trad. it. L. Curci, Milano, Curci, 1942, p. 57).
[6] «Ai romantici non solo piacque la mescolanza di elementi letterari e musicali che costituisce l’essenza del Leitmotiv, ma la ripetizione dei temi corrispondeva alla loro propensione per l’omogeneità della struttura, contrapposta all’architettura musicale classica, fondata sui principi del contrasto» (R.W. Gutman, Wagner: l'uomo, il pensiero, la musica, trad. it. O.P. Bertini, Milano, Rusconi, 19953, p. 515).
[7] Le considerazioni di Nietzsche riguardo la musica greca fanno riferimento in particolare agli scritti di Platone (per la musica in Platone: cf. E. Moutsopoulos, La musica nell’opera di Platone, trad. it. di F. Filippi, Milano, V&P Università, 2002). Il filosofo greco parla del prevalere della musica sul testo in seguito alla violazione del principio per cui: «il canto è composto di tre cose, parole, armonia e ritmo [...] e quanto poi all’armonia e al ritmo, devono essere adatti alle parole» (Resp. III 398d). Altrettanto platonica è l’idea tendenziosa che il teatro prima di Euripide fosse “morigerato” e istruttivo: Platone pensa, quasi sicuramente, a Eschilo e Sofocle quando dice: «la massa era desiderosa di obbedire e non aveva il coraggio di giudicare nel tumulto» (Leg. III 700d). Il giudizio platonico su quest’ultimo punto coincide con il verso di Eschilo fr. 314 N2 (cf. D. Musti, Musica greca tra aristocrazia e democrazia, in A.C. Cassio, D. Musti, L.E. Rossi (a cura di), Synaulía. Cultura musicale in Grecia e contatti mediterranei, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 2000, p. 28).
[8] F. Nietzsche, Il dramma musicale greco, cit., p. 35.
[9] Ibid. p. 6.
[10] Cf. M. Di Marco, La tragedia greca, Roma, Carocci, 2000, p. 104; A. Lesky, La poesia tragica dei Greci, trad. it. P. Rosa, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 761 s.
[11] Testimoni di questa nuova sensibilità musicale nel mondo greco sono la Repubblica di Platone (III 397c-e, X 595a-c ss.), i Problemi dello Pseudo-Aristotele (XIX, 15), il De Musica dello Pseudo-Plutarco (1141d; a sua volta, contiene un’altra importante fonte: il frammento del Chirone di Ferecrate, fr. 155 K.-A.) e il Perì trag0día di un anonimo bizantino. Tutte sono concordi nel sostenere un lento progredire del valore musicale rispetto al testo, ma quella che meglio argomenta in modo tecnico tale principio è l’ultima fonte citata. Secondo quanto si evince dal testo le principali caratteristiche della &rldquo;Nuova Musica” sono le seguenti: l’introduzione di nuove armoníai e generi musicali; lo sviluppo e l’affinamento delle possibilità esecutive degli strumenti a fiato e a corda che permettono di associare in uno stesso componimento armonie e generi diversi grazie all’aumento del numero dei suoni; l’introduzione di variazioni proprie del virtuosismo solistico con conseguente incremento di monodie e riduzione della funzione del Coro (cf. F. Perusino, Anonimo (Psello?). La tragedia greca, Urbino, Quattro Venti, 1993, p. 55).
[12] Non così a torto si ipotizza un’inversione nei ruoli di influenza: non è assurdo pensare che forse fu più Euripide a influenzare Timoteo. Infatti, è opportuno anche rivedere la vulgata per cui «the dramatic New Music in entirely derivative and dependent on the creative energies of Melanippides, Kinesias, Phrynis, Timotheus, and Philoxenus» (E. Csapo, Later Euripidean music, «ICS», n.s., XXIV-XXV, 1999-2000, pp. 405 ss.). Non a caso, nell’Ifigenia Taurica, le cinque, forse, sei espressioni, alquanto rare e del tutto affini a quelle dei Persiani di Timoteo, possono illuminare tale rapporto inverso (E. Firinu, Il primo stasimo dell’Ifigenia Taurica euripidea e i Persiani di Timoteo di Mileto: un terminus post quem per il nomos?, «Eikasmós», n.s., XX, 2009, pp. 109 ss.). In ogni caso, bisogna ammettere che la &rldquo;Nuova Musica” fu una corrente musicale che rappresenta una nuova sensibilità musicale e di cui Euripide ne fece sicuramente parte (cf. G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, Torino, EDT, 1991, pp. 37 ss.; E. Csapo, Later Euripidean music, cit., pp. 397-426; D. Musti, Musica greca tra..., cit., pp. 7-55; T.B.L. Webster., The Tragedies of Euripides, London, Methuen & Co., 1967, 276-296; M.L. West, La musica greca antica, trad. it. di M. De Giorgi, Lecce, 2007, pp. 503-30; P. Wilson, Euripides’ Tragic Muse, «ICS», n.s., XXIV-XXV, 1999-2000, pp. 427-449).
[13] Il rivoluzionario Timoteo non ottenne grande successo dalla critica a lui contemporanea e anche successiva. Kenyon avrebbe voluto che la scoperta del papiro dei Persiani non si fosse mai realizzata «for the credit of Greek literature» (F.G. Kenyon, Greek papyri and their contribution to classical literature, «JHS», n.s., XXXIX, 1919, p. 5); anche Wilamowitz dichiara la sua noia verso il poeta e il desiderio di scordarsi di lui: «für jetzt ist mir der Kerl langweilig und ich möchte ihn vergessen» (U. von Wilamowitz-Moellendorff, Timotheos. Die Perses, Leipzig, Ulrich, p. 18). Ma è opportuno osservare che lo scarso successo presso la critica era dovuto «all’eccessiva indulgenza verso i gusti volgari delle masse assiepate nei teatri, l’abbandono del rigore e dell’eleganza della musica e della poesia» (R. Sevieri (a cura di), I Persiani, Timoteo, Milano, La Vita Felice, 2011, p. 10).
[14] «Ancient writers [scil. Satyr. Vit. Eur. P. Oxy. IX. 1176 fr. 39 c. XXII [p. 78 Arrighetti], Plut. An seni 23 795d.] attest to a personal relationship between them [scil. Timoteo ed Euripide], and because there is cleary some borrowing between the poets in Persians and Orestes, though, due to the difficulty of dating Persians, it is not entirely clear which way it goes» (E. Csapo Later Euripidean music, cit., p. 406).
[15] M. Mila, Breve storia della musica, cit., pp. 274 s.: é con l’Orfeo ed Euridice di Gluck (1762) che si avvia quel processo di &rldquo;riforma” per cui la musica dell’italiana &rldquo;opera seria” acquista la capacità d’espressione drammatica: «giacché sino allora il suo compito era stato essenzialmente lirico» (F. D’Amico, Forma divina. Saggi sull’opera lirica e sul balletto, N. Badolato - L. Bianconi (a cura di), Firenze, L. S. Olschki, 2012, p. 5). Nell’&rldquo;opera seria” l’azione drammatica era resa attraverso il libretto e mai, prima dell’Orfeo ed Euridice, la musica avrebbe tentato di esprimere da sola la drammaticità della vicenda. «Le parti musicalmente più responsabili [scil. dell’&rldquo;opera seria”], cioè le arie e i duetti, esprimevano quasi esclusivamente le stasi dell’azione, la riflessione lirica sugli accadimenti passati o futuri: tanto che dal punto di vista del dramma avrebbero potuto quasi sempre espungersi senza danno» (ibid.). Ma l’opera di Gluck scatena un nuova tendenza anche nella struttura dell’opera, rendendola più unitaria. Supera quelle cesure rese attraverso l’antitesi &rldquo;recitativo uguale azione” e &rldquo;aria uguale espressione lirica” cosicché anche l’aria stessa può portare avanti l’azione e il recitativo ridotto al minimo si inserisce nella stessa aria oppure punteggia un coro (cf. Ibid., pp. 8 s.).
[16] M. Mila, Verdi, Milano, Rizzoli, 2012, p. 529.
[17] Nell’opera per &rldquo;forma chiusa” s’intendono generalmente brani musicalmente autonomi dal resto della composizione: sono pezzi chiusi le arie, i pezzi d’assieme (come i duetti e i trii) o i cori (cf. A. Napoli, E. Polignano (a cura di), Dizionario dei termini musicali, Milano, B. Mondadori, 2002, s.v. Melodia e Opera). Per il teatro greco non esiste tale espressione anche se essa è facilmente applicabile a forme quali prologo, episodio, stasimo, amebeo, parodo.
[18] «Bisogna riconoscere l’esistenza di due Verdi, entrambi sovrani, uno che culmina in Rigoletto-Trovatore-Traviata, l’altro che culmina in Otello-Falstaff» (M. Mila, Verdi, cit., p. 505). «Ma è evidente che un fenomeno di queste proporzioni [scil. il rinnovamento della lirica] non può essere considerato come qualcosa di &rldquo;isolabile” nel contesto della poetica dell’ultimo Euripide; esso è invece anche il sintomo di un rinnovamento che investiva la personalità del poeta nella sua totalità» (V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 273).
[19]> Cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, Torino, Piccola Einaudi, 1971, p. 228.
[20] Si pensi per la prima produzione di entrambi gli artisti al mantenimento delle &rldquo;forme chiuse”, più o meno immutate nelle loro proporzioni e nelle loro successioni (in particolare per Verdi si pensi al mantenimento della canonica struttura: cantabile, recitativo e cabaletta, uno successivo all’altro); alla metrica poco sperimentale; all’ immutato ruolo del coro; ad un numero più ristretto dei personaggi; ai pochi movimenti ed espedienti scenografici. Molto più difficile parlare di musica e &rldquo;forme chiuse” in Euripide, tanto più per questo primo periodo: la prima opera che conserviamo è l’Alcesti (438) e il debutto di Euripide era iniziato quasi vent’anni prima con le Peliadi (455). In ogni caso è però fortemente indicativa per questo primo periodo la bassa percentuale di soluzioni dei trimetri e il mantenimento stabile della strutturazione canonica in prologo, parodo, episodio e stasimo.
[21] La &rldquo;Nuova Musica” era appunto definita dagli antichi &rldquo;teatrale” (cf. Ps.-Plut. Mus. 1142c.) perché il palcoscenico era il luogo in cui questa nuova corrente musicale si esprimeva: una musica non più aristocratica ma democratica e vicina al popolo (cf. D. Musti, Musica greca tra..., cit., pp. 7-11). In definitiva, lo sperimentalismo della &rldquo;Nuova Musica&rldquo; sembra essere dettato da mode più vicine al gusto popolare, come anche era più “popolare” ritrarre le figure tragiche più vicine all’umanità comune come nel caso del teatro euripideo.
[22] M. Di Marco, La tragedia greca, cit., p. 132.
[23] Frequenti e più o meno evidenti sono i riferimenti riguardo il dibattito filosofico. Per esempio, nell’ultimo stasimo dell’Alcesti (vv. 962-1005) si percepisce la discussione della conoscenza della natura caratterizzante la filosofia di Anassagora, come anche in Hec. vv. 864ss. (per la delusione di Socrate nei confronti di tale dottrina: cf. Plat. Phaedr. 97b.8 ss.). La polemica contro Protagora, per cui il λóγος può cambiare la realtà, è ricorrente nell’agone tra Medea e Giasone (cf. N. Petruzzellis, Euripide e la sofistica, «Dioniso», n.s., XXXIX, 1965, pp. 360 ss.; cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., pp. 80-102). Questo atteggiamento di bieco realismo fu proprio della nuova temperie culturale della seconda metà del V secolo a.C. e non a caso presente anche in Tucidide (cf. J.H. Finley, Euripides and Thucydides, « HSCP», n.s., XIL, 1967, pp. 49-54).
[24] V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 44.
[25] Si tratta di una nuova concezione che distingue il conoscere il bene dal compierlo, superando così il tradizionale contrasto tra ragione e impulso − presente, per esempio, nel fr. 718 N.2 del Telefo di dieci anni prima − e quello ancora più antico di &rldquo;ciò che è giusto da ciò che è ingiusto” come si legge nei frammenti 541 P. e 542 P. di Simonide (cf. B. Snell, Das frühste Zeugnis über Sokrates, «Philologus», n.s., XCVII, 1948, pp. 125-134; V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 6).
[26] Cf. M. Di Marco, La tragedia greca, cit., p. 147.
[27] Le prime tre tragedie intere superstiti non a caso riscossero un successo non indifferente. Con l’Alcesti si classificò secondo dopo Sofocle, con la Medea fu terzo e con l’Ippolito fu primo. Si pensi alla testimonianza dello Ps.-Plut. De Mus. 12, 1135c che evidenza lo stile &rldquo;popolare” e &rldquo;commerciale” dei poeti della generazione di Timoteo.
[28] Nelle tre tragedie sopracitate il cambio di atteggiamento si realizza sempre dopo la presa di coscienza della necessità del gesto da compiere e grazie a un dialogo con un altro personaggio o con il Coro. Alcesti, dopo il dolore per la futura separazione dalla famiglia (vv. 244-272), accetta il destino assegnatole e la sua necessità (cf. vv. 297-8), appunto la morte; Fedra, squassata dall’incestuoso amore, dopo un deterioramento non solo emotivo ma anche mentale (cf. vv. 198-249), comprende la necessità del suicidio come atto risolutivo del proprio dramma (cf. vv. 507-24); Medea, dopo essersi disperata per l’affronto subito (cf. vv. 96-114) e dopo aver ipotizzato la tremenda vendetta, ne accetta la triste necessità (cf. vv. 214-66; vv. 791-2). Non si tratta di un’improvvisa atarassia ma di un forte senso della realtà, di una lucida consapevolezza della propria tragicità che si realizza dopo una precedente fase irrazionale. Dal punto di vista drammaturgico si passa dal canto in anapesti lirici, per i lamenti, alla recitazione in trimetri giambici, per le parti riflessive (cf. W. Schadewaldt, Monolog und Selbstgespräche, Berlin, Weidmann, 1926, pp. 143 s.).
[29] Ciò non significa che Euripide trascuri temi cari alla tradizione come la ricerca dell’onore e della gloria di ascendenza omerica (cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 38; A. Maddalena, La Medea di Euripide, «RFIC», n.s., XCI, 1963, pp. 132 s.). Permane una continuità con la tradizione precedente sotto molti punti di vista quasi da stabilire una continuità tra teatro tradizionale e teatro sperimentale. Attraverso una contaminazione di elementi, è possibile rendere il “precedente” un’ “antecedente”: il coraggio e l’orgoglio, sentimenti così militanti nel teatro e tipicamente maschili, vengono spostati nell’ambito femminile. Lo scoppio d’odio di Medea contro il marito Giasone, nel primo stasimo e nell’esodo, tocca delle punte di veemenza che torneranno nello scontro tra Alcmena e Euristeo alla fine degli Eraclidi (430-427 a.C.) e tra Ecuba e Polimestore nel finale dell’Ecuba (425-424 a.C.).
[30] V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., 59-72.
[31]> Importante e costante cifra stilistica del teatro euripideo è lo &rldquo;stile mimetico”, ossia la capacità di ricreare attraverso il linguaggio la dimensione introspettiva del personaggio (cf. e. g. A. Lesky La poesia tragica dei Greci, cit., p. 762).
[32] V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 105.
[33] Cf. M. Pohlenz, La tragedia greca, vol. II, Brescia, Pideia, 1961, p. 161; G. Zuntz, The political plays of Euripides, Manchester, Manchester University Press, 1955, pp. 81 ss.
[34] Cf. Méridier, Euripide. Hippolyte. Andromaque. Hécube, vol. IV, Paris, Les Belles lettres, 1927, p. 131.
[35] Cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 126.
[36] Cf. V. Di Benedetto, E. Medda, La tragedia sulla scena, Torino, Einaudi, 1997, p. 336.
[37] Cf. M. Mila, Verdi, cit., pp. 96-100.
[38] Ibid., pp. 459ss.
[39] Cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 23.
[40] M. Mila, Verdi, cit., p. 25.
[41]> Cf. Ibid., pp. 29-36.
[42] Cf. M. Di Marco, La tragedia greca, cit., p. 129.
[43] Cf. V. Di Benedetto, E. Medda, La tragedia sulla scena,cit., p. 336.
[44] Cf. F. Dorsi, G. Rausa, Storia dell’opera italiana, Milano, B. Mondadori, 2000, p. 470.
[45] Cf. R. Celletti, Dai romantici ai grandi di fine millennio, in Id., Storia dell’Opera italiana, vol. II, Milano, Garzanti, 2000, p. 457.
[46] Cf. Mila, Verdi, cit., p. 178.
[47] Cf. R. Mellace, Con moltissima passione. Ritratto di Giuseppe Verdi, Roma, Carocci, pp. 130-3.
[48] R. Celletti, Dai romantici ai grandi di fine millennio, cit., p. 440.
[49] M. Mila, Verdi, cit., p. 78.
[50] Cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 239.
[51] Cf. Ibid., p. 238.
[52] Cf. Ibid., p. 227.
[53] Cf. Ibid., p. 225.
[54] Si pensi ai Persiani di Timoteo e in particolare alla scena dello scontro tra la flotta greca e quella persiana (vv. 1-39): il collante della descrizione è la metafora che vuole assimilare le membra umane ai relitti navali, ripreso poi ai vv. 86-104, mentre nei vv. 72-81 la voce del naufrago si fa sentire al di sopra del gorgogliare dell’acqua che minaccia di soffocarlo. Come giustamente nota R. Sevieri (Id., I Persiani, Timoteo, cit., p. 45) il principio della variazione sul tema, scandito da ripetizioni di parole e suoni «che percorrono come ondate acustiche l’intero brano», poggia su un metro costituito da un libero succedersi di ritmo giambo-trocaico, che doveva costituire un elemento virtuosistico in fase esecutiva. Sintomatico del modo di comporre di Timoteo è dunque l’adeguare mimeticamente il linguaggio ai diversi momenti dell’evento drammatico (cf. G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, cit., p. 39), e non a casa è elemento distintivo anche di Euripide.
[55] Cf. R. Celletti, Dai romantici ai grandi di fine millennio, cit, p. 458.
[56] A tale proposito, Barker (2002, 13) ha rilevato come l’aulo, risultando per sua stessa natura più versatile della cetra grazie alla sua maggiore estensione, subisse meno la rigidità della tradizione.
[57] Cf. G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, cit., p. 36.
[58] Cf. A. Pertusi, Il significato della trilogia troiana di Euripide, «Dioniso», n.s.,XV, 1952, p. 251 n. 2; M. Pintacuda, La musica nella tragedia greca, Cefalù, L. Misuraca, 1978, p. 167 n. 33; L. Battezzato, The new music of the Trojan Women, «Lexis», n.s., XXIII, 2005, pp. 73-104.
[59] E. Csapo, Later Euripidean music, cit., p. 8.
[60] In realtà, Csapo retrodata il limite cronologico di Kranz per l’inizio della &rldquo;Nuova Musica” in Euripide.
[61] T.B.L. Webster, The Tragedies of Euripides, cit., p. 20.
[62] Cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, pp. 55-59. Il programmatico incipit dichiarato da Cassandra ai vv. 365-6 (per cui il destino dei vincitori non è così preferibile a quello dei vinti) apre l’argomentazione che, intrisa di quel &rldquo;razionalismo euripideo”, si struttura attraverso un’esposizione serrata e stringente. Ritornano i temi, sopra trattati, della ricerca dell’onore (vv. 394-399) e della necessità della propria (o altrui) morte (vv. 401-405) che tanto caratterizzano le figure di Alcesti, Medea, Fedra, Polissena.
[63] Cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., pp. 59-62.
[64] Cf. L. Canfora, Il mondo di Atene, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 177-186.
[65] Cf. M. Mila, Verdi, cit., 593.
[66] Cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., 228.
[67] «La stupenda efficacia della declamazione non meno dell’accuratissima, ingegnosa strumentazione» (R. Celletti, Dai romantici ai grandi di fine millennio, cit., p. 459) si mostrano in tutta la loro novità sin dalla scena iniziale della tempesta, in cui i flauti e gli ottavini mirano alla riproduzione dei lampi. È l’inizio di un nuovo gusto in cui il Verdi iniziale perde la sua concisione iniziale (il già citato «fuoco e brevità!») a favore di un libretto che dipende direttamente dalla musica: tant’è che alle volte Boito, il librettista, «rigurgita qua e là ciarle», appunto perché incapace di cogliere il muoversi sinuoso della musica (cf. Ibid., p. 460). Così anche per il Falstaff in cui i trilli degli archi e dei fiati accentuano l’umorismo del protagonista («Che onor! che ciance! che baja!») e il precipitare dell’orchestra determina la scena in cui Falstaff insegue a colpi di scopa Pistola (basso) e Bardolfo (tenore).
[68] Cf. F. Dorsi, G. Rausa, Storia dell’opera italiana, cit., p. 489.
[69] Anche nel Don Carlos il numero delle arie appare ridotto rispetto alle precedenti opere: l’unica è quella del I atto eseguita dal protagonista, «Io la vidi e il suo sorriso». Eseguito per la prima volta all’Opéra di Parigi l’11 marzo del 1867, il Don Carlos venne riscritto con la volontà di renderlo più unitario e meno frammentato in atti e, infatti, l’intero I atto venne totalmente soppresso. La nuova strumentazione orchestrale di Verdi faceva capolino nella riscrittura del 1884: il cambio di ritmi e i passaggi di tono portano lo spettatore ad altrettanti passaggi emotivi, dall’amarezza, alla rassegnazione sino alla nostalgia (cf. R. Celletti, Dai romantici ai grandi di fine millennio, cit., p. 455).
[70] Cf. F. Dorsi, G. Rausa, Storia dell’opera italiana, cit., p. 492.
[71] «Nessun compositore che visse nel tempo di Wagner e in quello postwagneriano poté rimanerne immune [...]. Neppure Verdi (come sarebbero state opere quali Otello e Falstaff se Wagner non fosse esistito, o se Verdi l’avesse ignorato?)»: R. Vlad, Wagner e la cultura musicale moderna, in G. Bevilacqua, Parole e musica: l’esperienza wagneriana nella cultura fra romanticismo e decadentismo, Firenze, L.S. Olschki, 1986, p. 2.
[72] Importante notare come nell’Elena di Euripide si assista all’inizio di un fenomeno che poi sarà più volte presente nell’ultima produzione: i numerosi riferimenti alla musica (cf. vv. 165 góon e moysan, 166 thre;nois e i vv. 1109s.) sono molto più che decorazioni affidate al caso e hanno più significato di quanto appaia dal testo: creano una fitta rete che tiene insieme la narrazione e la cui discussione sembra premere al tragediografo (cf. A. Barker, Simbolismo musicale nell’Elena di Euripide, in P. Volpe Cacciatore (a cura di), Musica e generi letterari nella Grecia di età classica: atti del II Congresso Consulta Universitaria Greco [Fisciano, 1 dicembre 2006], Napoli, Arte Tipografica, 2007, p. 21). La musica, come tema di discussione, sarà molto forte nelle due tragedie frammentarie, l’Antiope e l’Ipsipile, tant’è che, secondo López Cruces, questo dramma fu una sorta di apologia del tragediografo, sia della sua produzione, sia degli artisti innovatori (cf. J. López Cruces, Eurípides músico. Antíope y la reescritura de los mitos musicales, in F. J. Campos Daroca, F. J. García González, J. L. López Cruces, L. P. Romero Mariscal (a cura di), Las Personas de Eurípides, Amsterdam, A. M. Hakkert, 2007, p. 15).
[73] Cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 262 ss. All’abbandono della responsione strofica nel ditirambo e nel nomos corrisponde un incremento nel dramma greco delle parti affidate ai professionisti lirici, che si muovevano con grande libertà metrica e strutture astrofiche, tipiche della produzione euripidea (per fare alcuni esempi: la monodia di Polimestore nell’Ecuba, vv. 1056-1106; gli amebei di riconoscimento nell’Elena, vv. 625-697, come nell’Ifigenia fra i Tauri, vv. 827-899 e nello Ione, vv. 1439-1509; la già citata monodia dello schiavo frigio nell’Oreste, vv. 1369-1502 (cf. E. Cerbo, Parola, metro e scena nelle monodie di Ifigenia, (Eur. IA 1283-1335 e 1475-1499), in M.S. Celentano (a cura di), Ricerche di metrica e musica Greca per Roberto Pretagostini, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010, p. 4).
[74] Per le rivoluzioni metrico-musicali di Euripide è necessario basarsi dapprima sui testimoni antichi, tra cui per esempio Dionigi di Alicarnasso (Comp. Verb. 11,63). Lo storico parla di una nuova tendenza nell’ultimo Euripide: egli rileva che il tragediografo arrivò sino al punto di sovvertire il rapporto tra accento di parola e accento melodico, intonando all’acuto parole non accentate come nei vv. 140-142 dell’Oreste che Dionigi stesso discute. Gentili nota come la tendenza euripidea rilevata da Dionigi − a non osservare il rapporto tra sillaba accentata e melodia − si trovi sia nelle parti strofiche, come risulta da P. Vind. G2315 (Or. 338-344), sia in quelle epodiche, come attesta P. Leid. inv. 150 (IA 784-792) (cf. B. Gentili, Metro e ritmo nella dottrina degli antichi e nella prassi della «performance», in B. Gentili, R. Pretagostini (a cura di), La musica in Grecia, Roma-Bari, Laterza, p. 12). Un elemento che allontana notevolmente Euripide dalla comune pratica, nella quale la parola poetica costituiva la struttura di base della composizione (una sorta di &rldquo;parola scenica” per il teatro greco) e in cui c’era perciò una maggior attenzione per il rapporto accento-intonazione. Altro testimone delle rivoluzioni musicali in Euripide è il già citato autore del Perì trag0día che si sofferma per poche righe (5,49-56) sugli elementi innovativi della musica di Euripide (cf. F. Perusino, Anonimo (Psello?). La tragedia greca, cit., p. 29 s.). Egli informa che i palaiói – da intendersi sia come &rldquo;antichi”, che come &rldquo;tradizionalisti” (cf. Ibid.) – si servirono di mikrà systemata, «piccoli sistemi di intervalli», e che Euripide, «fu il primo a servirsi della polychordía». In altri termini, gli antichi compositori si servirono di piccole successioni di intervalli, e dunque di poche note, mentre Euripide utilizzò per primo un maggior numero di note, che permetteva una più ampia varietà di armonie e di coloriture, all’interno di una stessa composizione, rispetto a quella dei suoi predecessori (5,52s.: cf. Ibid.). L’aggettivo polyeidésteros, &rldquo;multiforme”, fa riferimento a una pluralità di éide, cioè di generi armonici (diatonico, cromatico ed enarmonico) e probabilmente anche di armonie; l’aggettivo polychroýsteros, &rldquo;multicolore”, indica invece una pluralità di chroài, &rldquo;colorature” (cf. Ibid.). Lo Ps.-Plutarco (Mus. 1137a) dice che gli antichi non si astennero dalla polychordía perché non conoscevano tutte le armonie, ma che per questioni legate al loro gusto musicale nobile e severo preferivano servirsi di insiemi di intervalli piccoli e di un minor numero di note (della polychordía parla anche Platone, Resp. III, 399 c-d: «E poi, accoglierai nella città fabbricanti e suonatori di flauto? O non è questo per eccellenza lo strumento “con molte corde”, e gli stessi strumenti panarmonici non si trovano ad essere imitazioni del flauto?», trad. M. Vegetti).
[75] R. Garlato, Repertorio metrico verdiano, Venezia, Marsilio, 1998, p. 310.
[76] Come già accennato, Dionigi di Alicarnasso (Comp. Verb. 11,63) nota che il tragediografo arrivò sino al punto di sovvertire il rapporto tra accento di parola e accento melodico, intonando all’acuto parole non accentate come nei vv. 140-142 dell’Oreste: tale capacità consentiva di prolungare ad libitum note o di intonare su tre note una sola sillaba (cf. Ar. Ra. v. 1314s., 1348s.) o anche di cantare su una sola nota un’intera pericope (e. g. Dionigi discutendo i vv. 140-142 dell’Oreste dice: «la parte [sc. del verso] “silenzio, silenzio, la leggera” [v. 140] è cantata su una sola nota») (cf. M.L. West, La musica greca antica, cit., p. 508; cf. M. De Poli, Giambo e anapesto tra metrica e ritmica. Fenomeni di superallungamento in Euripide?, «Eikasmós», n.s., XVII, 2006, pp. 122 ss.). Finché la linea melodica seguiva il testo, con un corretto rispetto della quantità naturale delle sillabe, non era necessario scrivere musica e fu solo in questo momento che l’annotazione musicale fu necessaria (cf. Aristox. El. Harm. II 39-41).
[77] Che la soluzione dei trimetri giambici si intensifichi con l’avanzare dell’età del tragediografo e che indichi un’accentuata tensione drammatica è stato confermato da numerosi studiosi: «la &rldquo;soluzione”, rompendo il rigido schematismo e la monotona successione dei metri puri, conferisce al verso un’andatura sciolta e naturale» (C. Prato, Ricerche sul trimetro euripideo: metro e verso, «QUCC», n.s., XIV, 1972, p. 74).
[78] I tragici si servivano del docmio solitamente per esprimere situazioni di forte pathos, fatto comprensibile visto che gli interventi trenodici per natura necessitano di essere metricamente più liberi (cf. D. Korzeniewski, Metrica greca, trad. it. O. Imperio, Palermo, L’Epos, 1998, p. 163),. Euripide lo inserisce anche all’interno di altri metra, e, infatti, per esempio i cretici e i trochei uniti ad esso possono presentare la soluzione in due brevi dell’elemento lungo: indice di un ricercato patetismo ma anche di possibili variazioni vocali (come ad esempio un eventuale &rldquo;vibrato” vocale nel superallungamento della sillaba). Sempre prevale nel docmio di Euripide un accumulo delle sillabe brevi, per amplificare il pathos e lasciare più libera esecuzione lirica dell’attore (cf. E. Cerbo, Parola, metro e scena, cit., p. 4). A tal proposito, l’autore del Perì trag0día (5, 55s.) cita tra i vari metra come tipicamente euripideo l’abbondante uso della soluzione metrica del prokeleysmatikós (una successione di quattro sillabe brevi) in sostituzione dell’anapesto. Il docmio invece Euripide lo impiega prevalentemente nelle parti prive di responsione (duetti e monodie) della sua ultima produzione (eccezione fatta per i vv. 1056-1106 dell’Ecuba, che non può dirsi dell’ultima produzione; per fare alcuni esempi HF. 875-921, 1016-1085, 1178-1213, Tr. 239-291, IT. 827-899, Ion 1445-1509, Hel. 625-627, Phoen. 103-192, 293-354, Or. 1369-1502, IA. 1283-1335: cf. M.C. Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di metrica greca, Bologna, Cappelli, 1995, p. 273).
[79] I canti astrofici sono una caratteristica del Nuovo Ditirambo (cf. Arist. Pol. 7, 1342b 1-12), ma l’esigenza era già sentita da Pindaro nel vessato esordio del ditirambo per i tebani (fr. 70b M.) per cui la frase «nuove porte si aprono ora ai cori ciclici» (vv. 4s.) secondo la testimonianza di Orazio (Carm. IV 2, 11s. verba devolvit [scil. Pindarus] numerisque fertur / lege solutis), è interpretata dagli studiosi come l’inizio di un nuovo gusto che vuole affrancarsi dalla responsione strofica (cf. G. Ieranò, Il ditirambo di Dioniso, Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1997, p. 217). «Vi si pone infatti una connessione tra la struttura astrofica dei canti ditirambici, l’evoluzione delle forme poetiche e la trasformazione del ruolo sociale degli agoni poetici. Il ditirambo, sostiene lo Pseudo-Aristotele, una volta diventato &rldquo;mimetico” abbandonò la forma antistrofica che «in antico» vigeva perché il Coro era formato da semplici cittadini che si sarebbero trovati a disagio, per la loro impreparazione tecnica, nell’esecuzione di lunghi brani senza responsione strofica. Viceversa la complessa struttura melodica, l’enarmonia e le metabolai del nuovo ditirambo presuppongono cantori professionali “agonistici” (cf. Arist. Pol. 1341b ss.)» (cf. Ibid., p. 230).
[80] Nel Falstaff il Coro è totalmente assente mentre nell’Otello è una presenza poco costante e non determinante ai fini drammatici: non a caso Verdi inizialmente aveva meditato un Otello senza Coro ma solo il librettista Boito riuscì a dissuaderlo (cf. M. Mila, Verdi, cit., pp. 622 ss.). Nella tragedia, invece, già nelle ultime tragedie di Sofocle (Elettra, Filottete ed Edipo a Colono) in luogo dello stasimo si verificano dialoghi lirici tra attori e tra attore e Coro (cf. O. Taplin, Lyric dialogue and dramatic construction in later Sophocles, «Dioniso», n.s., LV, 1984-1985, pp. 115-122). Non a caso anche Euripide, sull’onda della nuova sensibilità musicale, recepisce e realizza la recente esigenza di allentare il Coro da una funzione militante nello svolgersi degli eventi: si predilige l’attore come nell’Oreste (vv. 960-981) e nell’Ifigenia in Aulide (vv. 1283-1335: cf. Cerbo 2010, 4). Il canto corale risulta nelle Fenicie &rldquo;straniato”, ossia risulta totalmente assente all’azione drammatica: «non ha titolo per proporre una valutazione etico-politica delle azioni di Eteocle e Polinice, né sarebbe credibile un suo schierarsi apertamente a favore dell’uno o dell’altro» (E. Medda, La saggezza dell’illusione. Studi sul teatro greco, Pisa, ETS, pp. 228 ss.).
[81] Si ricordi il sintomatico modo di comporre di Timoteo per cui si adegua mimeticamente il linguaggio ai diversi momenti dell’evento drammatico (cf. G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, cit., p. 39). Caratteristica che si può ben osservare nella produzione euripidea, si pensi solo al tema della follia di Oreste: l’autore del De Sublime (15, 2s.),citando l’Ifigenia fra i Tauri e l’Oreste, sostiene che è come se, attraverso la descrizione, gli spettatori vedessero, e infatti Euripide descrive la malattia di Oreste con una precisione nella sintomatologia che a molti ha fatto pensare alle opere mediche del corpus Hippocraticum (cf. E. Medda, Euripide. Oreste, Milano, Bur, p. 12)
[82] Nell’Elena, nell’Oreste enelle Fenicie non c’è alcuna soluzione al dramma, e vani riescono tutti gli espedienti: il disperdere l’azione in tentativi di salvezza è una caratteristica che li accomuna all’Ifigenia fra i Tauri, ma puntualmente gli uomini sono abbandonati a loro stessi e non trovano salvezza. Nelle Fenicie l’accumulo delle situazioni lascia pensare all’Oreste: tutto è noto dall’inizio e il dramma non comporta un vero e proprio svolgimento: l’azione si presenta in quadri giustapposti intervallati da canti lirici che non lasciano trovare un filo conduttore, come già sperimentato nelle Troiane (cf. U. Criscuolo, Verso l’ultimo Euripide: l’Oreste e le Fenicie, «AAP», n.s., XLVIII, 1999, p. 250); e infatti questo fatto viene interpretato da Di Benedetto come una narrazione che si svincola dalla trama principale e diviene fine a se stessa (cf. V. Di Benedetto, Euripide. Teatro e società, cit., p. 246).