Giorgia Delsoldato - La Storia e Il Vangelo secondo Gesù Cristo

Letture contro la guerra

 

La nostra sollecita impotente e pur vigile attenzione va dal 7 ottobre al fronte di guerra tra Israele e Hamas, allo sterminio dei civili in Palestina, al dolore dei parenti degli ostaggi.

È da allora, quindi, più difficile o episodico mandare la mente un po’ più indietro nel tempo, a quando, in prossimità della vigilia dell’equinozio di primavera e della giornata mondiale della felicità, ci era giunta notizia dell’incriminazione di Putin da parte del Tribunale internazionale dell’Aia (CPI), con un mandato di cattura immediatamente esecutivo nei 123 Paesi che riconoscono la CPI,  per la deportazione in Russia di almeno 600 bambini ucraini (ma con il sospetto che fossero più di 6000), sottratti alle loro famiglie e deportati in orfanotrofi in attesa di essere adottati da famiglie russe. I decreti attuativi delle pratiche portavano la firma di Putin. In Ucraina (e le mie studentesse profughe confermavano questa cifra) si parlava già di 16000 bambini deportati.

Ci aveva colpito e ci aveva ferito, come una macabra, maledetta, e in qualche modo attesa celebrazione del superamento del primo anno di una guerra, che, anche due anni dopo, continua.

Dal 7 ottobre in Palestina sono morti, secondo quanto pubblicato sul sito di Save the Children Italia il 25 gennaio 2024, almeno 11.500 bambini.

Il bisogno di capire lo spirito del tempo in cui siamo immersi e, spesso, sommersi, ci induce a ricercare giorno per giorno, talvolta anche dentro ai pochi minuti di cui disponiamo nell’economia a perdere delle nostre giornate trascorse nella ruota della produttività.

Un approdo o, se si vuole, un’esperienza intensa e persino spirituale si può vivere leggendo La Storia di Elsa Morante e Il Vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago.[1] Ci si trova di fronte a due opere di evangelizzazione laica, a due parabole, strenue, di umanità. L’una pubblicata nel 1974, l’altra nel 1991, entrambe “scandalose”, piene di coraggio.

Incontriamo nelle pagine di queste opere una grande scrittrice italiana e lo scrittore portoghese Premio Nobel nel 1998, nato nel 1922, dieci anni dopo la Morante. Lei comincia a maturare l’idea de La Storia tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971 come un’Iliade dei giorni nostri, in seguito alla lettura dei greci ritrovati tra le pagine dei quaderni di Simone Weil, come ricordato in appendice all’edizione einaudiana del 2014, con l’introduzione di Cesare Garboli, dove si rievoca anche il contrasto tra l’immenso successo popolare e il feroce attacco dell’establishment che salutò la prima uscita del romanzo, voluta dalla Morante in edizione economica.

Saramago pubblica il suo Vangelo nel 1991, qui letto nell’edizione einaudiana del 2002 e nella traduzione di Rita Desti, e la Chiesa portoghese lo taccia di blasfemia. Il Paese disconosce il suo più grande scrittore vivente e lui si autoesilia a Lanzarote.

Ne La Storia, la guerra viene narrata, attraversata, patita e vissuta nella casa e nei giorni di una piccola famiglia romana, con i gesti in mano e le parole in bocca a una donna, ai suoi due figli e ai loro due cani; con gli eventi storici assoluti che si piegano sopra i materassi e dentro le finestre di questa esemplare universale materia umana che chiamano povera gente.

Eravamo già educati ad entrare dentro le porte degli umili, impegnati a vivere nelle sacche di vita armate e disarmate dalla Provvidenza, tra vinti, sopravvissuti e salvati, dentro ad un disegno divino oscuro ma presente, crudele ma perfetto. Vite di umili affrancate dalle allegorie il cui significato era loro precluso, ma che essi incarnavano iconicamente e filologicamente, oltre che storicamente, per altri da loro.

La Morante ferma la Storia su una matrice operosa e scandalosa, e come se fosse un alveare, ne apre una celletta con i suoi abitanti e li osserva, li segue passo passo.

I personaggi appartengono agli ‘ultimi’, sono anzi figure archetipiche di ultimi, cui si riconosce una dignità alta solo alla fine, per aver portato la croce fino in fondo, per essere diventati, in extremis e quasi per caso, martiri tragici alla pari di altri martiri tragici meno derelitti. In loro si compie, e loro stessi compiono, il destino cristiano della salvezza eterna attraverso una sofferenza umana accanita e bestiale, senza attracco né pentimento, senza sponde. Sono pronti subito, fin dall’inizio, per il giudizio universale, per non essere capaci di essere diversi da come si è nati.

Il Gesù Cristo di Saramago non è così lontano da questi esseri viventi umili e altamente tragici. Anch’egli incarna, nel senso letterale del termine, la purezza dei bambini, che i personaggi morantiani mantengono anche da adulti, anche quando sono spogliati di tutto o quasi e, insieme, vengono caricati a tradimento e a sproposito dei pesi massimi della Storia.

Anche con Saramago entriamo nelle case degli ultimi: nelle capanne di mattoni e argilla della Galilea e parliamo e ci mescoliamo con le lodi al Signore e con i patimenti delle famiglie di falegnami e pastori del popolo eletto; ci ritroviamo ad impastare come con la creta le identità estremamente simili e tragicamente differenti degli abitanti di un’altra Terra oppressa da un dominatore straniero e da uno interno, a colpi di ferocia e violenza, dove il Signore, che pure è sulle bocche di tutti - nelle orazioni ripetute e ripetitive che scandiscono le azioni elementari, sempre uguali - non riesce a scorgere tuttavia le cose troppo umane: come un marito e una moglie che si uniscono nel compimento del dovere coniugale, che è anche un bisogno del corpo, che il Signore, pur essendo Lui il creatore della materia e di quel bisogno, non può riconoscere, proprio perché privo di un corpo.

Ne La Storia non si persegue l’architettura di un disegno sovrumano, ma ci sono solo questi personaggi sparuti, trascurabili, ininfluenti, privi, quasi sempre, di una qualsiasi volontà di una vita differente, che non conoscono, ma che sanno cos’è la guerra sulla pelle della città e, quando avviene loro di compierli, nei loro destini.

È questa umanità la materia che, dall’inizio alla fine, sconta la guerra, senza appartenerle, come fosse la vita: così come sconta la vita, senza farne una guerra, senza, forse, poterne cogliere la consustanzialità e la differenza.

Così come, può capitare, che in certe circostanze particolari non si comprenda con chiarezza la differenza tra uno stupro e un atto d’amore.

La guerra è uno stupro di massa, tra nazioni, quando non è dentro la stessa casa; l’atto di vita che cambia quella di Ida è uno stupro di guerra, di un giorno di gennaio 1941, che lei non identifica sul momento con una violenza e un dolore e che mai odierà, pur provandone nei giorni a seguire vergogna. Annichilita dal terrore che si era marchiato in lei per essere ebrea per linea materna, ancorché battezzata cattolica, al presentarsi del giovane soldato tedesco, ubriaco gesticolante, errante per il quartiere di San Lorenzo, la propria antica malattia l’aveva fatta cadere in uno stato di trance. Gli occhi azzurri di Gunther, di cui resterà sconosciuto il cognome, le erano restati impressi come un richiamo ipnotico tra stupore e paura, e amore senza domande per quel figlio solo suo che le toccherà in sorte. La seconda volta, avvenuta dopo il risveglio della recluta, lei ritornata in sé, si era ritrovata in un abbraccio umano, quasi mite, il soldato baciante e accarezzante, l’aveva chiamata ‘carina’. Congedandosi, le aveva lasciato in dote di un addio, che venne fuori quasi romanzato, il coltelluccio a serramanico, unico suo prezioso possedimento e unico segno di distinzione dagli altri soldati, prendendosi in cambio la corolla di un fiore dismesso in un vaso abbandonato su una mensola e deponendolo con serietà in mezzo a delle carte nel suo portafogli, mentre declamava “Mein ganzes Leben lang!” (“Per tutta la vita!”). Senza sapere che di lì a tre giorni sarebbe finito tra i morti di guerra.

Scrive la canadese premio Nobel Alice Munro in Nettles (Ortiche): «Future absence I accepted – it was just that I had no idea, till Mike disappeared, of what absence could be like. How all my own territory would be altered, as if a landslide had gone through it and skimmed off all meaning except loss of Mike» (p. 37). L’assenza di quegli occhi azzurri si posa su quelli del piccolo Useppe, senza di fatto alterare la sostanza dell’assenza in cui si svolge, declina, la vita di Ida. L’assenza di orizzonte, l’assenza di possibilità. L’assenza, anche, di speranza, se non quella onesta, o schietta, che ti porta da un momento a quello successivo, come una corda tesa tra un grumo di vita e quello che aspetta di essere vissuto, passato, perduto.

La Storia ha dei protagonisti e degli aiutanti che si mescolano nella varietà della condizione di esseri viventi: le donne e i ragazzi, e i bambini, le bestie, qualche uomo, le strade di Roma, il destino di Roma, la guerra. Solo i vegetali non hanno la parola, come non ce l’hanno i soldati. Perché il romanzo è un romanzo urbano e perché i soldati sono parte del paesaggio fisico e sonoro, come la guerra, la miseria, le bombe, un tutt’uno, una scenografia necessaria, imprescindibile, e intoccabile, da cui spuntano solo degli occhi azzurri. 

Anche in Galilea c’è la guerra, essendo in atto la ribellione contro i Romani, che tartassano il popolo di Israele; capeggiata da Giuda il Galileo e fatta di fionde,  bastoni, clavette, qualche arco con le frecce e anche un certo numero di spade e lance sottratte ai nemici. Sparivano di tanto in tanto alcuni uomini, soprattutto giovani, lasciavano le famiglie per unirsi alla guerriglia. Sulla via per Sefforis dove si recava a cercare Anania, il suo vicino ferito, pur consigliato da un uomo in fuga di desistere dal suo intento se voleva salva la vita, Giuseppe stava immobile in mezzo alla via, alle prese con i suoi pensieri, a chiedersi se veramente fosse amico di se stesso o se invece, visto che di motivi ne aveva, si detestasse o si disprezzasse. Dopo aver riflettuto, concluse che non si trattava né dell’una né dell’altra cosa; in fondo si guardava con un sentimento di indifferenza, come si guarda il vuoto, nel vuoto non esiste né vicino né lontano sui cui posare lo sguardo, mica è possibile fissare un’assenza. (p. 136.) Giuseppe muore crocifisso a Sefforis per mano dei Romani. L’ultimo in una lunga fila di ribelli, innocente, ma morente di una terribile colpa commessa per amore.

Nino, il figlio legittimo di Ida, generazione del ’26, fa in tempo a crescere fascista, a godersi quel poco la vita, a essere libero, a salire in montagna e poi a morire.

Il suo fratellino illegittimo, Useppe, resta per sempre bambino, piccolo e gracile, ne resta piccolo anche il vocabolario, ma gli cresce la coscienza e sa di non essere come gli altri, di avere un male innominabile da tenere nascosto, come Ida aveva nascosto lui alla luce e al mondo, chiuso dietro ad una finestra, per anni vissuti nel terrore che un fascista potesse portaglielo via: bambino illegittimo figlio di figlia di ebrea.

Ne La Storia si muovono Nino e Ida e si muoverà anche Useppe a tempo debito, sempre accompagnato dalla pastora Bella, sua compagna delle scorribande della primavera-tramonto del ’47, nel quartiere Testaccio e sulle radure lungo il Tevere.

Anche Saramago va a guardare da vicino soprattutto l’infanzia e la giovinezza e ad essa torna e su di essa indugia, prima i vent’anni di Giuseppe e poi, dalla nascita di Gesù alla sua adolescenza: «Un giorno, come ognuno di noi, finirà per apprendere altre voci, grazie alle quali saprà esprimere altre fami e provare altre lacrime» (p. 80).

Giuseppe era colpevole di non aver cercato di salvare i bambini di Betlemme, 25 bambini maschi al di sotto dei tre anni mandati a morire da un delirante Erode, per fermare la sognata rivelazione del profeta Michea giunta a compimento: «E tu, Betlemme, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi è uscito colui che dovrà essere il dominatore in Israele». Ascoltati, per caso, alcuni soldati di Erode parlare dell’ordine terribile da eseguire quella stessa sera, Giuseppe era fuggito da Gerusalemme e aveva raggiunto Maria nella grotta, decidendo di restare nascosti fino all’indomani, pensando che se nessuno li avesse denunciati, i soldati non avrebbero cercato altri bambini nelle grotte. Giuseppe muore per errore sulla croce in mezzo ai ribelli, provando quasi un sollievo, per questa colpa che si porta nel cuore e che gli ha divorato il sonno, a causa di un sogno spaventoso e ricorrente che gli dice di aver contribuito a causare quelle morti innocenti.

Ida è la madre e insieme l’architrave della Storia, la figura che cammina lungo tutta la guerra a perdifiato e si avventura piena di angoscia per procacciare il cibo, ogni giorno, per recarsi al lavoro; sta attenta ai segnali, li avvista nel bene e nel male, freme ad ogni piccolo spostamento, corre da Useppe, lo protegge con tutte le sue forze e il suo coraggio, sta ancora più lontana dal mondo, già impenetrabile nel suo dispiegarsi. La sua è un’attitudine animale e istintiva a leggere i segnali del pericolo:

 

Precognizione, invero, non è la parola più adatta, perché la conoscenza ne era esclusa. Piuttosto, la stranezza di quegli occhi ricordava l’idiozia misteriosa degli animali, i quali, non con la mente, ma con un senso dei loro corpi vulnerabili «sanno» il passato e il futuro di ogni destino. Chiamerei quel senso - che in loro è comune, e confuso negli altri sensi corporei – il senso del sacro: intendendosi, da loro, per sacro il potere universale che può mangiarli e annientarli per la loro colpa di essere nati.

 

Eppure Ida è stata maestra elementare per quasi 25 anni, figlia di due maestri elementari che insegnavano nella stessa scuola di Cosenza. Il padre Giuseppe, buono, ateo, bevitore, figlio di contadini calabresi, leggermente zoppo per un incidente domestico e perciò educato dai preti per essere avviato al mestiere del maestro. Nascostamente di ideali anarchici non esternabili se non tra le mura di casa, nei momenti di svago, che erano il cruccio e il timore della moglie Nora, l’ebrea padovana di famiglia bottegaia, che a trent’anni aveva vinto un concorso magistrale a Cosenza.

Alfio Mancuso, il marito di Ida - che l’ha lascia vedova con Ninuzzo da tirare su e che era stato sempre tenuto all’oscuro delle origini ebree della moglie - era un messinese che di mestiere faceva il rappresentante presso una ditta di Roma, meta del loro viaggio di nozze, servito anche a raggiungere l’alloggio preparato da Alfio per sé e la moglie nel quartiere di San Lorenzo, appena pochi anni prima dell’instaurarsi della dittatura («Di lì a due o tre anni, con l’abolizione della libertà di stampa, di opposizione e del diritto di sciopero, l’istituzione dei Tribunali speciali, il ritorno della pena di morte, ecc. ecc. il fascismo era diventato una dittatura definitiva», p. 39).

Quasi duemila anni prima delle vicende narrate ne La Storia, in maniera non dissimile, anzi, continuativa, tradizionale, si direbbe, le donne sono relegate alle retrovie, non sono autorizzate a fare domande al proprio marito, non sono degne di mangiare alla sua tavola, sono ammesse alla Sinagoga solo dalla porta laterale. Come leggiamo nel Vangelo di Saramago:

 

Così Maria in disparte veniva a sapere quello che non poteva domandare, è un vecchio metodo femminile, perfezionato con secoli e millenni di pratica, quando non le autorizzano ad apprendere in proprio, loro si mettono lì ad ascoltare, e in breve sanno tutto, fino al punto, che è il massimo della saggezza, di separare il falso dal vero (p. 116).

 

E lavorano duramente: sono cardatrici, filatrici, tessitrici, rammendatrici, lavatrici, cuoche, panificatrici, raccoglitrici e trasportatrici di legna, sterco, cardi e rovi per accendere il fuoco e fanno interamente le veci dei mariti quando sono colpite da una tragedia, come la guerra o un’altra delle tante possibili.

 

Tra il fiume Giordano e il mare piangevano le vedove e gli orfani, è un’usanza antica, proprio per questo sono vedove e orfani, per piangere, poi c’è solo da attendere che i bambini crescano e vadano a una nuova guerra, altre vedove e altri orfani prenderanno il loro posto e se, nel frattempo,  sono cambiate le mode, se il lutto, da bianco, è diventato nero, o viceversa, se sui capelli, che prima venivano strappati, adesso si mette un velo di pizzo, le lacrime, purché sentite, sono sempre le stesse (p. 146).

 

Saramago racconta della madre e del primogenito, tornati a casa dopo aver seppellito Giuseppe in una fossa comune: «Maria si mise a cardare un po’ di lana, pensando subito che per la necessità di mantenere la famiglia avrebbe dovuto cominciare a farlo su commissione, approfittando della buona mano che aveva per quel mestiere» (p. 159).

Ma ritorniamo dentro La Storia. Quando già siamo intenti a seguire, con apprensione, ogni minuto della vita di Ida e Useppe, incontriamo ad un certo punto Davide Segre, il giovane idealista ebreo borghese, fedele a stoici, terribili e torturatori principi politici. Sperso tra le altre sue identità, - quella di fuggiasco sotto il nome di Carlo Vivaldi, di partigiano sotto quello di Piotr - e ora tornato ad essere Davide Segre, solo e in preda al senso di colpa per essere più fortunato degli altri, quindi diverso e più responsabile, e perciò sottoposto a un’autocondanna.

Lui attraversa la Storia ed è il solo a darle voce, ma solo quando è troppo tardi per sé e per tutti, e sta già cominciando un mondo nuovo, sulle macerie, che lui veste con il suo corpo e le sue assenze cercate nelle droghe, una volta finite le persone.

Una frase di una poesia composta da Davide Segre adolescente recita:

«… La creatura umana significa la coscienza…non esistono individui separati, nella coscienza» (p. 569).

Se Ida ha precognizione, Davide ha cognizione e post-cognizione; se Ida teme in ogni momento l’annientamento e gli cammina incontro senza vederlo se non alla fine, Davide lo vive, lo compie conoscendolo dall’interno, fin dall’inizio, o quasi. Davide muore molto prima che la morte arrivi. Ida ha la morte davanti, minacciosa, e va avanti come può, fin da ragazza il suo male interno la mette in guardia e la obbliga a certe assenze dal mondo, dei coni vuoti di luce ignota che, sola, le appartengono e che la depositano di nuovo nella realtà con il sollievo sognato che regala percorrere l’oblio. Davide, invece, lo deve cercare per placarsi e dopo averlo cercato in montagna, nell’amicizia e nella lotta sacra e secca dei gruppi partigiani, con Nino che lo prende a fratello e a maestro, lo trova momentaneamente in Santina, che lo riconosce, senza sapere - torniamo qui vicino alla precognizione - e finché può lo aspetta. Andato in cerca di Nino, Davide la incontra durante un passaggio presso l’alloggio in affitto di Ida e Useppe in casa Marrocco, dove Santina era attesa per leggere le carte e, nell’attesa, lo strillone di giornali si era adoperato a commenti osceni sui motivi del ritardo della vecchia passeggiatrice. Appena prese le carte nelle mani rovinate di lavandaia, Davide le chiede quasi subito di scendere con lui (ha un’ora e mezzo prima che parta il suo treno). Santina interrompe la sua attività e lo guida nel proprio terraneo sui margini del Portuense, non molto distante da Porta Portese. Lui le promette di tornare da lei ogni volta che si troverà a Roma e lo farà, e lei, soprattutto quando Davide aveva bevuto, lo ascolterà parlare della degradazione che porta il Potere e di Ninarieddu e dell’oste Remo e dei partigiani del Nord, come se lui le riversasse nella stanzuccia umida affacciata su un immondezzaio un’incomprensibile sonante omelia.

 

Ma il freddo e l’acqua diaccia che procurano i geloni, la canicola che affatica e fa sudare, l’ospedale e la prigione, la guerra e i coprifuochi; gli alleati che pagano bene e il magnaccia giovane che la mena e le piglia tutti i guadagni, e questo bel ragazzo che si sbronza volentieri e parla e si sbraccia e dà calci: e nel letto la massacra, però è bravo, giacché poi le riversa ogni volta fino agli ultimi soldi delle sue tasche; tutti i beni e tutti i mali: la fame che fa cadere i denti, la bruttezza, lo sfruttamento, la ricchezza e la povertà, l’ignoranza e la stupidità … per Santina non sono né giustizia né ingiustizia. Sono semplici necessità infallibili, delle quali non è data ragione. Essa le accetta perché succedono, e le subisce senza nessun sospetto, come una conseguenza naturale dell’esser nati (p. 359).

 

La carne che si frappone tra Dio e il Diavolo e trasforma un angelo nel suo contrario, un agnello sacrificale in un peccato, la pecora con l’orecchio tagliato salvata da Gesù ribelle in un nuovo definitivo sacrificio compiuto davanti all’imperio della nuvola-Dio. Gesù (come l’adolescente Davide Segre):

 

ha una ferita nell’anima, come egli stesso ha dichiarato e, giacché la sua natura non gli consente di aspettare che gliela guarisca la semplice abitudine a conviverci, fino al punto di cicatrizzazione che è il non pensare, è andato in cerca del mondo, forse, chissà, per moltiplicare le ferite e, unendole tutte, per fare un solo e definitivo dolore. Supposizioni del genere potrebbero magari sembrare inadeguate… attribuendo sentimenti moderni e complessi alla mente di un rustico palestinese… ma abbondano negli scritti da cui questi giudei traggono il nutrimento spirituale, tanti e tali esempi che ci autorizzano a pensare che un uomo, qualunque sia l’epoca in cui viva o sia vissuto, è mentalmente contemporaneo di un altro individuo di una qualsiasi altra epoca (p. 17).

 

Saramago accompagna Gesù nel letto di Maria di Magdala, e noi con lui, e con lei, l’unica che gli crede e ha compassione di lui per essere stato scelto da Dio:

 

la tunica si muoveva, fluttuava, modellando all’andatura il ritmico ondeggiare delle cosce, e i lunghi capelli neri le danzavano sulle spalle come succede con il vento che agita le spighe dei campi di grano. Maria di Magdala, sola, crede a Gesù quando lui le rivela di aver visto Dio. E gli confessa, per averlo sognato e vissuto, che Dio è terribile. Maria dice che non sa nulla di Dio, se non che devono essere davvero spaventose sia le sue preferenze che i suoi disprezzi. Che lei sa, poiché è donna, che cosa significa essere disprezzata da Dio. Che Gesù, adesso, dovrà essere molto più di un uomo, essendo l’eletto di Dio (p. 253).

 

«Quest’uomo, che reca in sé una promessa di Dio, non ha altro luogo dove andare se non la dimora di una prostituta» (p. 273).

 

Scrittore e personaggio chiudono insieme il cancello e lasciano fuori i clienti abituali di questa prostituta. Gesù conosce così l’amore carnale e lo sceglie; lui che era nato, primogenito, da un atto carnale tra i suoi genitori. Solo oltre la metà del Vangelo, un angelo dirà alla Madonna, che non ha creduto alla rivelazione di suo figlio «Ho visto Dio», che il seme di suo marito si era mischiato con il seme del Signore durante il concepimento di Gesù.

Sul sito Einaudiroma.it ho trovato la testimonianza di una lettrice appassionata del Vangelo secondo Gesù Cristo, dal quale riporto lo stralcio seguente:

 

Mi sono preparata al lirismo dei momenti in cui dio e suo figlio parlano, ma poi ho scoperto che quelli sono i momenti più comici di tutto il romanzo. E ho capito, che la divinità sta nell’uomo. E ho capito, che quando dio e Cristo discorrono, è solo dio, in realtà, che parla, e non è un poesia. Ma una dichiarazione di morte. Poiché “I poveri esistono e non sono santi, né aspirano ad esserlo”.[2]

 

La morte è incessantemente e ritmicamente presente in entrambe le opere. Una morte accessibile, sempre vicina, compagna certa e vigile, a portata di mano, solo qualche volta appena distratta, si direbbe sorridente non senza malizia come le Banshees di Inisherin, che si aggirano tra i vivi, senza troppi veli e li avvertono. In fondo, almeno Lei arriva salvifica, o come l’unico sollievo possibile. In comune, ancora, tra Storia e Vangelo, si intravedono, da un lato, la prossimità e la promiscuità con la morte e il sacrificio e, dall’altro, un senso della visionarietà che si direbbe innato, intriso nelle vite al di là e prima di qualunque competenza interpretativa, una sorta di animismo del presente, inintelligibile prima e sopra ogni possibile e pensabile futuro:

 

Se fossimo così imprudenti, o così audaci, come le farfalle, le falene e altri lepidotteri e ci lanciassimo nel fuoco tutti insieme, la specie umana in blocco, può darsi che una combustione così enorme, un simile chiarore, attraversando le palpebre serrate di Dio, lo desterebbe dal suo sonno letargico, troppo tardi per conoscerci, questo è vero, ma ancora in tempo per vedere il principio del nulla, dopo la nostra scomparsa (p. 148).

 

Nel Vangelo si dice: «Dio non perdona i peccati che ordina di commettere» (p. 141). Nella saga profondissimamente urbana della Morante in cui i personaggi si muovono in una traslucenza naturale, fisica, un’affermazione come questa si potrebbe leggere, magari nella forma di un graffito su un muro semicrollato per una bomba, o magari nella forma di una battuta al vetriolo, passata sopra un tavolo da bar dove uno degli avventori, diverso per estrazione e istruzione, si mette a parlare la lingua comune, ma non vi riesce del tutto.

La fine di Ida, temuta e scongiurata finché durasse il suo ruolo di madre, la fine di Santina e quella di Davide assomigliano a quella di Gesù in queste pagine, che si richiamano e risuonano come un canto finalmente uguale, senza separare anima e corpo, sacro e umano.

Se Morante ha mostrato un microcosmo archetipico delle vite della gente in una città in guerra, trasformando uno sguardo eternamente trascurato in uno eterno ed eternamente necessario, Saramago ha portato Gesù di Nazaret sulle strade di un quartiere e su quelle dei dintorni della Storia. Cambiano i colori e le forme delle abitazioni, gli odori, le abitudini, ma non il cammino umano, non il disagio, non le domande, non la paura, non l’amore, non il coraggio, non il destino:

 

«Dice il popolo portoghese, diciamo noi, ma probabilmente lo dicono tutte le genti, visto che l’esperienza dei mali è così generale e universale, che sotto i piedi nascono i travagli. Un detto simile, a meno di non sbagliarci, potrebbe averlo inventato solo un popolo legato alla terra, a furia di inciampate e passi falsi, di incertezze, attese e spine assassine» (p. 303).

 

La Chiesa, o assemblea, universale si scaverà nella carne dell’uomo e le sue fondamenta saranno fatte delle lacrime, delle rinunce. Dai dolori, dalle torture, da tutte le morti che vi si saranno sacrificate. «E poi, figlio mio, sarà una storia interminabile di ferro e di sangue, di fuoco e ceneri, un mare infinito di sofferenze e lacrime» (p. 350)

 

Se si decide di entrare nella realtà virtuale anche solo a titolo di esplorazione gratuita, ci si può ritrovare a compiere un viaggio video-uditivo-corporeo, restando chiusi nella propria stanza, accompagnati da uno storytelling, in seno ad una realtà attuale di vite vissute dentro le guerre: dentro le case delle guerre con i vetri rotti, nelle percezioni, nei ricordi, nelle allucinazioni di chi è costretto a scappare da queste case e da queste guerre, lasciando macerie e identità, affetti, abitudini, storie personali.

Questa esperienza virtuale si chiama The Key, premiata al Tribeca Film Festival del 2019. La ‘chiave’ del titolo (lo si capirà alla fine, dopo una suspense disegnata e rievocata con maestria), è quella che molti rifugiati (anch’essi non menzionati se non alla fine della narrazione) continuano a tenere con sé, nonostante la loro casa sia stata distrutta e il ritorno ad essa impossibile. L’esperienza virtuale, facilmente accessibile, è forte e dà una possibilità di capire e, quindi, di salvarsi.

Dal fascino della tecnologia a quello della materia: è recente l’annuncio di un gruppo di scienziati che sono riusciti ad ascoltare il rumore dell’universo. Se le guerre spegnessero il loro rumore, potremmo ascoltare il suono della vita.

 

 

11 marzo 2024

 

 


[1] D’ora in poi, per l’alta frequenza delle citazioni, le pagine delle due opere si segnaleranno direttamente nel testo. I riferimenti s’intendono alle edizioni seguenti: Elsa Morante, La Storia, con un’introduzione di C. Garboli, Torino, Einaudi, 2014; José Saramago, Il Vangelo secondo Gesù Cristo, Torino, Einaudi, 1997.

[2] Cfr. A. Lattanzi, Il vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago.