Ricordare Alberto Manzi nel centenario della sua nascita attraverso una lezione-laboratorio sui diritti dei bambini
Premessa
Il 20 novembre di 34 anni fa fu approvata, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la Convenzione sui diritti dell’infanzia, che rappresenta lo strumento normativo internazionale più importante e completo per promuovere e tutelare i diritti dei bambini.
Mercoledì 22 novembre 2023 è stata realizzata a Bologna un’edizione speciale di Frangimondi[1] dedicata alle scuole: una grande classe diffusa sul territorio e riunita online ha proposto e disegnato nuovi e vecchi diritti con le parole dei bambini e delle bambine. L’obiettivo è stato creare una grande classe, estesa in tutte le Regioni, collegata tramite piattaforma digitale al “Centro Alberto Manzi” e alla Garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (presso l’Assemblea legislativa della Regione Emilia Romagna) per far vivere la Convenzione, raccogliendo i diritti che bambini e bambine hanno messo a punto con i loro insegnanti. Presso la sala del Centro Alberto Manzi, in diretta, una parte dei diritti presentati è stata disegnata dall’illustratore Nicola Giorgio, citando Non è mai troppo tardi e i disegni che Alberto Manzi realizzava per tenere alta l’attenzione e facilitare la comprensione di chi lo seguiva. Claudia Giudici (Garante) e Alessandra Falconi (Centro Alberto Manzi) hanno accompagnato bambini e bambine al racconto e alla condivisione. Le classi collegate hanno disegnato il loro diritto e contemporaneamente hanno disegnato insieme.
Insieme ai bambini della mia classe (la 1°B del plesso G. Rodari, Circolo Didattico 6, Rimini) abbiamo ragionato e parlato, abbiamo riflettuto sulla parola DIRITTO e su quali fossero i diritti più importanti per la loro vita quotidiana. Siamo partiti utilizzando un piccolo libro che mi è stato regalato diversi anni fa dalla scrittrice Susanna Mattiangeli: Dieci cose che devo fare, illustrato da Lorenzo Terranera, dove si parla di diritti e doveri (intesi come assunzioni di responsabilità) con un messaggio che va dritto alla vita quotidiana di ciascuno, quindi costantemente legato ai concetti di cura e di bisogno, ma anche alla possibilità di creare una relazione importante con noi stessi e con gli altri. Nella prefazione Susanna Mattiangeli scrive:
La situazione dell’infanzia non è quella di una minoranza, né di una categoria, né di un gruppo. È una condizione nella quale l’uomo si trova e durante la quale non è strutturalmente in grado di formulare richieste con le modalità intellettuali proprie del mondo adulto. Dare voce all’infanzia è un’attività che implica un grosso lavoro di osservazione, di studio.[2]
Mentre riporto le sue parole mi rendo conto che anche per noi è stato così. Durante il processo di dialogo, discussione, scambio, i diritti individuali di ciascuno andavano a contrapporsi a quelli collettivi. Bisognava trovare il punto esatto di intersezione, di integrazione. Ogni proposta doveva essere accolta e ascoltata e in qualche caso anche guidata, interpretata. Ma è solo grazie al successivo lavoro di recupero di tutto ciò che i bambini avevano tirato fuori (frasi annotate su piccoli bigliettini scritti al momento), che è venuto fuori il nostro denominatore comune: l’aiuto. Non a caso, trattandosi di una classe prima in cui ciascun bambino si è ritrovato a dover utilizzare da solo (e forse per la prima volta) un grande quaderno, un astuccio a tre piani, uno zaino spropositato, sapere di poter contare su qualcuno non è poca cosa. Rassicura, nonostante tutti gli inciampi, le interferenze e i fraintendimenti dei primi tempi.
Uno tra tutti: quello di mettersi lo zaino in spalla subito dopo la merenda e di voler tornare a casa. Per non parlare dei tempi, dei ritmi, degli orari da seguire. E di questa nuova persona, che sta in classe e si chiama maestra, tutta da conoscere, da capire, e volendo da accettare.
La questione dei biglietti con le frasi dei bambini è un rimando alla scrittura collettiva di Don Milani, la cui procedura viene raccontata nel dettaglio nel bellissimo libro L’arte dello scrivere,[3] una corrispondenza tra il Priore di Barbiana e il maestro Mario Lodi, di cui mi nutro mentalmente quando mi trovo davanti a situazioni come quella che ho appena descritto:
Esiste oggettivamente una soluzione che è migliore delle altre. In questa fase si possono studiare insieme tutti i problemi dell’arte dello scrivere: completare e semplificare, finire di cercare quel che ancora non si è detto, cercare di dire col minimo di mezzi. Cercare di indovinare la reazione del lettore, eliminare le ripetizioni, le cacofonie, gli attributi e le relative non restrittive, i periodi troppo lunghi, ridomandarsi all’infinito se un dato concetto è vero, se è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi. A questo punto ci è venuto fatto di cercare di eliminare anche le frasi che suonavano troppo vanitose. Ma ci siamo imposti di non farlo. L’arte dello scrivere consiste nel riuscire ad esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci i migliori di noi stessi. Del resto l’orgoglio di questi ragazzi l’ho coltivato io volutamente per anni.
Barbiana, 2 novembre 1963
Questo per dire che alla fine eravamo tutti d’accordo sul fatto che il nostro diritto, in prima classe, fosse proprio quello all’aiuto: dato e ricevuto.
Così lo abbiamo scritto e lo abbiamo spedito al Centro Alberto Manzi, per poi scoprire che ora è parte di un libro intitolato: Dichiarazione dei diritti a modo nostro[4] il quale ci è stato recapitato a scuola assieme a una biografia del maestro Manzi e a dei taccuini illustrati. Il materiale su Manzi è stato donato alla Biblioteca della scuola, i mini-taccuini li hanno ricevuti i bambini e noi maestri abbiamo rinnovato la consapevolezza che anche un piccolo aiuto può cambiare la vita di un bambino nel suo stare a scuola ogni giorno.
Una legge non ha nessun senso se non è l’espressione di una esigenza morale chiaramente individuata ed espressa. Spesso sono vuote dichiarazioni di principi che nessuno rispetterà. O ci si illude di rispettarli solo perché se ne parla, si fanno dichiarazioni, manifesti, e si tengono lezioni nelle varie scuole. Ma se non c’è questa esigenza morale, se non c’è vero rispetto del bambino, l’enunciazione dei vari diritti e dell’infanzia e dell’uomo rimangono vuote parole.[5]
Il Laboratorio
A scuola conclusa ho voluto raccontare questa esperienza ai colleghi durante un incontro inserito all’interno di una piccola rassegna chiamata “Caffè Pedagogico”.
Ho preparato l’ambiente affinché la lezione avesse carattere prettamente laboratoriale: ho allestito l’aula che ci avrebbe ospitato con una piccola mostra dei “Diritti a modo nostro” scritti dai bambini, che ho appeso alle pareti e alle librerie.
Gli insegnanti, dopo i saluti iniziali e una introduzione sulla figura di Alberto Manzi, potevano muoversi liberamente all’interno della stanza e leggere ciò che i bambini avevano da dire sul tema dei diritti. C’era poi una parete “biografica” con foto e informazioni sulle varie attività del maestro, in cui veniva raccontata non solo la sua esperienza in Rai, ma anche il lavoro con i detenuti e la sua attività in Sud America all’interno di progetti di alfabetizzazione per i contadini delle Ande.[6]
Manzi non è stato solo il maestro della televisione, anzi. Prima di approdare in Rai ha avuto modo di avvicinarsi alle zone più complicate dell’educazione. A soli 22 anni fu chiamato a lavorare nel carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma. Qui conobbe i suoi 94 allievi che, all’inizio, gli proposero di mettersi semplicemente a fumare in fondo all’aula, in modo da lasciare loro quattro ore di libertà. Era la fine degli anni ‘40, nella scuola carceraria non potevano esserci né matite, né quaderni. Così il Maestro Manzi, che di fumare per quattro ore non aveva nessuna intenzione, dovette inventarsi qualcosa che potesse attirare l’attenzione dei detenuti. E fu proprio grazie ai tanti rifiuti di ascolto e collaborazione che a un certo punto pensò alla storia di Grogh,[7] un castoro che aveva qualcosa in comune con il carcere. Fu così che riuscì a coinvolgere i ragazzi e a scrivere con loro quel libro che nel 1948 vinse il Premio Collodi e fu tradotto successivamente in 28 lingue.
A questo proposito, per il centenario, ne è stata prodotta una bellissima animazione a cura di Gianni Zauli: https://www.youtube.com/watch?v=YFjycWJt5is
Manzi partecipò a molti progetti, anche radiofonici, sulla scia di Non è mai troppo tardi, fino ad arrivare in Argentina e poi in Sudamerica, dove fu mandato, grazie una borsa di studio, a studiare una tipologia di formiche della foresta amazzonica. Ma la sua attenzione non fu catturata solo dalle formiche, si accorse presto di ciò che capitava ai contadini delle Ande i quali non potevano iscriversi ai sindacati visto che non sapevano né leggere né scrivere. Nessuno glielo insegnava perché era proibito. Così se ne occupò lui stesso continuando a tornare in Sudamerica ogni estate per i successivi vent’anni.
Al termine della visita gli insegnanti erano invitati a scrivere o a disegnare il proprio diritto da attaccare su una grande lavagna condivisa. I due tavoli di lavoro erano organizzati con fogli, colori, penne e matite. Ci si poteva sedere oppure rimanere in piedi. Il diritto poteva essere individuale o collettivo. Qualcuno era timoroso di esprimere un suo desiderio o un bisogno per il quale non si era sentito rispettato. Come sempre, però, il gruppo regala la possibilità di fare un passo che da soli sarebbe difficile compiere. Quindi anche i più restii ad aprirsi hanno poi voluto scrivere messaggi molto intimi e molto personali:
Salta all’occhio come i desideri/diritti degli adulti non si discostino così tanto da quelli espressi dai bambini. In ciascuno troviamo un’intensità e una verità autentiche che si traducono per lo più nel bisogno di essere visti e ascoltati. Un lifelong learning da tenere sempre al centro in ogni percorso educativo. Al termine del laboratorio ho voluto presentare la prima puntata di un programma Rai tutto dedicato al maestro Alberto Manzi, ancora oggi disponibile sulla piattaforma Raiplay[8], in cui abbiamo potuto osservare il suo lavoro con i bambini e le sue proposte declinate nei diversi ambiti disciplinari.
Riflessioni finali
Il percorso lavorativo di Alberto Manzi (1924 –1997) lungo l’intero arco della sua vita non fu semplice, né lineare. Le sue posizioni, le sue posture di fronte a certe etichette e a certi automatismi presenti nell’istituzione scolastica gli procurarono ben otto richiami sotto il Consiglio di Disciplina.
La prima volta perché non davo i voti ai ragazzi sulle pagelle. Gli ispettori centrali del Ministero mi accusarono di omissione di atti di ufficio e io chiesi se il mio lavoro era di aiutare il bambino o di aiutare lo Stato a fare gli atti d’ufficio. Mi risposero che dovevo fare l’uno e l’altro, ma io parto dal principio che aiuto lo Stato aiutando il bambino.[9]
L’ultima volta andò male: nel 1981 si rifiutò di redigere le “schede di valutazione”, appena introdotte dalla riforma della scuola in sostituzione della pagella. La spiegazione fu semplice:
Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest’anno, l’abbiamo bollato per i prossimi anni.»
Qui si riferiva in particolare ad alcuni ragazzi “difficili” presenti nella sua classe, sostenendo che il loro percorso non poteva essere riassunto con una valutazione “del momento”. Il Ministero della Pubblica Istruzione non apprezzò il suo ragionamento e lo sospese dall’insegnamento (quindi anche dallo stipendio). Per reintegrarlo, l’anno dopo, cercarono di convincerlo a compilare le valutazioni. Il maestro, pur non avendo cambiato idea, si mostrò favorevole a scrivere una valutazione riepilogativa. Il giudizio, uguale per tutti e posto con un timbro, diceva: «Fa quel che può, quel che non può non fa.» Dopo che il Ministero espresse il suo disaccordo nei confronti della sua scelta rispose: «Non c’è problema, posso scriverlo anche a penna.»
«Poi cosa è successo?» chiede Roberto Farnè nel capitolo: “Un giorno a Pitigliano, l’ultima intervista ad Alberto Manzi” del suo libro Alberto Manzi l’avventura di un maestro.[10] Manzi risponde:
Che le schede di valutazione sono cambiate e ancora oggi stanno cambiando, perché ci si accorge che questo sistema non funziona e non si è ancora trovata la soluzione al problema di come valutare nella scuola. Nella mia lettera al ministro io spiegavo per quale motivo non volevo valutare alla fine dell’anno: perché la valutazione è sempre legata a una situazione particolare dell’alunno, a come egli è in quel momento. Il giorno dopo potrei fare una valutazione diversa […] Bisognerebbe mettersi d’accordo sul linguaggio e sulle definizioni che si danno, perché quando io scrivo un certo giudizio colui che lo leggerà non è detto che gli dia lo stesso significato che intendevo io.
Queste le sue parole e il suo pensiero nel giugno 1997, anno della sua scomparsa. Parole che io ritengo importantissime perché continuano a far pensare, a interrogare, e soprattutto a mettere al centro i ragazzi, la discussione su di loro e la discussione su di noi. Per questo, a distanza di anni, la tenacia presente nella sua proposta educativa e didattica resta ancora come traccia fondamentale nel nostro panorama pedagogico. Ancora oggi si riesce a cogliere con forza la sua profonda testimonianza civile, l’impegno etico e il contagioso amore per la sua professione.
C’è poi un ulteriore aspetto molto interessante, il fatto che Manzi non aderì mai a nessun metodo, a nessun gruppo, a nessun movimento in particolare, ma continuò a sperimentare le sue idee utilizzando diversi tipi di metodologie nei vari ambiti in cui si trovava ad agire. Questo da una parte, forse, lo fece sentire solo (un cane sciolto, come lo definì una volta un ministro) dall’altra, credo, gli permise di essere realmente libero, coerente con sé stesso, realmente rispettoso dei suoi bambini e dei suoi ragazzi. E forse gli fece anche dimenticare di essere quel maestro che in Italia, tra il 1960 e il 1968, era riuscito ad alfabetizzare circa un milione di persone.[11]
[1] Vedi il sito https://www.frangimondi.it/; è un progetto del Centro Alberto Manzi, via Aldo Moro 50, Bologna, centromanzi@regione.emiliaromagna.it
[2] Susanna Mattiangeli, Dieci cose che devo fare, illustrazioni di Lorenzo Terranera, pubblicazioni@unicef.it, ristampa Arti Grafiche Agostini, 2014.
[3] L’arte dello scrivere. Incontro tra Mario Lodi e don Lorenzo Milani, a cura di Cosetta Lodi e Francesco Tonucci, Casa delle Arti e del Gioco Editore, 2017
[4] Per scaricare la pubblicazione: https://www.centroalbertomanzi.it/wp-content/uploads/2024/03/CentroAlbertoManzi-diritti-a-modo-nostro-2023-doppiepagine.pdf
[5] https://www.centroalbertomanzi.it/non-e-mai-troppo-tardi-per-un-diritto/
[6]Si veda https://www.centroalbertomanzi.it/ e in particolare https://www.centroalbertomanzi.it/lesperienza-in-sudamerica/
[7] Alberto Manzi, Grogh, storia di un castoro, Rizzoli, Milano, 2011
[8] https://www.raiplay.it/programmi/albertomanzilattualitadiunmaestro
[9] Roberto Farnè, Alberto Manzi l’avventura di un maestro, Bononia University Press, Bologna 2024 (seconda edizione ampliata)
[10] ibidem
[11] Sulla trasmissione Non è mai troppo tardi: https://www.teche.rai.it/2022/12/non-e-mai-troppo-tardi/
30 settembre 2024