Magda Indiveri - Inseguendo le storie

Calvino e l’impresa delle Fiabe italiane

 

1.      Il progetto editoriale

Non potremmo capire davvero quale grande impresa abbia rappresentato il volume de Le fiabe italiane pubblicato nel 1956, se non andiamo a scoprire su quale terreno nasce e fiorisce[1]. Le fiabe italiane, scelte e trascritte da Italo Calvino per la collana I Millenni dell’Einaudi, germina da una precisa esigenza di politica editoriale. Ricordiamo che la casa editrice fu fondata da Giulio Einaudi nel ‘33, raccogliendo intellettuali antifascisti, esponenti di Giustizia e Libertà, studiosi come Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Ernesto De Martino, nell’ottica dell’editore moderno ovvero del “buon educatore”. L’Einaudi si caratterizzava come un laboratorio di democrazia e di pluralità. Chiarissime le parole di Carlo Muscetta, direttore della collana economica “Universale”, che nel verbale della riunione del 23-24 maggio 1951, la definiva come una

 

«[…] casa antifascista, democratica e laica, particolarmente impegnata nel compito di sprovincializzare e aggiornare la cultura italiana e di aprirla a nuove prospettive e conquiste culturali, come ad esempio nel campo della ricerca e della conoscenza scientifica[2]»

Questa indicazione ci conferma che le Fiabe italiane nascono come un’opera scientifica, fortemente voluta da Einaudi, da Pavese e da alcuni importanti folkloristi. Su quest’operazione si innesta il lavoro letterario di Calvino.

Fino al 1950, anno della sua morte, colui che esprimeva lo spirito della casa editrice era Cesare Pavese, coadiuvato da Natalia Ginzburg ed Elio Vittorini. Calvino entra nel ‘47 come redattore e in poco tempo diventa l’animatore della sezione letteraria. Oggi questo lavoro editoriale è ben testimoniato, abbiamo in volume (I libri degli altri) le lettere di risposta di Calvino agli autori proponenti, ad Einaudi e ai colleghi interni, così come abbiamo tutte le bandelle, le quarte di copertina anonime che lui redigeva. (Il libro dei risvolti) Tutto questo materiale è oggi pubblicato.

Due filiere culturali, emerse a fine anni quaranta, ci interessano: da una parte quella fortemente voluta da Pavese sulla ricerca etnografica e demo/antropologica che portò, nel ’49, alla pubblicazione de Le radici storiche dei racconti di fate di V. Propp tradotto da Clara Coïsson con prefazione di Giuseppe Cocchiara e che produsse la “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” inaugurata nel ‘48 dal Mondo magico di Ernesto De Martino.

L’altra collana, di ambito folkloristico e popolare, voluta dalla casa editrice, era i Classici della fiaba, che dentro ai Millenni pubblicò Le mille e una notte, 1948, Grimm 1951, Afanasjev 1953, Andersen, 1954, Fiabe africane, 1955. Mancavano le fiabe italiane.

Mi pare stimolante cogliere anche un’assonanza, nel lavoro di Calvino, con il versante della “letteratura per l’infanzia” di cui si occupava il redattore capo Daniele Ponchiroli. Abbiamo infatti traccia dei rapporti editoriali intrattenuti da Calvino con Gianni Rodari, anch’egli futuro autore einaudiano. Nel ’52 Rodari aveva proposto ad Einaudi, scrivendo proprio a Calvino (che aveva appena pubblicato il Visconte dimezzato), un suo saggio in fieri su Pinocchio, nel quale intendeva «studiare il segreto formale di Pinocchio, la fusione perfetta di realtà e fantasia»

e aggiungeva:

 

«Pinocchio mi sembra un esempio perfetto di favola e un esempio perfetto di realismo: vedo in esso, personalmente, una strada della narrativa non solo infantile. È legittima? È ripetibile? Credo che la questione interessi anche te da vicino»[3]

 

Parole rivelatrici: ma torneremo su questo aspetto.

 

2.     L’elaborazione

L’esigenza di riportare «tutti i tipi di fiaba di cui è documentata l’esistenza nei dialetti italiani», rappresentando «tutte le regioni italiane» divenne dunque imprescindibile. Mentre per il canto popolare l’inventario delle forme attestate in Italia era già sostanzialmente fatto e se ne occupò Pier Paolo Pasolini, per le fiabe era totalmente da costruire. Cominciano dunque le grandi “manovre” editoriali, a suon di lettere.

La proposta di partenza giunse per lettera da Giuseppe Cocchiara dell’Università di Palermo, direttore del Museo Etnografico “Giuseppe Pitrè”, rivolta ad Einaudi il 18 dicembre ‘53 e accolta il 15 gennaio ‘54 con lettera di Calvino. Cocchiara proponeva «su una base di lavoro filologica, [di] lavorare con criteri essenzialmente poetici[4]». Calvino risponde e interpella altri due studiosi, Paolo Toschi dell’Università di Roma, direttore del Museo delle Tradizioni popolari Italiane e Giuseppe Vidossi di Torino, altro consulente della collana, che si dichiarano favorevoli ma meno aperti a una riscrittura; poi pensa a una conduzione congiunta con Cocchiara; infine «Si venne all’idea che lo dovessi fare io[5]»

Calvino assumeva dunque, come letterato, un compito altrui, e cioè degli specialisti del ramo . Ma come restituire i testi in dialetto?  Scriveva Cocchiara:

 

«ci sono due sistemi per fare un’antologia di fiabe popolari. Uno è quello scientifico di riportare le fiabe nei vari dialetti, dando di esse le varianti, l’apparato bibliografico, ecc. E questo non è il nostro caso.»

Occorreva invece, a suo parere, riportare le fiabe secondo tipi diversi e tradurre i testi in italiano, «un italiano favolistico, corretto ma svagato.» Anche Delio Cantimori approva. A metà aprile ‘54 il progetto è pronto: in una prima fase Cocchiara dovrà apprestare il materiale, poi per 9 mesi se ne occuperà Calvino «ruminando», come lui scrive, le fiabe.

Come sia avvenuto il rifornimento bibliografico meriterebbe una narrazione a sè stante: dopo un soggiorno a Palermo, nel novembre ‘54 Calvino torna all’Einaudi con un  ricco bottino: la raccolta di Pitrè del 1875 per la Sicilia, le fiabe lucane che furono fornite da De Martino; da Arpino riceve una fiaba da Bra; dall’antropologo Alberto Cirese materiale dal Molise (Umbria e Molise risultano le regioni le meno attestate), dalla Toscana il Libro di Nerucci pistoiese, e l’Imbriani di Firenze, ecc. Da aprile ‘55 lavora con continuità, schedando e classificando secondo “tipi numerati” di sua ideazione. A luglio ha tutto o quasi e scrive: «E adesso, sotto!»

Il volume deve diventare strenna natalizia per il dicembre ‘56. Viene presentato a fine novembre presso la libreria Einaudi di Roma: Carlo Levi presenta il libro e l’attrice Lilla Brignone legge alcune fiabe. In sala, insieme a moltissimi giornalisti, si trova davvero un pubblico memorabile: Vasco Pratolini, Danilo Dolci, Leonardo Sciascia, Elsa Morante, Gianna Manzini, per dirne solo alcuni.

 

3.     L’opera

Calvino ha prima di tutto dovuto affrontare problemi di carattere filologico, di rapporto con le fonti e con le varianti. E poi ha dovuto risolvere la questione della rispondenza tra l’andamento della narrazione tradizionale, in dialetto, e il suo personale ri-narrare. Ecco dunque cosa si propone di fare:

 

«arricchire sulla scorta delle varianti la versione scelta, quando si può farlo serbandone intatto il carattere, l’interna unità, in modo da renderla più piena e articolata possibile; […] integrare con una mano leggera d’invenzione i punti che paiono elisi o smozzicati; […] tener tutto sul piano d’un italiano mai troppo personale e mai troppo sbiadito, che per quanto è possibile affondi le radici nel dialetto, senza sbalzi nelle espressioni “colte”, e sia elastico abbastanza per accogliere e incorporare dal dialetto le immagini, i giri di frase più espressivi e inconsueti […][6]»

 

Lo scrittore è ben consapevole che la tecnica di costruzione di una fiaba tiene in equilibrio convenzione e libertà inventiva. E dunque, dando giustamente risalto al sacro ruolo del narratore, tanto importante nel racconto orale, mette in atto il gioco combinatorio della scomposizione e della ricomposizione di tipi e di motivi, dei prestiti, delle integrazioni, delle omissioni, tecnica che poi si affinerà vent’anni dopo, nel periodo sperimentale e parigino, con l’adesione all’Oulipo.

 

4.     Tre tipi di pubblico

Tre sono i tipi di pubblico cui si rivolge il volume delle Fiabe Italiane. I testi veri e propri si rivolgono ai bambini e alle loro famiglie; ma le 40 pagine di introduzione si rivolgono agli studiosi folkloristi; mentre agli specialisti di fiabistica comparata sono indirizzate le 200 note, una per fiaba, che occupano cinquanta pagine. Calvino ebbe precisa consapevolezza metodologica della natura composita del suo lavoro.

 

«È scientifica infatti la parte di lavoro che hanno fatto gli altri, quei folkloristi che nello spazio d’un secolo hanno messo pazientemente sulla carta i testi che mi sono serviti da materia prima; e su questo loro lavoro s’innesta il lavoro mio.»

 

Sulla rivista tedesca Fabula del 1958 lo studioso di fiabe Walter Anderson recensisce l’opera sottolineando la ricchezza dei riscontri comparativi (che giudica anche nuovi) forniti dalle duecento note. In realtà Calvino si crucciò che la sezione Note fosse stata poco considerata. Se ne lamentò ad esempio con Beatrice Solinas Donghi, narratrice, ligure lei pure, di favole come Le favole incatenate, commentando il suo saggio “Il ballo dilazionato” uscito sulla rivista Paragone nel febbraio ‘69 (ora è stato ripubblicato con altri testi da Topipittori ed. ne La fiaba come racconto). Nel scriverle una lettera per farle i complimenti, («Gentile Signora, ho letto il suo saggio su Cenerentola con grande soddisfazione») Calvino non potè fare a meno di rilevare che alcune considerazioni della scrittrice già le aveva portate avanti lui: «Vedo … che Lei non sfrutta i riscontri delle mie note, che mi sono costate tanta fatica e forse nessuno ha mai consultato.[7]»

 

5.     Calvino favolistico?

Il binomio Calvino-fiaba è oramai acquisito. Ma non bisogna equivocare: nella fiaba Calvino ricerca in particolare - come rispose all’inchiesta di Le Monde sul fantastico (1970) e ribadì molti anni dopo anche nella lezione americana sulla leggerezza - l’ordine, lo schema che si sviluppa a partire da un evento o da una prova: «il disegno, la simmetria, la rete d’immagini che si depositano intorno ad esso come nella formazione d’un cristallo[8]». Cerca e riproduce insomma quella “grammatica della fantasia” che Gianni Rodari componeva da anni. Ma per entrambi non si tratta di visione formalista, di puro piacere stilistico e strutturale. E’ invece una linea civile, perché in quella grammatica trovano il senso del loro operare. Calvino disse nella conferenza “Il midollo del leone”, del febbraio1955, anche se già disilluso dagli eventi, che lui era uno che credeva di «lavorare alla costruzione di una società attraverso la costruzione di una letteratura.»

La famosa affermazione «le fiabe sono vere» diventa dunque una visione del mondo, perché nel loro disegno egli privilegia la reazione, il percorso che i personaggi fanno per perseguire la loro libertà, «lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi». Una linea civile e politica, e anche in questo non si può non cogliere la comunanza di visione tra Calvino e Rodari, come la storica Vanessa Roghi sta da alcuni anni rilevando[9].

 6.     Le fiabe romagnole ed emiliane

Sono dieci le fiabe, presenti nel volume, di ambito emiliano-romagnolo. Dobbiamo ad Elide Casali l’approfondimento regionale[10]. In realtà, nelle 200 fiabe complessive, Toscana e Sicilia hanno lo spazio maggiore, e molte fiabe erano arrivate al nord attraverso quel che la Casali definisce la «trasfusione di sangue napoletano per via letteraria» ovvero attraverso la ricezione del Pentamerone di Basile. Tre fiabe sono romagnole, provenienti dalla breve raccolta di Giuseppe Gaspare Bagli[11]; sette vengono da Bologna, che poteva vantare due raccolte: La ciaqlira dla banzola delle sorelle Manfredi e Zanotti; del 1713; e la più tarda Al sgugiol di ragazu, Favole bolognesi, Forni 1891, di Carolina Coronedi Berti.

Entriamo nel laboratorio calviniano con due fiabe.

 

6.1  “Bene come il sale”

 

La bolognese “Fola dèl candlir” cambia titolo e diventa “Bene come il sale”. Calvino privilegia la sentenza che mette in moto la storia (è la risposta che la figlia più piccola rivolge al padre re che aveva chiesto alle tre figlie quanto bene gli volessero) e nella lunga nota relativa (n. 54) segnala il motivo letterario della “prova d’amore”, usato da Shakespeare nel Re Lear. Il titolo originale era invece più mediano, la fanciulla cacciata dal padre si nasconde in un candeliere dove la troverà il principe che poi la sposerà. Lo scrittore conferma con il cambio del titolo la sua attenzione al fulcro che fa snodare la storia, il motore narrativo, quell’equivoco sul sale che prima rifiutato, poi si rovescerà nella più grande ricchezza. Sempre in nota Calvino sottolinea gli intrecci e le possibili fonti, da Peau d’asne di Perrault, a una “Cenerentola” parmense, e le varianti in diverse regioni. E dichiara:

 

«Ho scelto questa svelta ed elegante versione bolognese, nella quale la risposta della ragazza ch’l’ai portava l’amour del sal ha una particolare logica, perché – come annota il Pitrè – nel dialetto bolognese amour vale non solo amore ma anche sapore.»

 

6.2 Zio lupo

Analizziamo infine la fiaba romagnola Zio Lupo, derivata da La fola de lòv, (Faenza).

Vediamo subito la nota (n.49):

 

«Zio Lupo, Barbe Lof, Barba Zucon, Nonno Cocon: è la più semplice fiaba per bambini della tradizione popolare, diffusa nell’Italia settentrionale e centrale, col suo rudimentale contrasto di ghiottoneria e schifo stercorario, e con la sua progressione paurosa. Da questo tipo semplicissimo  (e qui ho seguito una delle versioni che possono dirsi più ricche) si arriverà alla perfetta grazia di Cappuccetto Rosso»

La storia di base vede una bambina golosa di frittelle che viene mangiata dal lupo.

Scrive Elide Casali: «Nella versione in dialetto il ritmo narrativo è veloce, rapido, incalzante, sorretto da un fulmineo susseguirsi di immagini.»

Notiamo infatti che nella sua brevità presenta solo tre personaggi, la mamma, la bambina e il lupo, ed è invece piena di oggetti, la padella prestata dal lupo, le frittelle della mamma troppo buone, le “polpette” di somaro con cui la bambina sostituisce le frittelle da lei mangiate (per questo Calvino parla di schifo stercorario). 

Continua la Casali:

 

«Nella fiaba italiana Calvino introduce la mediazione del discorso indiretto che accompagna quello diretto, ricreando una scena rallentata, cadenzata, frazionata, per ottenere un effetto drammatico là dove intende sottolineare il sentimento di paura della bambina, tremolante «come una foglia», appena accennato nel testo romagnolo.»

Vediamo dunque il finale delle due versioni poste a confronto:

In dialetto:

«– Mama, mama, um ven a magné e lóv. 

– A so int la camra, adess at vegn a magné. 

A so di pi de let, a so da la testa, ham, ch’at  magn.

E e’ lóv us magné la babena».

 

La versione di Calvino recita:

 «– Mamma mamma, c’è il lupo! – Nasconditi sotto le coperte!

– Adesso ti mangio! Sono nel focolare!

La bambina si rincantucciò nel letto, tremando come una foglia.

– Adesso ti mangio! Sono nella stanza! La bambina trattenne il respiro.

Adesso ti mangio! Sono ai piedi del letto! Ahm, che ti mangio! – E se la mangiò.

 E così Zio Lupo mangia sempre le bambine golose[12]»

 

Ho messo in corsivo quelle che sono le vere e proprie aggiunte di Calvino. Sembra che lo scrittore, a partire dal canovaccio di base, si sia divertito a dare una patina letteraria alla breve e cruda narrazione favolistica, aggiungendo particolari, usando sapientemente i meccanismi della pausa, dell’attesa, della ripetizione, che probabilmente nel racconto orale sarebbero stati rappresentati dalla capacità del narratore/narratrice di modulare le due voci, e poi sospendere, sussurrare, gridare[13]. E’ come se Calvino avesse sceneggiato la fiaba: sappiamo che nel ‘77 un’altra impresa, che purtroppo stavolta non andò a buon fine, fu quella dell’ideazione, insieme a Toti Scialoja, di sei fiabe teatrali per la rete 2 della RAI. Oggi si possono leggere quelle fiabe nel volumetto Il teatro dei ventagli, dalla cui introduzione scopriamo che il lavoro tra i due fu condotto partendo da coppie di oggetti e da amate, germinanti «costrizioni.»

Ecco dunque che il percorso delle Fiabe italiane svela tutta la sua portata nella immensa produzione calviniana.

 

11 marzo 2024

 

 

Bibliografia

Carolina Coronedi Berti, Al segugio di ragazu, Favole bolognesi, Forni 1891

Delia Frigessi, (a cura di), Inchiesta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba, Lubrina ed, 1988 (Atti del Convegno dell’86 a S.Giovanni Valdarno)

Italo Calvino, Introduzione a Le fiabe italiane, Einaudi 1956

Italo. Calvino, Il midollo del leone, ora in Una pietra sopra, Mondadori 1995

Italo Calvino, I libri degli altri, Einaudi 1981

Italo Calvino, Il libro dei risvolti, a cura di L. Baravelli,C. Ferrero, Mondadori 2023

Italo Calvino, Il teatro dei ventagli, Mondadori 2023

Vanessa Roghi Un libro d’oro e d’argento, Sellerio 2024

Sonia Sabelli, Le fiabe italiane di Calvino tra oralità e scrittura, in «Linguistica e letteratura», Anno XXVI/1-2, 2001, pp. 143-93.

Si segnala la ricca rassegna “Alfabeto Calvino” che ha pubblicato in questi mesi la rivista online Doppiozero. Qui tutti i titoli https://www.doppiozero.com/speciali/alfabeto-calvino

 


[1] Un’ottima mappa di cui mi sono avvalsa è il volume a più voci a cura di Delia Frigessi Inchiesta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba, (Atti del Convegno dell’86 a S.Giovanni Valdarno), Lubrina ed, 1988.

[2][2]Tommaso Munari (a cura di) I verbali del mercoledì Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, Einaudi 2011.

[3] Riportato da Ernesto Ferrero, Rodari, Einaudi e i Lucumoni, «Doppiozero», 22 giugno 2020

[4] Per questa parte “storica” attingo al saggio di Luca Clerici in D. Frigessi, Inchiesta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba, cit.

[5] E’ Calvino stesso a ragguagliarci sulla genesi dell’opera nella sua ricca Introduzione alle Fiabe italiane, da cui traggo le citazioni.

[6] Introduzione, cit.

[7] Lo riporta Pino Boero in La nascita delle Fiabe Italiane, «Andersen», luglio/agosto 2023

[8] Italo Calvino, Definizioni di territori: il fantastico, in Una pietra sopra, Einaudi 1980

[9] Vanessa Roghi, Un libro d’oro e d’argento, Sellerio 2024 – E’ il suo libro più recente su Rodari, dopo Lezioni di fantastica, Laterza 2020

[10] Elide Casali, Calvino e la tradizione fiabistica dell’Emilia e della Romagna, in D. Frigessi, Inchiesta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba, cit

[11] Giuseppe Gaspari Bagli, Saggio di novelle e fiabe in dialetto romagnolo, 1887.

[12] Corsivo mio

[13] Sul passaggio da oralità a scrittura nella fiaba: Sonia Sabelli, Le fiabe italiane di Calvino tra oralità e scrittura, in «Linguistica e letteratura», Anno XXVI/1-2, 2001, pp. 143-93