Lucio Saviani - Il gioco delle origini e il principio di irrealtà

«Certamente nella storia dell’uomo vi furono tempi, che più del nostro, portarono il segno del gioco e furono più sereni, più liberi, meno seri, e che ancor più conobbero gli ozi e si affidarono alle celesti Muse, ma nessun tempo ebbe più possibilità oggettive e occasioni di gioco, perché mai dispose di una così gigantesca organizzazione di vita. Luoghi di ricreazione e campi di gioco vengono progettati nella costruzione delle città, gli usi sportivi dei paesi e delle nazioni vengono riuniti in un movimento internazionale, i giocattoli sono prodotti su scala industriale di massa. Rimane però una questione aperta, se il nostro tempo raggiunga una comprensione profonda dell’essenza del gioco, se disponga di una veduta d’insieme delle molteplici manifestazioni del gioco, se possieda uno sguardo adeguato sul senso - d’essere del fenomeno del gioco, se sappia filosoficamente che cosa è gioco e giocare. Con queste domande viene toccato il problema di un’ontologia del gioco». [1]

E. Fink, Oasi della gioia

 

Origini

 

1.

In principio fu il gioco. «La civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco».[2] Tutto ha inizio per gioco, si comincia perché c’è già un gioco da giocare. Insomma: «Il gioco è più antico della cultura».[3]Comincia così Homo ludens di Johan Huizinga. L’inizio di Homo ludens è un problema di definizione; la definizione del gioco, anzi, è il problema.
Huizinga lascia avanzare una sorta di definizione progressiva: «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco. (…) Gioco non è la vita ‘ordinaria’ o ‘vera’, è un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria, già il bambino sa perfettamente di ‘fare solo per finta’, di ‘fare solo per scherzo’».[4] Ancora: «Il gioco è qualche cosa di disinteressato, è un intermezzo della vita quotidiana, una ricreazione».  Un po’ più oltre: “il gioco si isola dalla vita ordinaria in luogo e durata; (…) il gioco comincia e ad un certo momento è finito».[5] Infine «Ogni gioco ha le sue regole. (…) Il giocatore che si oppone alle regole o vi si sottrae è un guastafeste. Il guastafeste è tutt’altra cosa che il baro: quest’ultimo finge di giocare il gioco».[6] Huizinga infine conclude:

«Considerato per la forma si può dunque, riassumendo, chiamare il gioco un’azione libera, conscia di non essere presa ‘sul serio’ e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge con ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali che facilmente si circondano di mistero o accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito».[7]

Segue gli stessi passi di Homo ludens il percorso di definizione che Roger Caillois traccia in I giochi e gli uomini:

«Per il momento, l’analisi precedente ci consente già di definire essenzialmente il gioco come un’attività: 1) libera: a cui il giocatore non può essere obbligato senza che il gioco perda subito la sua natura di divertimento attraente e gioioso; 2) separata: circoscritta entro precisi limiti di tempo e di spazio fissati in anticipo; 3) incerta: il cui svolgimento non può essere determinato né il risultato acquisito preliminarmente, una certa libertà nella necessità d’inventare essendo obbligatoriamente lasciata all’iniziativa del giocatore; 4) improduttiva: che non crea, cioè, né beni, né ricchezze, né alcun altro elemento nuovo; e, salvo uno spostamento di proprietà all’interno della cerchia dei giocatori, tale da riportare a una situazione identica a quella dell’inizio della partita; 5) regolata: sottoposta a convenzioni che sospendono le leggi ordinarie e instaurano momentaneamente una legislazione nuova che è la sola a contare; 6) fittizia: accompagnata dalla consapevolezza specifica di una diversa realtà o di una totale irrealtà nei confronti della vita normale».[8]

Inoltre, Caillois giudicherà la definizione elaborata da  Huizinga troppo ampia e, al tempo stesso, troppo limitata. Alla modalità della competizione (agon), introdotta da Huizinga, Caillois aggiunge infatti quelle dell’azzardo (alea), della maschera (mimicry) e della vertigine (ilynx); su questa quadruplice trama egli innesta infine i due motivi verticali della spontaneità individuale (paidia) e dell’organizzazione istituzionale (ludus).
Eppure, ad accomunare i due fondamentali studi di Caillois e di Huizinga, è che il loro lavoro di ‘definizione’ risulta faticoso, presenta dei cedimenti e, alla fine, si mostra fallimentare. La ragione di tale fallimento risiede nel fatto che, fin dall’inizio, il gioco sfugge ad ogni tentativo di  classificazione, mettendo in crisi proprio quelle opposizioni concettuali (libertà-necessità, utilità-gratuità, lavoro-ozio, realtà-finzione) mediante le quali si vorrebbe comprenderlo. Il gioco ha a che fare con la realtà vera o con una realtà illusoria? È utile o è gratuito, libero oppure vincolato, piacevole o perturbante?
Tutto questo porrà in chiaro fin dall’inizio Eugen Fink quando, in Oasi della gioia. Idee per una ontologia del gioco,  scriverà:

«Il gioco è un fenomeno per il quale difficilmente sono disponibili in modo univoco le categorie appropriate. La sua cangiante ambiguità interna si lascia forse rapidissimamente attaccare dai mezzi razionali di una dialettica che non livella i paradossi; (…) Fino a quando in questi ragionamenti si procede ancora ingenuamente con le antitesi correnti di ‘lavoro e gioco’, di ‘gioco e serietà della vita’ e così via, il gioco non è inteso nel contenuto e nella profondità del suo essere. Rimane nel contrasto d’ombre degli opposti fenomeni considerati, viene perciò oscurato e svisato. Vale come il non-serio, il non-impegnativo, il non-vero, come petulanza e ozio».[9]

2.

Viene lanciato in aria un pezzo di coccio, bianco da una parte e nero dall’altra. I giocatori sono divisi in due gruppi, ciascuno ha scelto il suo colore. Al momento del lancio gridano “Notte o giorno!”. A seconda del lato con cui, diritto o rovesciato, cadrà a terra il coccio, un gruppo fuggirà e l’altro inseguirà.
A questo gioco di fanciulli fa riferimento Platone, mentre parla di una particolare tenebra notturna e di un giorno ‘vero’, in un punto cruciale del VII libro della Repubblica. Socrate sta parlando con Glaucone di quelli che rappresentano il modo migliore di governare la città e della necessaria e importante formazione di tali persone: «- Vuoi dunque che ora esaminiamo il modo di formare tali persone e di condurle alla luce, come si dice che alcuni dall’Ade siano ascesi tra gli dèi? – Certo che lo voglio!, esclamò. - Questo però, a quanto sembra, non sarà come girare un coccio, ma comporterà una conversione dell’anima da un giorno di tenebra notturna a un giorno vero, ossia un’ascesa verso l’essere, che noi chiameremo la vera filosofia».La vera filosofia è dunque ascesa verso l’essere, conversione dell’anima «da un giorno di tenebra notturna a un giorno vero». Il rincorrersi del giorno e della notte, che è origine e ordine del mondo, è evocato da Platone mediante un veloce e poco ricordato riferimento a un gioco di ragazzi.
Rapido è anche un accenno, non sempre notato, che Platone fa nelle ultime pagine del Fedro, (274b-275c) mentre racconta di Theuth, il dio egizio inventore della scrittura e delle formule divine, dei numeri, dell’astronomia: e anche «del giuoco delle pietruzze e dei dadi». Il mito egizio narra di come Theuth sfidò Iside, la Luna, ad una partita a ‘senet’, un gioco simile agli scacchi, per uno scopo molto particolare. Geb, dio della Terra, e Nut, dea del Cielo, si amavano. Ma Atum, padre degli dei, si opponeva al loro amore in quanto il lungo abbraccio del Cielo e della Terra avrebbe impedito ad ogni cosa di crescere. Atum maledisse allora Nut: la dea non avrebbe potuto partorire, in qualsiasi giorno dell’anno. Theuth decise allora di aiutare Nut e sfidò la Luna a una partita del gioco chiamato Senet (‘porta’ o ‘passaggio’ dalla notte della morte al giorno della vita, giocato con pedine anch’esse, come il coccio ricordato da Platone, bianche  e nere). La Luna mise in palio una parte della sua luce e Theuth vinse sei volte. Il dio ottenne dunque luce per creare cinque giorni ‘diversi’, per i quali non aveva effetto la maledizione di Atum, e così consentì a Nut di mettere i suoi figli al mondo.
Di nuovo, dunque, l’ordine del giorno e della notte. Solo grazie a quest’ordine l’unione del cielo e della terra può dare origine al mondo.
Ma l’origine del mondo è resa possibile da Theuth grazie a un gioco. Il dio Theuth – scrive Derrida nella Farmacia di Platone«astuto, inafferrabile, mascherato, cospiratore, buffone, come Hermes, non è né un re né un servo; una specie di joker piuttosto, un significante disponibile, una carta neutra, che dà il gioco al gioco... ».[10]
Il giuoco delle pietruzze di cui Theuth è inventore rimanda al gioco che i Greci chiamarono petteia. Su un’anfora di Exekias (530-525 a.C.), conservata  nel museo etrusco-gregoriano del Vaticano,  sono raffigurati Achille ed Aiace seduti, mentre giocano muovendo delle pedine su una damiera. La parola petteia deriva da pessos che indica la pedina del gioco. Il termine pessoi, nel senso di pedine, fu usato per la prima volta da Omero nell’Odissea per descrivere i pretendenti di Penelope. Più tardi, per questo gioco si ricorse al termine polis, città. Il primo ad usare questa parola fu Euripide, ne Le supplici:  Teseo chiarisce a un tebano che nella democratica Atene tutti gli abitanti sono uguali, come le pedine (pessoi) del gioco polis

Non un gioco qualsiasi, dunque, ma proprio la Petteia – particolare che spesso viene trascurato – è il gioco che viene nominato nel celebre frammento 52 di Eraclito. Aion pais esti paizon, petteuon; paidos he basileie, «Il corso del mondo è un fanciullo che gioca spostando tessere, la regale signorìa di un fanciullo»: il fanciullo eracliteo ripetutamente ricrea il divenire e rinnova i casi del mondo. Un mondo senza fondamento, insensata innocenza del divenire, infondatezza del  corso del mondo e  delle vicende di uomini e dèi.

 

Il ‘gran Principio’

 

«Il destino dell’essere è un fanciullo che gioca, che gioca con le tessere di una scacchiera; di un fanciullo è il regno — e cioè l’arché, il fondare che istituisce e governa, l’essere dell’ente. Il destino dell’essere: un fanciullo che gioca. Vi sono, quindi, anche fanciulli grandi. Il fanciullo più grande, reso regale dalla delicatezza del suo gioco, è quel mistero del gioco in cui l’uomo, con il tempo della sua vita, è posto in gioco nella sua essenza. Perché il grande fanciullo scorto da Eraclito nell’aion gioca il gioco del mondo? Gioca poiché gioca. Il ‘poiché’ sprofonda nel gioco. Il gioco è senza ‘perché’. Il gioco gioca giocando. Esso rimane soltanto gioco: il più alto e il più profondo».[11]

Così Martin Heidegger termina la Tredicesima Lezione del Principio di ragione e con un simile concetto del gioco Hans Georg Gadamer conclude il suo Verità e metodo: «Ciò che in questa prospettiva si intende per verità si può ancora definire nel modo più adeguato attraverso il concetto di gioco. Giochi linguistici sono quelli in cui impariamo — e di imparare non cessiamo mai — a capire il mondo».[12]
Al fanciullo eracliteo ritorna più volte Friedrich Nietzsche, come ne La nascita della tragedia: «la forza plasmatrice del mondo viene paragonata da Eraclito l’oscuro a un fanciullo che giocando disponga pietre qua e là, innalzi mucchi di sabbia e di nuovo li disperda»,[13] o in La filosofia nell’età tragica dei Greci: « È l’impulso a giocare, risorgente sempre di nuovo, che suscita alla vita altri mondi. Talvolta, il fanciullo getta via il suo giocattolo, ma tosto lo riprende». «Trasformandosi in acqua e terra, egli costruisce come un fanciullo torri di sabbia vicino al mare, costruisce e distrugge; di tanto in tanto egli ricomincia daccapo il gioco»,[14] dove Nietzsche sembra piuttosto ricordare Eraclito attraverso una scena dell’Iliade (0,361).
Ancora alla regale signorìa del fanciullo di Eraclito ricorre Eugen Fink in Il gioco come simbolo del mondo:

«Eraclito ha usato più o meno casualmente il gioco umano come ‘metafora cosmica’ — avrebbe potuto servirsi altrettanto bene di un’altra similitudine? O forse il gioco dell’uomo, preso come fenomeno, rinvia implicitamente al tutto universale? Il gioco è essenzialmente determinato da una funzione rappresentativa. In effetti questo è il punto: ed è la ragione più profonda della similitudine cosmologica di Eraclito (...) Per capire il gioco dobbiamo conoscere il mondo e per capire il mondo come gioco dobbiamo acquisire un’intuizione del mondo molto più profonda». [15]

Sono i riti magici, i giochi più primitivi, i riti arcaici intesi come pratiche ludico-magiche a rappresentare per ‘primi’, secondo Fink, l’esistenza umana. Essi attingono alla realtà quotidiana e, al tempo stesso, alla sfera dell’immaginario: «Originariamente il gioco è la più forte potenza vincolante, è fondatore di comunità»: la comunità rituale, come comunità originaria di gioco, racchiude in sé tutte le relazioni, elevandole a dimensione magica e producendo «una rappresentazione dell’intera esistenza sul palcoscenico sacro di una festa le cui tavole in effetti significano il mondo».[16]
Esorcizzato o ‘dimenticato’ dalla metafisica, il pensiero del gioco innesca la sua carica esplosiva sotto i concetti fondamentali del pensiero filosofico, facendoli vacillare dalle basi, mettendo radicalmente in crisi le tesi del fondamento, della verità, del mondo, del soggetto, dell’apparenza e le classiche opposizioni concettuali di realtà e apparenza, soggetto e oggetto, utilità e gratuità, verità e finzione, senso e non senso, essere e nulla. A vacillare è soprattutto la ‘realtà’. Nel mondo del gioco realtà e irrealtà trapassano di continuo una nell’altra.

1.

«La critica più pesante, più grave che noi facciamo è quella di considerare la ‘realtà’, il ‘reale’ come un dato del problema, come un referente indiscusso, che va da sé, neutro, oggettivo e di definire il gioco in opposizione a, a partire da, in funzione della suddetta realtà (…) Il problema del gioco non è dunque legato al problema della ‘realtà’, a sua volta legato al problema della cultura. Si tratta di un unico problema. E per risolvere questo problema sarebbe falso metodologicamente vedere nel gioco una variante, un commento su, una interpretazione, una riproduzione di questa realtà».[17]
J. Ehrmann, L’uomo in gioco

La difficoltà che si incontra nel comprendere e definire l’aspetto ‘irreale’ del mondo del gioco è originata dalla mancanza di categorie opportune o dal loro vacillare quando esse stesse rivelano la profonda problematicità dei concetti di ‘reale’ e di ‘irreale’, soprattutto quando l’irrealtà è pensata immediatamente come riflesso di una realtà data come originaria.
Il gioco stesso, nel senso comune, è considerato in primo luogo come riflesso della vita ordinaria. Ma un fatto rilevante è che anche nella tradizione metafisica occidentale il gioco è stato essenzialmente compreso come semplice riflesso della realtà; si tratta di una interpretazione che va fatta risalire ad un ‘fatto’ originario, a un avvenimento decisivo del pensiero metafisico.
È nel pensiero di Platone che, con la distinzione tra una realtà originaria e una ri-produzione derivata, hanno inizio la diffidenza spesso violenta nei confronti dell’ambigua dimensione del gioco e  una interpretazione del gioco come mimesis della vita reale. Platone opera con i fenomeni dell’ombra, della ‘copia’ e del ‘riflesso’ nello specchio; fenomeni sensibili che servono come modello del pensiero operativo per la formazione del problema metafisico dell’essere.
L’avvenimento decisivo che ha segnato fin dall’inizio la metafisica del gioco, ossia del gioco come semplice riflesso, è la critica platonica ai poeti, ma in origine è il sistema di rimandi, gerarchico e valutativo, tra verità reali e copie riflesse istituito dalla metafisica platonica.
Oggi spesso si assiste a una banalizzazione del concetto di mimesis: quando si parla di imitazione si pensa, per lo più, alla pura ripetizione di qualche cosa data che si tratta, semplicemente, di copiare. Non fu così per i greci, a cominciare da Democrito, il quale parlò dell’imitazione non in termini di riproduzione della realtà, ma di un fare come.
Il filosofo si riferisce talvolta al modo in cui le rondini fanno il nido o a come i castori costruiscono le dighe e le loro case: se l’architetto dovesse imparare a fare una casa, da chi dovrebbe imparare? Che impari dalle rondini e dai castori. E tuttavia l’architetto dovrà fare non quello che fa la rondine o il castoro, ma come fanno la rondine e il castoro.
Aristotele, grande teorico dell’imitazione e dell’arte come imitazione, arriverà a sostenere che l’imitazione è il ‘ritmo delle cose’. Egli pensa l’imitazione in modo profondamente greco e cioè non come semplice riproduzione della realtà sulla base di una tecnica facilmente dominabile, quanto piuttosto come l’afferramento del ritmo che è interno ad una determinata attività. L’imitazione è l’afferramento di quel ‘poiéin’ che richiede anzitutto capacità di ascolto, di percepire ciò che si nasconde nelle cose stesse.
Chi sa davvero imitare, secondo Aristotele? I fanciulli. Essi imitano proprio perché, quando giocano e apparentemente fanno ciò che fanno gli adulti, in realtà non si limitano a riprodurre delle scene; piuttosto si lasciano ispirare dal ritmo delle cose, colgono quello che è il movimento interno alle cose. riescono a svelare il senso di questi modi ‘adulti’ di essere come se li cogliessero alla radice, appunto quel ritmo, che, nel momento in cui è imitato, non dà luogo a una riproduzione, a una ripetizione, ma a una nuova manifestazione della cosa stessa. In altri termini, ad una interpretazione.

2.

«No, la questione non è di ‘grattare’ l’immaginario per ‘raggiungere’ il reale. Essi sono inseparabili l’uno dall’altro e non si possono cogliere che in un unico movimento, quello dato nel linguaggio e dal linguaggio - più generalmente, nei segni e dai segni. Secondo questa tesi, chiamerò realtà questa globalità reale-immaginaria che io ritengo indivisibile. Realtà che non è, dunque, esterna al gioco, né lo limita all’inizio o alla fine del percorso, ma è presa all’interno del gioco stesso. In altre parole, è necessario che prima ci sia il gioco perché esista la realtà, e non viceversa».[18]
J. Ehrmann, L’uomo in gioco

Ogni giocare è una produzione magica di un mondo ludico. Il mondo del gioco comprende in sé i giocatori, le regole, i ruoli e i giocattoli. Nel mondo reale noi giochiamo, ma giocando otteniamo un ambito, un campo enigmatico che non è un niente e tuttavia niente di reale.
Il mondo del gioco, a rigore, non occupa un luogo o un tempo, ma ha al suo interno il suo spazio e il suo tempo. Eppure, giocando, noi consumiamo spazio e tempo reali. Il mondo del gioco non è sospeso in una dimensione immaginaria, ha sempre una scena reale, e tuttavia non è mai una cosa reale tra le cose reali. Ha però bisogno di cose reali, per avere in queste un sostegno e apparire.
Il gesto di chi gioca è ben riconoscibile nel mondo ‘reale’. Il giocatore stesso conserva un’identità riconoscibile dai suoi compagni di gioco, presenti anch’essi nella dimensione reale, o dagli eventuali spettatori. Eppure il giocatore, proprio mentre è alle prese con i suoi oggetti ‘magici’, ha già cominciato a scindersi in due soggetti.
Ci si trova di fronte ad un individuo reale che gioca e, al tempo stesso, ad un soggetto che ‘maschera’ se stesso, calandosi nel ruolo che riveste all’interno del gioco. L’enigmaticità di questo gesto consiste tuttavia nel fatto che, in questa sua doppia esistenza, il giocatore è ancora  in grado di distinguere ‘realtà’ e ‘apparenza’: paradossalmente, distingue se stesso da sé. Ma questa duplicità appartiene all’essenza stessa del gioco. E’ un gesto che in-lude chi osserva il gioco, il giocatore, la sua coscienza e le strane cose di cui si circonda.
Insomma, chi gioca vive in due dimensioni. Il tradizionale rapporto che lega, opponendoli, soggetto e oggetto, realtà e apparenza, illusione e verità, coscienza e immaginazione sembra perdere ogni forza e sostegno in questa particolarissima coscienza ludica. Scrive Fink in Oasi della gioia: «Visto per così dire dal di fuori, cioè considerato con gli occhi di chi non gioca, è ovviamente un pezzo parziale, una cosa del semplice mondo reale (...) Ma vista con gli occhi della bimba che gioca, la bambola è un bambino e la bimba è sua madre».[19]

Ciò che si manifesta nella natura magica del gesto ludico, nell’enigmatica ambiguità del giocattolo e della sua realtà è una paradossale apparenza oggettiva in cui trapassano elementi soggettivi e oggettivi, mettendo anzi in questione la stessa differenza tra ‘mondo’ soggettivo e ‘mondo’ oggettivo. E’ lo strano mondo in cui appaiono immagini che esistono oggettivamente.
Nell’enigmatica ‘irrealtà’ del mondo ludico si incrociano dunque permanenti transiti tra verità, immaginario e apparenza. Il mondo del gioco produce oggetti irreali impossibilitati a diventare cose di un “altro” mondo: il mondo che essi abitano rimane il mondo reale.
Il mondo ludico appare e il giocatore incontra, in questo ‘mondo’, oggetti e persone reali la cui identità rimane tuttavia incerta e ambigua: non sono entità fantastiche, né frutti dell’immaginazione soggettiva o apparenze ingannevoli ma, allo stesso tempo, non sono niente di reale.

Pubblicato il 04/04/2018



[1] E. Fink, Oasi della gioia. Idee per una ontologia del gioco, Salerno, 10/17, 1987, pp. 25-26.

[2] J. Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi, 1973, p. XXXI.

[3] Ibid., p. 3.

[4] Ibid,, pp. 10-11.

[5] Ibid,, p. 13.

[6] Ibid,, p. 15.

[7] Ibid,, p. 17.

[8] R. Caillois, I giochi e gli uomini, Milano, Bompiani, 1981, p. 26.

[9] E. Fink, Oasi della gioia. Idee per una ontologia del gioco, Salerno, 10/17, pp. 48-50 e 30.

[10] J. Derrida, La farmacia di Platone,  Milano, Jaca Book, 1985, p. 75.

[11] M. Heidegger, Il principio di ragione, Milano, Adelphi, 1991, p. 192.

[12] H. G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983, p. 558

[13] F. Nietzsche, La nascita della tragedia,  Milano, Adelphi, 1977, p. 160.

[14] F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci (7), in Opere complete, Milano, Adelphi,  vol. III, t. II.

[15] E. Fink, Il gioco come simbolo del mondo, Roma, Lerici, 1969,  pp. 28-29 e 72.

[16] E. Fink, Oasi della gioia, cit, p. 51.

[17] J. Ehrmann, L’uomo in gioco, in J. Ehrmann et al., Il gioco nella cultura moderna, Roma, Lerici, 1979, p. 7 e ss.

[18] Ibid.

[19] E. Fink, Oasi della gioia, cit, p. 45.