Federico Condello - Giovinezza, morte e contrappasso

Per l’analisi di un topos greco

 

1. Premessa

L’epigrafe menandrea che Leopardi pone ad apertura di Amore e morte – «muor giovane colui che al cielo è caro» (Sent. 583 Jaekel) – non è che un frammento isolato, per quanto celebre, di una costellazione topica che ha conosciuto in Grecia ampia e durevole fortuna. Il motivo della morte precoce (thanatos aoros o mors immatura), pur oggetto di studi pregevoli [1], merita ancora qualche approfondimento per ciò che concerne la sua origine arcaica e l’ideologia che ad essa presiede: ideologia così tenace da condizionare, talora in modo consistente, la lunga parabola evolutiva del topos.

Come si sa, in questo e in analoghi casi, ragionare in termini di topoi è scappatoia tanto frequente quanto rischiosa, se con ciò si avvalora tacitamente una psicologia delle arti o una filosofia della storia – non solo letteraria – intonate a un continuismo ideologicamente sospetto: e i dibattiti suscitati dalla Toposforschung di Curtius – ancorché relegati ai margini di una bibliografia sostanzialmente unanime – sono lì a dimostrarlo [2]. Una possibile alternativa a una considerazione meramente descrittiva e compilatoria dei topoi – intesi quale costrutto ipotetico da verificare volta a volta sulla base dei singoli testi e contesti sociali – è stata suggerita alcuni anni fa da Giovanni Pozzi. Lo studioso, attento alla funzione storica del topos quale «Riserva» [3], auspicava una ricognizione di tale «deposito di materiali» che fosse tesa «all’analisi della sua struttura e del suo funzionamento, cioè all’organizzazione biologica della sua fie­vole vitalità: in definitiva agli elementi fissi che ne costituiscono l’invarianza e agli elementi mobili che sopravvivono entro l’ossatura dello scheletro fisso» [4]. In questa prospettiva – che tende a organizzare ogni topica in sistema, dotato di leggi (storiche) interne e tale da costituire un principio (storico) selettivo rispetto alla materia narrabile o descrivibile – mira evidentemente, almeno in linea tendenziale, a purificare il concetto di topos pieno, per sostituirvi quello ben più dinamico e produttivo di topos vuoto [5]; ricorrendo alle usitate metafore di Lotman, diremmo che una simile Toposforschung tenta di strappare la lingua dei topoi dallo statuto di ‘Libro Sacro’, per condurla o restituirla allo statuto di ‘Manuale’ [6].

È da questo punto di vista che si vogliono qui trattare, senza pretese d’esaustività, alcune importanti occorrenze greche del motivo, dall’epica arcaica alla tarda produzione epigrammatica. Come si vedrà, entro il topos della morte prematura – questa è la modesta ipotesi sviluppata nelle pagine seguenti – appare indispensabile distinguere due linee tematiche affatto diverse, il cui continuo intreccio rivela la complessità e l’ambiguità del motivo, denunciando il carattere strutturalmente obbligato di un evento – la morte del giovane o del giovanissimo – di cui pure non si cessa di lamentare l’aspetto innaturale e scandaloso.

 

2. Eroi d’un’ora

Prima e indiscutibile figurazione della morte prematura, il tipo dell’eroe predestinato a breve vita – l’eroe okymoros, «di rapido destino» (e.g. Il. I 417) – ha in Omero le caratteristiche di un modello già compiuto [7] e perciò funzionalizzato a strategie testuali di notevole complessità: ne sono prova la disseminazione del tema lungo l’intero arco narrativo dell’Iliade – quasi un motivo musicale di cui Di Benedetto ha tracciato da ultimo l’andamento [8] – e i giochi di prolessi e analessi che moltiplicano l’immagine di Achille nei personaggi di Patroclo, Sarpedone, Ettore e non solo [9]. Com’è noto, nella stessa tradizione greca, le tracce del motivo si lasciano riconoscere in una realtà cultuale che induce a risalire ben oltre l’epica storica, se è vero che il primo attributo di ogni eroe è la sua tomba, e che non si dà eroe che non sia, tecnicamente, un eroe morto [10]. Ma a prescindere dai discussi rapporti fra culto eroico e letteratura epico-eroica – la cui reciproca influenza pare innegabile, senza che ciò costringa alla determinazione di una sicura priorità [11] – vistosa è l’influenza che il personaggio di Achille, e l’Iliade tutta, hanno esercitato sulle successive raffigurazioni dell’eroe morituro. Sono ben noti i passi che in questo lungo «poema di morte» [12] fanno del campione acheo, più che di ogni altro personaggio iliadico, il soggetto di un’attesa angosciosa, nato zum Tode, e tale da vivere con piena consapevolezza una decisione – Entschlossenheit, si potrebbe azzardare, non del tutto a sproposito [13] – che sola può compiere sino in fondo il suo statuto di eroe. Si tratta innanzitutto, già a esordio del poema, del celebre lamento di Tetide (Il. I 414-418)[14], anticipato poco prima da Achille stesso (Il. I 352-356); tale lamento è ripreso da Tetide al cospetto di Zeus (Il. I 503-510) e si avvia a divenire, soprattutto nella seconda parte del poema, con una climax via via più fitta nel finale [15], un ossessivo refrain: basti citare, fra i molti possibili, l’allocuzione di Tetide alle Nereidi (Il. XVIII 52-64); il successivo dialogo tra Achille e la madre (Il. XVIII 86-96), coronato dal significativo exemplum di Eracle (Il. XVIII 114-126) [16]; lo sfogo di Achille dinanzi ai Mirmidoni (Il. XVIII 324-335) e agli Anziani dell’esercito (Il. XIX 328-337); la sinistra profezia di Xanto (Il. XIX 404-424 ); l’amara risposta di Achille al supplice Licaone (Il. XXI 99-113); il dialogo fra Achille ed Ettore morente (Il. XXII 355-366); infine, la partecipe replica di Achille a Priamo (Il. XXIV 518-551, in part. 538-542) [17]. Sono tutti passi, questi, che alimentano il fecondo equivoco suscitato dalla parentela etimologica di heros («eroe») e hora («stagione» e per antonomasia «bella stagione») [18]: parentela giustificata dal carattere ciclico e stagionale del culto eroico, successivamente piegata a significare la natura fiorente e vitale dell’eroe epico, ma non priva di risonanze sinistre, se «a “hero” is “seasonal” in that he comes into his prime, like flowers in the spring, only to be cut down once and for all» [19].

Per quanto concerne in particolare Achille, il suo destino di sofferenza e di morte – egli è non solo okymoros: è okymorotatos (Il. I 505), il più effimero degli eroi – appare iscritto nel suo stesso nome, come ha più volte sottolineato Nagy [20]. E il più affine ad Achille, tra gli eroi iliadici, risulta non a caso Ettore, che con l’antagonista acheo condivide il privilegio di un pianto funebre intonato anzitempo (Il. VI 497-502 per Ettore, XVIII 50-64 per Achille [21]) e di un’attesa tanto angosciosa quanto consapevole, che trova conferma nella profezia pronunciata da Patroclo (Il. XVI 851-854) e nelle celeberrime parole dello stesso Ettore alla sposa Andromaca (Il. VI 440-465) [22]. Di tale trama tematica, molte volte osservata, sono state fornite valutazioni discordi. Di Benedetto, per esempio, ha riconosciuto che il motivo della morte prematura risponde al modulo arcaico della compensazione (la gloria, il kleos, è quanto risarcisce Achille del suo breve destino): ma tale modulo sembra perdere in spessore e in rilievo mano a mano che il finale si avvicina, sicché all’orizzonte dell’Iliade si stagliano altre problematiche – un’indubbia apertura edonistica nelle parole finali di Tetide ad Achille (Il. XXIV 128-132) e una Stimmung generalmente pensosa e malinconica, specie nell’ultimo libro – che suggeriscono un marcato collocamento del poema «al di là dell’ideologia aristocratica» [23]. Altri hanno invece rilevato come i numerosi riferimenti di Achille alla propria morte – particolarmente a partire dal XVIII libro – contribuiscano piuttosto a evidenziare il carattere ostinatamente acerbo e disperato dell’eroe [24]; né si potrà negare che lo stesso incontro fra Achille e Priamo, nel libro XXIV, pur portando al massimo grado la riflessione omerica sull’inevitabilità del dolore e della morte, non produce alcuna netta rottura del codice aristocratico [25]: da questo punto di vista, il ribadito isolamento di Achille dalla propria comunità (cf. in part. i vv. 649-655), rischia di costituire un argomento a favore, piuttosto che una smentita [26].

Dinanzi a valutazioni tanto diverse, basteranno, in questa sede, poche osservazioni di carattere generale: 1) i passi sin qui censiti costituiscono altrettanti tokens di un type unitario: ma nulla – salvo il presupposto di una coerente, e tuttavia indimostrabile, intenzione d’autore [27] – può giustificare l’ipotesi di una sola e coerente strategia testuale; risultano evidenti, per contro, le diverse coloriture emozionali e le diverse finalità etopoietiche dei singoli passi, pur unanimi nel riferimento al motivo della mors immatura [28]; 2) poco opportuna appare una concezione monolitica del «codice aristocratico», che si mostra, in Grecia arcaica più che altrove, sufficientemente flessibile da tollerare deviazioni e metamorfosi talora consistenti [29]: «in the Iliad Achilles expresses profound disenchantment with glory as the reward of the hero, but heroic he still remains» [30], e certo non è un caso se l’Odissea, in un processo di intertestualità a larghi tratti polemica, sembra appuntarsi innanzitutto sul tema prettamente eroico della gloria quale risarcimento della morte, a cominciare dalla celebre palinodia di Achille in Od. XI 488-491 [31]; 3) indiscutibile risulta l’eccezionalità di Achille – e in parte di Ettore, suo prevedibile Doppelgänger – nel paradossale connubio di straordinaria eccellenza eroica e di altrettanto straordinaria mortalità: si creda o no alla prospettiva di chi attribuisce a Omero una sistematica sympatheia nei confronti di tutti i guerrieri morti – ivi compresi i minori, che in folla accalcano i libri V-XVII e XIX-XXI [32] – resta il fatto che solo all’imminente morte di Achille è riservato tanto spazio e tanta insistenza: a dimostrazione di un dato caratterologico strutturale, che ha più del privilegio eroico che della generalizzazione filantropica. Fermo restando il riconoscimento di tematiche che collocano l’Iliade in ben altro orizzonte, rispetto all’«unreflective heroism» di tante tradizioni epiche [33], non è del tutto convincente la prospettiva di chi trasforma un tratto così importante dell’ideologia omerica in un generico, forse suggestivo ma astorico, discorso sulla condition humaine [34]: siamo ancora lontani dalla generalizzazione che l’epiteto avrà, per esempio, in un noto frammento di Empedocle (fr. 2 D-K), e se in Omero il senso della morte incombente interessa tutte le classi di età [35], solo in Achille il nesso tra giovinezza e morte appare tanto stretto da costituire un presupposto ineliminabile delle sue gesta. La sua fine – sempre annunciata e sempre rinviata, ma esclusa pour cause dal poema [36] – ha i suoi paralleli nelle morti di Patroclo ed Ettore, gli unici due eroi di cui sia esplicitamente predicata – proprio all’atto della morte – la fiorente «giovinezza», nell’immagine di una psyche che abbandona, gemente e quasi a lutto, il bel corpo inanimato degli eroi (Il. XVI 856s. = XXII 863s.: «la vita dalle sue membra volò e andò nell’Ade, / gemendo il suo destino, abbandonando forza e giovinezza [eben]») [37]. Una verifica per contrasto si potrà ottenere da quei passi in cui la «giovinezza», pur costituendo un tratto evidenziato a scopo di enfasi patetica, non rappresenta nulla più che un carattere secondario, privo di rapporto con la forza o la gloria dei caduti, come avviene per esempio con la morte degli oscuri Simoesio o Ifidamante (Il. IV 473-479 e Il. XI 221-245): giovani, prematuramente uccisi – e significativo è che in entrambi i casi il termine di confronto sia il matrimonio [38] – ma collocati esplicitamente al di qua di un culmine vitale in cui giovinezza, potenza guerriera e morte risultano inestricabilmente legate. «Achilles in saga – ha scritto in proposito Murray – is little more than a typical heroic Kouros, as Hermes and Apollo are divine Kouroi. Like all the Kouroi he is young, swift, tall, and beautiful; like Balder, Hyakinthos, Hippolytus, Adonis, Linos, and many others, he is cut short in his youth and ritually lamented: in the saga by a choir of Nereids, in actual life by choruses of women» [39]. Tale «little more», lo si è visto, comprende un eccezionale approfondimento psicologico e inedite aperture a una problematica valutazione dell’etica eroica; ma il riconoscimento di un privilegio tipico di Achille, e con esso l’isolamento di una concezione affatto particolare della giovinezza, risulta inevitabile: «comme il y a, à côté de l’honneur ordinaire, un honneur héroïque, à côté de la jeunesse ordinaire – celle tout bonnement de l’âge – il y a une jeunesse héroïque qui brille dans l’exploit et trouve dans la mort au combat son accomplissement» [40].

Una simile concezione – lo si è accennato – ha nel modulo arcaico della compensazione la sua tipica forma di rappresentazione testuale: e il passo più esplicito in questo senso, al di là dei molti già citati, è naturalmente la risposta di Achille a Odisseo nell’episodio dell’ambasceria (Il. IX 401-416), dove l’alternativa fatale appare esplicitamente e compiutamente tematizzata:

«Non esiste, per me, premio che valga la vita, né quanto dicono
possedesse Ilio, rocca ben costruita,
prima, in pace, prima che qui venissero i figli degli Achei,
né quanto dentro racchiude la soglia marmorea del tempio
di Febo Apollo, in Pito pietrosa.
Predare si possono buoi e prosperi armenti,
tripodi e bionde criniere di cavalli si possono acquistare,
ma la vita di un uomo, perché torni indietro, non si lascia predare
né prendere, poi che ha superato il recinto dei denti.
Mi ha detto mia madre, la dea Teti piedi d’argento,
che due Chere conducono me all’estremo di morte.
Se qui rimango e combatto per la città dei Troiani,
mi muore il ritorno, ma eterna sarà la mia gloria;
se invece la casa raggiungo, nella mia terra patria,
mi muore la nobile gloria, ma lunga per me la vita
sarà, né in fretta mi potrà cogliere il termine della morte»

È dunque facile vedere nel destino di Achille un caso particolare del motivo binario, tanto diffuso e fortunato, del ‘doppio dono’ [41]; più in generale, la costante da cui partire per un inquadramento di tale motivo è la strutturale compresenza – nel tipo eroico – di qualità fra loro antitetiche, secondo un modello di cui Angelo Brelich ha sondato meglio di altri la portata [42]. Da questo punto di vista, caducità dell’esistenza ed eternità della gloria rappresentano una polarità strutturale di cui il modulo della compensazione non è che una delle possibili rappresentazioni testuali: a monte di tale rappresentazione – che costituisce un esito segnato da caratteri razionalistici e moralistici affatto particolari [43] – occorre risalire e attenersi alla fondamentale acronia del paradigma sottostante, che ogni procedimento di mise en discours tende per propria natura a ‘temporalizzare’ secondo l’obbligata linearità del sintagma narrativo, restituendo sotto specie di successione o di nesso causale il sistema soggiacente dei valori in gioco [44]. Le modalità di linearization o di temporalization narrativa cui tale paradigma può prestarsi sono varie e molteplici, come avremo occasione di accennare. Ma strutturale e fondante rimane il nesso ‘giovinezza’-‘morte’, di cui Achille rappresenta una figurazione mitica tanto particolare quanto esemplare, e la cui antitesi va cercata – come ha ben visto Vernant – nel modello omerico della morte anti-eroica, sta a dire della comune vecchiaia, eminentemente rappresentata nel discorso di Sarpedone a Glauco (Il. XII 322-328): «l’exploit héroïque s’enracine dans la volonté d’échapper au vieillissement et à la mort, quelque “inévitables” qu’ils soient, de les dépasser tous les deux. On dépasse la mort en l’accueillant au lieu de la subir, en en faisant le constant enjeu d’une vie qui prend ainsi valeur exemplaire et que les hommes célébreront comme un modèle de “gloire impérissable”» [45]. Ignis quo clarior fulsit citius extinguitur, scriverà Seneca (ad Marc. 23,4), in una prospettiva – quella della consolatio – che torneremo presto a incontrare. A partire da tali premesse, è chiaramente spartito lo spazio semantico su cui operare le più varie manipolazioni ideologiche [46]: data l’opposizione acronica ‘vita’/‘morte’, con la sottesa opposizione ‘non-morte’/‘non-vita’, laddove sia stabilito ‘vita’ = ‘giovinezza’ (o, omericamente, il «fiore della giovinezza» [47]) e ‘non-vita’ = ‘vecchiaia’, con essi apparirà, presupposto reciproco della giovinezza, la ‘morte’, e, suo complementare, quella particolare forma di ‘non-morte’ che nell’ideologia omerica è il kleos aphthiton, la «gloria imperitura». Tali termini, esemplarmente incarnati nella vicenda terrena (e poetica) di Achille, resteranno disponibili a infinite pratiche di riuso ideologico. «Morti, non muoiono», affermerà, con compiaciuta antitesi, un epigramma attribuito a Simonide (AP VII 251,3) e dedicato a soldati meritevoli di asbeton kleos, «gloria inestinguibile»; e nell’elegia per la battaglia di Platea, con una generalizzazione che non sorprende, lo stesso Simonide potrà definire tramite l’aggettivo che l’Iliade riserva ad Achille – okymoros – la stirpe intera degli eroi cantati da Omero (fr. 11,17s. W.2) [48].

 

3. Guerra e gioia: il telos della giovinezza

«Quando muoiono i giovani, maggiore è il premio che io raccolgo», afferma Thanatos nel prologo dell’Alcesti euripidea (v. 55). Non sorprende dunque che il tema epico della «bella morte», strutturalmente legata al culmine vitale della giovinezza, abbia goduto di immensa fortuna negli àmbiti della parenesi bellica e della retorica patriottica. I punti salienti di tali storia sono già stati riconosciuti e valorizzati da Nicole Loraux e da Jean-Pierre Vernant [49]; basti ricordare, innanzitutto, il ricorso a motivi omerici, nella Sparta del VII sec. a.C., da parte di Tirteo [50]:

morire è bello per un valoroso che cade in prima fila
mentre combatte per la propria patria

(fr. 10,1s. W.2 = fr. 6,1s. Pr.)

Giovani, avanti: a fianco a fianco, fermi, combattete:
né infame cedimento, né paura,
ma grande e coraggioso fatevi il cuore in petto:
nessun amore per la vita in guerra!
E i vecchi che non hanno più agili ginocchia
non lasciateli indietro nella fuga,
i vecchi! È una vergogna se cade in prima fila
e giace un vecchio prima di voi giovani:
un vecchio dal capo bianco e dalle gote grigie
che il suo animo forte nella polvere
esala e copre i genitali insanguinati
con le mani – vergogna per chi guarda,
odioso a vedersi – e il corpo nudo. Ma tutto è bello ai giovani
finché si abbia di giovinezza amabile
il luminoso fiore: ammirevole agli uomini, amabile alle donne
da vivo, e bello se fra i primi cade.

(fr. 10,15-30 W.2 = fr. 7,1-16 Pr.)

Il brano – che nell’apostrofe ai «giovani» (neoi) ha un precedente significativo in Callino (fr. 1,2 W.2) – deve a Omero ben più di quanto mostri il riuso di stilemi epici [51], e in particolare il sicuro reimpiego del discorso che Priamo rivolge a Ettore in Il. XXII 71-76 [52]: omerica e strettamente eroica è l’associazione della giovinezza, quale culmine o «fiore» della vitalità umana (v. 28), con una morte che di essa non nega, ma piuttosto compie ed eterna le caratteristiche. Omerica è altresì una concezione della «giovinezza» (ebe) che non si lascia ridurre a una precisa classe d’età, ma in sé riassume ogni eccellenza vitale [53]. Nel già evocato Callino, del resto, appare evidente l’alternativa che viene prospettata, nell’Iliade, da Sarpedone (Il. XII 322-328, su cui cf. supra) e che oppone alla gloriosa morte del giovane combattente l’anonimo e casuale decesso del superstite:

Che un uomo eviti la morte non è previsto dal destino
nemmeno se discende da immortali:
spesso chi sfugge alla battaglia e al fragore delle armi
ritorna, ma il destino della morte
lo coglie in casa: né amore né rimpianto avrà dal popolo.

(fr. 1,12-16 W.2)

Tale motivo, per cui nella figura del giovane «mortalité et immortalité, au lieu de s’opposer, s’associent […] et s’interpénètrent» [54], troverà prosecuzione – ad onta della sua origine eroica e aristocratica – nel repertorio dell’epitafio democratico, qual è rappresentato per esempio da Lisia (Or. 2,78-80) o da Demostene (Or. 60,32-33). In Iperide, la «bella morte» equivale addirittura a una compiuta iniziazione virile di paides prima immaturi (Epitaph. 28): «Se la morte, che per altri è il peggiore dei mali, per costoro è stata il principio di grandi beni, è forse giusto non ritenerli fortunati? O pensare che siano morti anziché ritenere che siano nati a una nuova vita, migliore della precedente? Allora erano ragazzini immaturi [paides aphrones], ora sono uomini fatti [andres agathoi[55]. Una vita eterna, ossia una eterna o eternata giovinezza, è quanto attende gli obbligati cultori della «bella morte»; le esortazioni ai figli e ai genitori nel Menesseno di Platone colgono con amara ironia simili clichés dell’epitafio democratico (Pl. Menex. 246d-248d); essi trovano peraltro puntuale riscontro nella produzione epigrammatica di V e IV sec. a.C., in particolare in polyandria celebrativi come quello per la battaglia dell’Eurimedonte (GVI 13 = AP VII 258) o per i morti dell’Ellesponto (GVI 18 = IG I2 943), dove l’espressione «perdere la splendida giovinezza [aglaon heben]» rivela la sua natura di stereotipo eulogistico; «è difficile vedere un valoroso Acheo – dirà un’epigrafe datata al 220-217 a.C. – vivere fino ad avere i capelli bianchi» (GVI 1464 = AP VII 438). Prevedibile costante della retorica marziale, notoriamente – et pour cause – priva d’immaginazione [56]? Qualcosa di più profondo, se al capo opposto della parenesi tirtaica – stando almeno alle partizioni scolastiche – e cioè al colmo dell’edonismo ionico, ci è dato reperire un analogo sviluppo del tipo iliadico da cui siamo partiti. Si veda, esemplarmente, il celeberrimo testo di Mimnermo:

E noi, come le foglie cui dà vita la fiorente stagione
di primavera, quando all’improvviso
crescono al sole, per un breve tempo noi godiamo dei fiori
di giovinezza, ignari, dagli dèi,
di bene e male. Ma oscure su noi incombono le Chere,
e l’una ha il termine della vecchiaia
odiosa, l’altra della morte; rapido dura il frutto
di giovinezza, breve come un sole.
Ma quando è ormai trascorso questo termine della stagione
essere morti è meglio che la vita:
molti i mali nell’animo: qualche volta la casa va in rovina
e restano le opere d’amara
miseria; c’è chi manca di figli e con rimpianto
sotto la terra si dirige all’Ade;
un altro ha malattie che lo distruggono; ed un uomo
non c’è cui non dia Zeus molti dolori.

Come ha ben visto Daniel Babut, il punto focale dell’elegia – la cui ascendenza epica è a ogni tratto verificabile [57] – si concentra al v. 9, nell’espressione teloshores, che riprende i precedenti telos geraos e thanatoio («termine della vecchiaia» e «della morte»), e che proprio in quest’ultima espressione – prettamente omerica – trova la sua matrice. Ma a partire da essa Mimnermo conia una iunctura che sembra giocare sui due sensi del polisemico telos: «termine della stagione» quale «apice, compiuta perfezione» della giovinezza, ma anche come «fine, punto estremo e terminale» di cui viene immediatamente predicato il trascorrere (v. 9 parameipsetai) [58]. In questa concezione della temporalità umana trova il suo fondamento l’edonismo di Mimnermo, secondo un motivo che conosce ampio sviluppo nella poesia simposiale greca e che, attraverso Orazio, diverrà un cliché di lunghissima durata nella lirica occidentale. Ma quel che importa osservare è che, con la riaffermazione della fatale contiguità di giovinezza e morte, e con la loro comune opposizione alla vecchiaia, il paradigma che soggiace al tipo iliadico dell’eroe effimero è in certo senso riprodotto a termini invertiti, ovvero in una diversa forma di linearization narrativa; ciò che muta è soltanto la direzione del processo compensativo: se per gli eroi iliadici il «fiore della giovinezza», l’apice della vitalità umana, fondamento delle gesta belliche, chiama a proprio contrappasso l’imminenza della morte, per Mimnermo l’imminenza della morte sollecita al pieno godimento della vitalità umana, identificata con la giovinezza; una giovinezza che proprio perciò si conferma, in ogni senso, telos: termine e compimento della vita, sua perfezione e suo estremo limite. Caram te, vita, beneficio mortis habeo, dirà ancora Seneca (ad Marc. 20,3) [59].

E in effetti, da questo punto di vista, è ben riconoscibile una linea di filiazione topica che dal modello eroico, attraverso gli esiti apparentemente opposti della retorica guerresca e dell’edonismo simposiale, conduce sino ad uno dei motivi più diffusi della diatriba ellenistico-romana e del logos paramythetikos o consolatio: quello che oppone la lunghezza (relativa) della vita alla pienezza del suo godimento, per lo più declinato in senso etico-filosofico e intonato a una nuova economia del tempo e a una nuova disciplina del piacere [60], che trovano tuttavia i lori presupposti nella legge del ‘massimo sperpero’ incarnata nell’eroismo e nell’edonismo di età greca arcaica. «Ma qual è una vita lunga? O, più in generale, che significa “lungo” per gli uomini?», chiede Cicerone, rievocando uno dei più fortunati paradoxa stoici [61]: gli farà eco tutta la riflessione de brevitate vitae, sintetizzata nell’omonimo dialogo senecano (cf. 2,1 vita, si uti scias, longa est, 8,10 non est itaque quod quemquam propter canos aut rugas putes diu vixisse: non ille diu vixit, sed diu fuit), per cui prematura è solo la morte degli occupati (16,1), meritevoli di riti funebri analoghi a quelli che si destinano ai bambini defunti anzitempo (20,6) [62]. Poiché nulla si può perdere tranne l’istante presente – come dirà Marco Aurelio in una canonica formulazione del motivo (Pensieri II 14) [63] – proprio la giovinezza, culmine e istantaneo telos della vita, continuerà a mantenere un legame privilegiato con la morte.

 

4. Margini della vita: morte e matrimonio.

In anni non lontani dall’attività di Mimnermo [64], l’ateniese Solone offre il primo esempio documentato dell’aggettivo aoros applicato al tema della morte; si tratta della celebre elegia delle età (fr. 27 W.2 = 23 G.-P.2), il cui ultimo distico individua nei settant’anni il termine oltre il quale un uomo «non prematuro (ouk an aoros eon) avrebbe destino di morte» (v. 18) [65]. Computo largheggiante, come si vede, specie per le attese di vita tipiche dell’età antica, ma spiegabile sulla base di una concezione che varia – più che negare o rivoluzionare – il paradigma sotteso alle enunciazioni di Mimnermo, contro le quali Solone sembra anche altrove impegnato in una polemica di cui si è forse esagerato il valore [66]; in effetti, i versi precedenti si limitano a dichiarare protratto sino all’ottava ebdomade il processo di maturazione individuale (vv. 13s.) [67], sicché massimo sviluppo vitale e morte continuano a coincidere, ancorché spostate. Si coglie qui, tuttavia, un punto di rottura che apparentemente condiziona ogni successivo sviluppo del topos: se la «bella morte» di origine eroica, così come il suo apparente contraltare edonistico, tendono a far collimare massimo sviluppo vitale (il «fiore di giovinezza») e fine della vita – sicché la morte del giovane risulta paradossalmente più che mai conforme alla hore, al pieno sviluppo della vita e del tempo – le posteriori occorrenze del tema sembrano evidenziare piuttosto un’innaturale dissonanza tra il telos della vita e il telos della morte: un termine posto radicalmente al di qua della compiuta maturazione individuale, una morte che appare più che mai contra naturam e il cui aspetto scandaloso nasce proprio dalla cessata corrispondenza fra culmine e termine della vita, strutturale nelle occorrenze arcaiche del motivo. «Il mondo greco – è stato scritto in proposito – così sensibile verso il “punto culminante” (acme) e il “momento opportuno” (kairos), verso il “conveniente” (prosekon), verso la perfezione e l’armonia, non può non avvertire con particolare trauma una esistenza incompiuta e disarmonicamente sviluppata, che ha prodotto un uomo dimidiato» [68]; eppure, come vedremo, proprio il momento di massima fortuna del thanatos aoros quale tema tragico, epigrammatico e filosofico, conserva consistenti tracce di quell’ideologia della compensazione e del contrappasso che ne costituisce la humus arcaica e aristocratica.

È da dire innanzitutto che il motivo dell’eroe effimero – ben al di là della sua fortuna entro il repertorio del logos epitaphios – resterà vivo, per tutta l’età classica e oltre, quale indiscutibile dato cultuale: si pensi solo alla testimonianza erodotea circa il pianto rituale per l’aoros Lino-Manerote, archetipo di ogni canto trenodico (Erodoto, Storie II 79); o alle vicende paradigmatiche di Imeneo e di Ialemo – anch’essi, come Lino, figli di Calliope – quali eventi fondativi degli omonimi canti cultuali [69]; o, ancora, alla legge d’inversione polare iscritta nel rituale attico delle Adonie – acutamente analizzato da Detienne [70] – in base alla quale l’apice della vitalità (e della sensualità) rappresentato da Adone-Tammuz si traduce strutturalmente nella morte del giovane eroe. Quando, ancora nel III sec. d.C., Filostrato ritrarrà il giovane Achille impegnato a cantare le premature morti di eroi quali Giacinto, Narciso e Adone (Eroico, 45,6) [71], il legame sarà ancora profondamente sentito; di periodiche lamentazioni in onore d’Achille, del resto, danno esplicita testimonianza le fonti antiche [72].

Ma è soprattutto nella tragedia che l’aoros diviene tipo ricorrente, almeno nella figura di giovani donne morte progamoi, «prima delle nozze». Claudel definiva la tragedia attica «un lungo grido davanti a una tomba mal chiusa», e Barthes vi opponeva il dramma moderno quale «susseguirsi di chiacchiere e di qui pro quo davanti al letto mal chiuso della sposa» [73]: in realtà, la confusione di tomba e talamo nuziale è un motivo ampiamente esperito dalla drammaturgia antica. Come si è osservato più sopra, un remoto antecedente di tale motivo – per lo più ignorato dalla letteratura critica – va riconosciuto nelle due morti premature di Simoesio e Ifidamante (Il. IV 473-479 e Il. XI 221-245), l’uno – sottolinea il testo – «celibe» e «fiorente» (thaleros), l’altro tipicamente neogamos: due dettagli che non mancheranno di tornare, con frequenza insistente, nella produzione epigrammatica [74]. Del resto, già nel VI sec. a.C., il motivo è stringatamente adibito dalla celeberrima epigrafe di Frasicleia (GVI 68 = IG I2 1014) [75]:

Tomba di Frasicleia. Io per sempre mi chiamerò ragazza (kore):
questo nome mi diedero gli dei in luogo delle nozze.

Qui, il motivo dell’eterna giovinezza appare già come un’originale derivazione del modello eroico, trasferito alla figura della progamos [76]. Ma se, nell’Iliade, le morti dei due eroi minori nulla hanno a che vedere con il modello della «bella morte» eroica, proprio la tragedia attica promuoverà una sistematica conflazione dei due motivi. I loci classici sono ben noti: primo fra tutti il lamento di Cassandra nell’Agamennone di Eschilo (vv. 1072ss.), fittamente intessuto d’immagini allusive che suggeriscono l’identificazione di morte e matrimonio, secondo un modulo ripreso ed espanso da Euripide – sempre per bocca di Cassandra – nelle Troiane (vv. 308-341) [77]; nella stessa tragedia eschilea, come si sa, il sacrificio di Ifigenia è descritto nei termini ambigui di un rito denso di allusioni nuziali (vv. 228-247) [78]: un modello che sarà ancora una volta prolungato da Euripide nell’Ifigenia in Aulide, così da ispirare tanto i tragici equivoci che contrassegnano il dialogo di Agamennone e Ifigenia (vv. 631-690), quanto la disperata allocuzione della protagonista al padre, dove lessema chiave è il termine aoros (vv. 1211ss., cf. in part. v. 1218) [79]; non sorprende che la successiva palinodia dell’eroina (vv. 1368ss.) recuperi i moduli della «bella morte», intrecciandoli al tema delle nozze fatali (cf. vv. 1397-1399: «Do il mio corpo alla Grecia. / Sacrificatemi, espugnate Troia. Questo gesto sarà il mio monumento / per lungo tempo; esso sarà i miei figli e le mie nozze e la mia gloria»). Ma è soprattutto nell’Antigone sofoclea – una tragedia in cui sovvertimento dei riti funebri e sovvertimento dei riti nuziali vanno di pari passo – che il tema della morte precoce, lugubre Ersatz del matrimonio, trova il suo massimo sviluppo [80]; Antigone – l’eroina destinata a «trovare un marito nell’Ade», come annuncia Creonte al figlio (vv. 653s.) – si congeda da Tebe, in un celebre sfogo lirico, senza aver avuto la parte debita degli imenei (vv. 813s.), destinata a sposare l’Acheronte (v. 816), maledetta e «senza nozze» (agamos, v. 867), perché nata dalle infauste nozze di Edipo e perduta dalle infauste nozze di Polinice (vv. 869-871); essa – enuncia la triplice serie aggettivale del v. 876 – è «senza una lacrima, senza un amico, senza uno sposo» (aklaustos, aphilos, anymenaios) [81], e la grotta che l’accoglierà ancora viva diviene a un tempo tomba e stanza nuziale (v. 891), mentre Ade – ha già annunciato il Coro (v. 804) – è il «talamo» a lei destinato. Il successivo suicidio di Emone, del resto, compie l’immagine del matrimonio mancato in una scena non priva di risonanze erotiche (vv. 1234-1241) [82]:

e allora il disgraziato
colmo di rabbia per se stesso, si slancia e si conficca
la spada nel torace, fino in fondo; e in un incerto abbraccio
si aggrappa alla ragazza, è ancora lucido,
e rantolando esala un fiotto acuto
di gocce sanguinanti sulla bianca
guancia di lei. Ora giace: un morto accanto
a un morto; ora egli ha avuto le sue nozze
– infelice – nelle dimore d’Ade.

La tragica trasformazione dell’imeneo in planctus funebre è all’origine dei ben noti sviluppi di età ellenistica, a cominciare dal canto di Erinna per la giovane Baucide (SH 401 = fr. 4 Neri), o dall’epigramma attribuito alla stessa Erinna (AP VII 712 = HE 2 = fr. °6 Neri) in cui – con marcata esplicitazione del motivo – si accusa Imeneo di aver «rimodulato il canto delle nozze in un lamentevole suono di compianto funebre» (vv. 7s.) [83]. Il tema sarà oggetto di infinite variazione da parte degli epigrammisti successivi, da Meleagro (AP VII 182) a Parmenione (AP VII 183 e 184), da Filippo (AP VII 186) ad Antipatro di Sidone (AP VII 711) sino ad Antonio Tallo (AP VII 188); una menzione speciale merita Pallada, AP VII 610, che nell’immaginare una vera e propria ecatombe nuziale, estesa a tutti gli invitati di un ferale matrimonio, sembra dar luogo a una variazione iperbolica sul motivo, condotta sino al limite della parodia. Gli elementi strutturali di tale modello tragico-epigrammatico sono ben identificabili, perché invariabilmente «arranged into a series of pairs of contrasts» [84]: il canto dell’Imeneo e il canto del Threnos, la luce delle torce nuziali e la luce delle torce funebri (o della pira), la stanza matrimoniale e la tomba. Tali contrasti esplicitano il fondamento rituale del fortunato motivo, che va senza dubbio individuato nell’intima contiguità di rito nuziale e rito funebre: implicita già nel comune iperonimo kedos, essa diviene esplicita nell’apparato cultuale che caratterizza entrambe le cerimonie – dai canti alle torce – e nella comune valenza simbolica di evento-soglia, inizio di una vita affatto nuova, o meglio abbandono della vita precedente [85]: «lontananza» [apousia], «viaggio» [plous], separazione che ogni donna affronta «sola, separata dal padre e dalla madre», come suonano le sinistre definizioni dell’ambiguo destino che attende Ifigenia (Eur. IA 651, 668, 669). Ma se «il corteo funebre non era in effetti che la rappresentazione inversa del corteo nuziale»[86], e se ciò favoriva un’identificazione sfruttata più e più volte dalla retorica del compianto, è importante osservare come il motivo del «mortal wedding» tenda a essere declinato in due configurazioni che meritano di essere distinte, benché proprio la loro sostanziale indifferenza risulti a nostri fini significativa: la morte dell’aoros avviene propriamente pro gamou, «prima delle nozze» (com’è il caso per lo più delle eroine tragiche), oppure a poca distanza dalle nozze, se non addirittura il giorno stesso del matrimonio (com’è il caso di Baucide in Erinna o di Clearista in Meleagro); in entrambi i casi, la morte appare anti gamou, «al posto delle nozze» (cf. anche GVI 1470,5), e la tomba anti thalamou, «al posto della stanza nuziale», come recita l’epigramma anonimo GVI 592,5 (e cf. per es. anche AP VII 649,1 = GVI 1416,1; GVI 1584,5); e non è un caso che la morte della progamos o dell’agamos sia esplicitamente raffigurata, secondo un cliché che dall’Antigone (v. 810) giunge sino alle iscrizioni funerarie, quale matrimonio con Ade o con Persefone [87]. Che la donna aoros sia agamos, progamos o neogamos, appare dunque del tutto secondario: primaria è l’identificazione di rito funebre e rito nuziale, tanto prossimi da formare un solo, ininterrotto rito di separazione, o tanto simili da costituire entrambi un inequivocabile telos: «culmine», «compimento», ma anche «rito», per lo più in accezione marcatamente liminale o postliminale [88]. È facile vedere come, per questa via – e nonostante l’insistenza sul carattere prematuro di tali morti – si recuperi un elemento strutturale del motivo da cui siamo partiti: ovvero la coincidenza fatale di massimo sviluppo della giovinezza (identificato appunto, per la donna, con il matrimonio) e di termine estremo della vita. Una coincidenza che continua ad agire, nell’immaginario greco, a prescindere dal carattere preteso innaturale delle morti che tanto insistentemente si compiangono.

 

5. Infanzia, giovinezza e morte.

Ma se torniamo alla tragedia, in essa potremo trovare l’origine di un’altra, fortunata variazione sul tema della mors immatura, con la quale si esaurisce la triplice categorizzazione degli aoroi testimoniata fra gli altri in Virgilio (Georg. IV 475s. pueri innuptaeque puellae / impositique rogis iuvenes ante ora parentum) [89]: è la morte del bambino che ancora non ha raggiunto l’ebe, la piena giovinezza, secondo un modulo esemplarmente rappresentato dal lamento di Ecuba sul cadavere di Astianatte (Eur. Tr. 1156-1206); il figlio di Ettore avrebbe dovuto morire «dopo aver avuto in sorte la giovinezza» (v. 1168), e in particolare il matrimonio e la pienezza della sua funzione regale (v. 1169); ora il suo cadavere non mostra che una tragica somiglianza con il corpo di Ettore (vv. 1178s.), e lo scudo del padre – in una sinistra traditio degli emblemi virili – diviene tomba dell’immaturo figlio (vv. 1191s.). In questo lamento funebre, che ribalta i moduli cultuali e formali del genere, negando ogni accesso alla consolazione [90], si trovano in nuce tutti i motivi che caratterizzeranno, su un piano compositivo ormai altamente formalizzato, il trattamento della mors immatura da parte della produzione epigrammatica: si pensi in particolare a quelle invarianti stilistiche che Griessmair denomina della «prin-Konstruktion» (l’aoros è morto «prima di…») o della «oupo-Konstruktion» (l’aoros è morto «quando non ancora…») [91], che assommano un considerevole numero di occorrenze nell’àmbito delle Grabinschriften; ecco allora l’aoros morto «prima di raggiungere il giorno fatale» (GVI 114,3, per un diciottenne), «prima della dolce vecchiaia» (GVI 130,2; cf. GVI 937), «prima di aver raggiunto il telos della dolce vita e dell’età» (GVI 231,3 = IG XIV 1796, per un bambino di tre anni), prima di aver mostrato i segni della propria maturità fisica (GVI 653; cf. GVI 1057,3), prima di «aver visto ciò che è gioia fra gli uomini» (GVI 667; cf. GVI 790), prima del matrimonio (GVI 804), «prima del fiore della giovinezza» (GVI 1272,4); ecco ancora l’aoros che non fa in tempo «a indossare la clamide» (GVI 119), che non riesce a «gustare la dolce vita» (GVI 1083,6), che non può «nemmeno lasciare un figlio al proprio sposo» (GVI 1366,6), per non citare che alcune fra le infinite variazioni sul tema della mors immatura. Il libro settimo della Palatina – la Spoon River Anthology dell’antichità, come usa dire [92] – non è meno generoso di esemplificazioni: dal giovane imberbe, ignaro di nozze e d’imenei (AP VII 334) al ragazzo «mai giunto all’efebia» (Antip. AP 467), dalla morte della piccola Teodota minyoros, «di vita breve» (Philit. AP VII 481), al trienne a cui ancora «non sono stati recisi i capelli» (AP VII 482), dalla ragazza okymoros, calata nella palude dell’Acheronte «prima delle nozze» (Anyt. AP VII 486; cf. AP VII 487-491) [93], alla quattordicenne ignara di parti (Agath. AP VII 568). In questa prospettiva, la morte è precoce perché fatalmente disgiunta da ogni riconoscibile telos, che – si badi bene – da altro non nasce che dalla tacita naturalizzazione di precise scadenze culturali: l’efebia, il matrimonio, il parto, l’adempimento del proprio ruolo professionale, e in breve tutto ciò che su un piano normativo societario statuisce la compiuta maturità di un individuo; di qui, paradossalmente, il carattere contra naturam della morte. Come sintetizzerà l’autore della Consolatio ad Apollonium, attribuita a Plutarco, i morti precoci meritano un lutto particolare «per non aver goduto di nessuno tra quelli che si ritengono [nenomismenon] i beni della vita» (113 b-c): beni stabiliti in base al nomos, alla convenzione culturale, che giustificano tuttavia – nella loro mancanza – la dichiarata innaturalità della morte. E tuttavia, in questa paradossale infrazione che è la morte ‘contro natura’ – infrazione, in realtà, alle leggi della cultura – il motivo eroico da cui siamo partiti continua a farsi sentire quale inevitabile rovescio del compianto. Motivo consolatorio, se si vuole, ma innanzitutto tentativo di restituire alla mors immatura un carattere di morte perfettamente kata horan, «conforme al tempo», anzi conforme a quel tempo che esprime il massimo apice della vitalità e della maturità individuale. Come si è espresso Seaford a proposito del mortal wedding tragico, «a transition effected by nature (death) is enclosed by the imagination within a similar transition effected by culture (marriage)» [94]. Di più, come abbiamo visto: una separazione ‘culturale’ è identificata a – e immaginariamente sostituita da – una separazione ‘naturale’, che proprio perciò rivela il suo carattere di motivo profondamente culturalizzato. Il quadro che si è potuto tratteggiare per le virgines o agamoi (indifferentemente progamoi o neogamoi, come si è visto) non muta se applicato a iuvenes e infantes. E così, al modulo della «prin-Konstruktion», si affianca spesso e volentieri il modulo della «arti-Konstruktion» (l’aoros è morto «non appena…») [95]. Ecco allora l’insistente riferimento a una giovinezza da poco raggiunta, sia essa nella forma di una maturità fisica che ha dato i suoi primi segni, o di un exploit agonistico che attesta la pienezza vitale dell’individuo, o di un rito liminale quale l’efebia, che sancisce il termine della fanciullezza (e.g. GVI 385, 648, 1154, 1155, 1277, 1420, 1519, 1555, 1969, 1997, 2081, etc.) [96]; oppure, nel caso di giovani donne, ecco il tipo ricorrente della primipara (prototokos: e.g. AP VII 528) o dell’arti tekousa («che ha appena generato»: e.g. AP VII 167), che promuove la perfetta coincidenza della mors immatura con un telos femminile quale il parto (e.g. AP VII 166-168, 462-465, 528), sino all’ironico svolgimento del tema in Leonida e Antipatro di Sidone (AP VII 163, 164, 165), dove la giovane Prexò (con derivazione da prasso, «faccio, compio»), figlia di Callitele («dal buon telos»), lascia un bambino omonimo del nonno, con chiara ideazione kat’antiphrasin dei nomi parlanti. Più in generale, della morte precoce può essere espressamente predicata la concomitanza con «il più bel fiore dell’età» (AP VII 157,3s., per un trentaseienne); la clamide, segno dell’avvenuta maturazione, può essere attribuita all’atto stesso della morte, secondo un celebre componimento di Meleagro (AP VII 468,1s.); una carriera professionale può essere stroncata «all’apice dell’età e dell’arte» (AP VII 558) [97]. Come la giovane agamos ottiene le sue nozze nell’Ade, così l’infante «maturerà la sua giovinezza [hebaseis heban]» sulle rive dell’Acheronte (AP VII 482,5s.). Sono tutti casi, questi, pur vari per contenuto e per età, che dimostrano come il motivo della mors immatura possa essere tacitamente riannesso al dominio della morte eroica, tramite l’opportuna sottolineatura di un telos da poco raggiunto, e per lo più coincidente con il tempo stesso della morte. Appaiono perciò significativi, benché segnati da una chiara ispirazione religiosa, i casi in cui gli aoroi sono tout court identificati con heroes hagnoi, «santi eroi», come accade ai tre fratellini di GVI 1157 (cf. vv. 1 e 11; cf. inoltre GVI 1162): è l’oraziana virtus recludens immeritis mori caelum (carm. III 2,21). E infatti, in questa prospettiva, le stereotipate attribuzioni di qualità straordinarie ai giovani defunti sembrano andare ben al di là di ogni ovvio nil nisi bene [98], configurandosi piuttosto quale chiaro tentativo di tratteggiare sotto specie eroica il carattere dell’aoros; ecco allora il giovane eccezionale per le sue virtù (GVI 48 = IG XII 447), per la sua precoce sapienza (GVI 422), per la sua grazia, per la sua bellezza o per la sua temperanza (GVI 560, 668, 1668, 1681, 1900), per un’anima «degna di un’età canuta» (GVI 591), per una saggezza quasi senile (GVI 662) che può suscitare l’invidia degli dèi (GVI 705); o ancora per le sue doti artistiche (GVI 675), per il suo carattere (GVI 719, GVI 796 = AP VII 612, GVI 800), per la sua nobiltà e per la sua fama (GVI 1121), qualora – con motivo persefoneo – la straordinaria bellezza di una giovinetta non induca l’Ade stesso al rapimento (GVI 1553) [99]; il giovane morto aoros è per essenza panaristos, «sommamente eccellente» [100]: e non stupisce dunque che il rinvio agli eroi epici emerga talora esplicitamente, pur nella forma iperbolica del motivo – già iliadico, come abbiamo visto [101] – dell’occidit et… (Hor. carm. I 28,7s.; cf. e.g. GVI 1197,11-13, con riferimento ad Achille; GVI 1249,15-22; GVI 1308,9s.); anche per questa via, il modello della morte eroica si insinua attraverso i clichés della morte precoce, illuminando retrospettivamente la vita e i caratteri dell’aoros proprio alla luce della sua prematura dipartita. «Quasi a nessuno – dirà Seneca a Marcia – toccano gioie grandi e durature: non permane e non giunge sino alla fine se non una pigra prosperità; gli dèi immortali, che non ti dovevano dare a lungo tuo figlio, te lo diedero subito [statim] quale può realizzarsi solo in una lunga vita» (ad Marc. 12,3). Nella stessa direzione, del resto, va a ben vedere la serie dei «negativ tröstende Gedanken», secondo la classificazione di Griessmair [102], che sotto tale titolo rubrica i riferimenti di circostanza agli infiniti dolori che la morte ha risparmiato all’aoros; una morte che evita al giovane i kaka o la kakotes connessi all’età adulta e alla vecchiaia, secondo un modulo che rinnova la celeberrima sentenza del Sileno (esemplarmente rappresentata da un corale di Sofocle, Edipo a Colono, 1211-1238): cf. e.g. GVI 136, GVI 382, GVI 590, GVI 593, GVI 648,9-10, o, con svolgimento assai ampio e con esplicita funzione consolatoria, GVI 1198 [103]. Paradigmatico lo svolgimento del motivo in GVI 957 = AP VII 308:

Callimaco, cinquenne, senza alcuna pena nel cuore,
l’Ade impietoso mi ha portato via.
Tu non mi piangere: ho vissuto poco della vita,
ma pochi dei dolori della vita.

Ma ancor più netto appare il legame con il tema della bella morte, e con la strutturale identificazione giovinezza-telos della vita, laddove siano espressamente predicati i dolori connessi a una vita troppo lunga, e fatto oggetto di makarismos chiunque muoia prematuramente (GVI 1298), prima di toccare l’«odiosa vecchiaia» (GVI 2020), e in ogni caso evitando lo «sconcio» che l’età senile procura alla «giovinezza» (GVI 1637, di tema militaresco, con perfetta sintesi dei motivi sin qui censiti) [104].

Massiccio sarà il recupero di tali temi da parte della letteratura consolatoria [105], ivi compreso il motivo da cui abbiamo preso avvio, e sul quale conviene ora concludere: «muor giovane colui che al cielo è caro» (Sent. 583 Jaekel). Tale motto gode di ampia fortuna tanto tra i filosofi e tra i retori ([Plat.] Ax. 367b, Cic. ad fam. V 16,3; Sen. ad Marc. 22,1, ad Pol. 9,9) quanto nel formulario delle Grabinschriften, come mostra ad es. un’epigrafe di Tegea del II/III sec. (GVI 130) [106]:

tu vedi la tomba, o straniero, di Onasicle, giunto nell’Ade
ben prima della sua dolce vecchiaia.
Ma un motto degli antichi dice: caro agli immortali
colui che giovane va in mezzo ai morti.

Troviamo qui qualcosa che va ben oltre il semplice paralogismo consolatorio secondo cui «siccome l’uomo “caro agli dèi”, omerico, è strappato dagli dèi al mondo umano, tutti i giovani strappati al mondo devono essere “cari agli dèi”» [107]: sulla base delle considerazioni sin qui svolte, si vede bene come il motivo della mors immatura, attraverso le sue numerose declinazioni tematiche, continui a riproporre un modello che identifica apice della vita e conseguimento della morte, nell’ambigua concettualizzazione di un telos che è tanto culmine quanto termine, tanto compimento quanto dissoluzione. Detto altrimenti, il motivo della mors immatura dà prova di costituire un ‘mito’ in accezione strettamente lévi-straussiana, nella misura in cui esso mira a ricomporre e a sintetizzare, tramite il ‘mediatore’ mitico della giovinezza, le nozioni culturalmente contraddittorie della vita e della morte [108]. Una giovinezza che può contare, a questo fine, su alcuni dei suoi caratteri più duraturi dal punto di vista ideologico e rituale: in primis la sua identificazione con l’apice – il «fiore» o il telos – della vitalità umana, e in seconda istanza la sua condizione stabilmente liminale, verificabile in un arco cronologico che dai kouroi omerici conduce almeno sino ai sistemi educativi (e cioè iniziatici) di età classica ed ellenistica [109].

La mors immatura è dunque – come la sottesa metafora vegetale esprime – una morte ‘innaturale’? Risponderà negativamente Marco Aurelio (IV 1,51), dopo un’articolata riflessione sulla lunghezza della vita: «Percorri sempre la via più breve; la via più breve è la via secondo natura». Non si dirà cosa troppo diversa affermando che la «via più breve» è anche la via secondo cultura: e che laddove una natura profondamente culturalizzata lamenta il carattere innaturale della mors immatura, celebra la propria festa una cultura che persegue con coerenza il tentativo di trovare una sintesi compiuta, per quanto estremistica, tra vita e morte: una sintesi affidata appunto alla figura mitizzata dell’aoros. «Et rose elle a vécu ce que vivent les roses», scriverà Malherbe in una delle più celebri consolationes dell’età moderna (Consolations à M. Du Perier, vv. 15s.), indebitata non solo con un preciso ipotesto antico – il lamento per la puellula di Magonza (CLE 216 = CIL XIII 7113) – ma anche e soprattutto con una linea ideologica che nella vulgata metafora vegetale cela, sotto l’immagine di una natura ora tradita, ora compiuta, il perfetto conseguimento di un miraggio culturale. Come si sa, il Romanticismo – il «tempo delle belle morti», scrive nel 1825 Caroly de Gaïx – farà il resto [110]. Ma sin dalla più lontana grecità le coordinate del motivo appaiono stabilite. In altri termini: dal punto di vista della cultura, non si muore che giovani.

 

Note

[1] Fra i molti possibili mi limito a segnalare J.H. Wilzink, Mors immatura, «VigChr» III, 1949, pp. 107-112; P. Boyancé, Funus acerbum, «REA» LIV, 1952, pp. 275-289; J. Ter. Vrugt-Lenz, Mors immatura, diss. Groningnen, Wolters, 1960 (questi tre particolarmente interessati all’aspetto religioso ed escatologico); E. Griessmair, Das Motiv der mors immatura in den griechischen metrischen Grabinschriften, Innsbruck, Wagner, 1966; H. Lohmann, Das Motiv der mors immatura in der griechischen Grabkunst, in AA.VV., Kotinos. Festschrift für Erika Simon, hrsg. v. H. Froning et al., Mainz, Zabern, 1992, pp. 103-113 (limitati alla produzione epigrafica); AA.VV., Morir giovani. Il pensiero antico di fronte allo scandalo della il morte prematura, a c. di L.F. Pizzolato, Milano, Paoline, 1996 (con particilare riguardo alla tradizione filosofica e alla letteratura consolatoria); J.N. Kazazis, il Mors immatura as Mature Art: from the Subliterary to the Literary Ancient Greek Funerary Epigram, «EEThess(philol)» VI, 1996-1997, pp. il30. Una raccolta commentata dei testi epigrafici è in A.M. Vérilhac, Paides aoroi. Poésie funéraire. Texte critique et commentaire des épigrammes, I-II, Athènes, Akademia Athenon, 1978, 1982.

[2] Cf. in particolare P. Jehn, Ernst Robert Curtius: Toposforschung als Restauration, in AA.VV., Toposforschung. Eine Dokumentation, Frankfurt a. M., Athenaeum, 1972, pp. VII-LXII; preziosa anche la miscellanea curata da M.L. Baeumer, AA.VV., Toposforschung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buch­gesellschaft, 1973.

[3] Per la distinzione della Topica nei triplici assi del «Metodo», della «Griglia» e della «Riserva», cf. R. Barthes, La retorica antica, trad. it. Milano, Bompiani, 1980, pp. 76ss.

[4] G. Pozzi, Temi, topoi, stereotipi, in Letteratura italiana, III/1. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 391-442: p. 394.

[5] Per questa distinzione – che oppone in certo senso la concezione antica (aristotelica) del topos alla concezione contemporanea promossa da Curtius – si veda per es. W. Veit in Baeumer (Hrsg.), op. cit., p. 173.

[6] J.M. Lotman-B.A. Uspenskij, Tipologia della cultura, trad. it. Milano, Bompiani, 1975, pp. 50ss; per l’opposizione fra «culture del Libro Sacro» (o «testualizzate») e «culture del Manuale» (o «grammaticalizzate»), si veda anche U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, pp. 194ss.

[7] Per i possibili antecedenti epici dell’Achille il iliadico – e in partiillare per il rapporto fra l’Iliade e l’Etiopiade ciclica – si veda ora M.L. West, “Iliad” and “Aethiopis”, «CQ» n.s. LIII, 2003, pp. 1-14, con ampia bibliografia. In generale per il tipo dell’eroe effimero e per il rapporto tra l’eroe e la morte, si può consultare D.A. Miller, The Epic Hero, Biltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 2000, pp. 120-132; per un confronto con l’epica babilonese, cf. G.K. Gresseth, The Gilgamesh Epic and Homer,«CJ» LXX, 1975, pp. 1-18, A.B. Lord, Il cantore di storie, trad. it. Lecce, il Argo, 2005, pp. 297s.; V. Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero, Torino, Einaudi, 19982, pp. 312-318; per le evoluzioni del modello, utile K.C. King, Achilles. Pariligms of the War Heroilrom Homer to the Middle Ages, Berkeley, University of California Press, 1987.

[8] Di Benedetto, op. cit., pp. 298-311 (ma cf. in generale pp. 241-328); si veda inoltre L.M. Slatkin, The Power of Thetis. Allusion and Interpretation in the Iliad, Berkeley-Los Angeles, University of il California Press, 1991, pp. 17-52.

[9] Cf. in proposito M.G. Ciani, Destini di morte, «RCCM» XVI, 1974, pp. 113-130 e più recentemente R. Nickel, Euphorbus and the Death of Achilles «Phoenix» LVI, 2002, 215-233; fondamentale Di Benedetto, op. cit., pp. 271-297; acuto il lavoro di R.J. Rabel, Hippothous and the Death of Achilles, «CJ» LXXXVI, il 1990-1991, pp. 126-130, che individua in Il. XVII 288-303 un altro esempio istruttivo – fra i minori – di prolessi tematica. Più in generale si veda B. Heiden, Structures of Progression in the Plot of the Iliad, «Arethusa» XXXV, 2002, pp. 237-254.

[10] Cf. il canonico E. Rhode, Psiche, I. Culto delle anime presso i Greci, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 154s. e 163s. – ancora utilissimo per la raccolta dei dati e per il riconoscimento di alcune indubbie costanti cultuali – nonché A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1958, pp. 80s.; per una recente visione d’insieme sul culto degli eroi in Grecia si veda A. Snodgrass, Les origines du culte des héros dans la Grèce antique, in AA.VV., La mort, les morts dans les sociétés anciennes, sous la dir. de G. Gnoli et J.P. Vernant, Cambridge-Paris, Cambridge University Press-Maison des Sciences de l’Homme, 1982, pp. 107-119.

[11] Su questo punto si veda l’equilibrata posizione di Snodgrass, op. cit., pp. 114-116, che respinge con argomenti sensati – benché non decisivi – l’ipotesi di una priorità dell’epica sulla diffusione del culto eroico; consistenti residui della pratica cultuale nel testo omerico ha rintracciato G. Nagy, The Best of the Achaeans. Concept of the Hero in Archaic Greek Poetry, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1979.

[12] Secondo la definizione di W. Marg, Zur Eigenart der Odyssee, «A&A» XVIII, 1973, pp. 1-14: p. 10; cf. K. Reinhardt, Tradition und Geist im homerischen Epos, in Id., Tradition und Geist. Gesammelte Essays zur Dichtung, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1960, pp. 5-15: p. 13. Per una trattazione generale sulla morte in Omero si vedano E. Vermeule, Aspects of Death in Early Greek Art and Poetry, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1979, pp. 83-117, e J. Griffin, Homer on Life and Death, Oxford, Clarendon Press, 1980; utile anche S.L. Shein, The Mortal Hero. An Introduction to Homer’s Iliad, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1985, pp. 67-88.

[13] Cf. M. Heidegger, Essere e tempo, a c. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, p. 543, index s.v.

[14] Salvo diversa indicazione, le traduzioni utilizzate sono dell’autore.

[15] Cf. in proposito G.E. Duckworth, Foreshadowing and Suspense in the Epics of Homer, Apollonius, and Vergil, Princeton, Princeton University Press, 1933, p. 29, ripreso ora da Di Benedetto, op. cit., p. 299; Schein, op. cit., p. 129s.

[16] Su questo passo si vedano Di Benedetto, op. cit., pp. 302s.; Schein, op. cit., pp. 134-136; sulla paradossale morte di Eracle cf. ora H.A. Shapiro, Heros theos. The Death and Apotheosis of Herakles, «CW» LXXVII, 1983, pp. 7-18. Per il motivo consolatorio del «morì anche…» (qui alla sua prima occorrenza documentabile), cf. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 94.

[17] Si veda Di Benedetto, op. cit., p. 299 n. 4, per un elenco esaustivo dei passi iliadici che menzionano l’imminente morte di Achille.

[18] Cf. W. Pötscher, Hera und Heros, «RhM» CIV, 1961, pp. 306-309.

[19] Shein, op. cit., p. 69.

[20] Nagy, op. cit., pp. 69-83.

[21] Cf. Di Benedetto, op. cit., 309, nonché Nagy, op. cit., 94-117; sui passi menzionati si veda ora C.C. Tsagalis, Epic Grief. Personal Laments in Homer’s Iliad, Berlin-New York, De Gruyter, 2004, pp. 118-139.

[22] La coppia Achille/Ettore condizionerà, com’è noto, la coppia virgiliana Enea/Turno, intonata a un analogo modello di specularità e caratterizzata ancor più profondamente dal tema della consapevolezza: cf. V. Di Benedetto, La consapevolezza di morte in Turno, «RFIC» CXXIII, 1995, pp. 45-72.

[23] Di Benedetto, Nel laboratorio cit., pp. 303-309, 319-328. Uno sviluppo del tema edonistico adombrato dal libro XXIV si dovrà cercare nell’arte figurativa del VI sec. a.C.: in particolare, per i riusi della scena nella pittura vascolare arcaica cf. in sintesi B. Fehr, Kouroi e korai. Formule e tipi dell’arte arcaica come espressione di valori, in AA.VV., I Greci. Storia, cultura, arte, società. II/1. Una storia greca. Formazione, Torino, Einaudi, 1996, pp. 785-843: pp. 814-817.

[24] Così per es. J. Griffin, Homer and excess, in AA.VV., Homer, Beyond Oral Poetry. Recent Trends in Homeric Interpretation, ed. by J.M. Bremer et al., Amsterdam, Grüner, 1987, pp. 85-104. In questo senso va del resto anche il paragone con Eracle, che segna – ha osservato Nagy – un progressivo e apparentemente inarrestabile regresso dell’eroe a uno stadio di violenza arcaica: cf. Nagy, op. cit., p. 318; Schein, op. cit., pp. 135s.

[25] Si veda per es. T. Reucher, Die situative Weltsicht Homers. Eine Interpretation der Ilias, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1983, pp. 446s. ; cf. inoltre M. Finley, The World of Odysseus, London, Chatto & Windus, 1956, pp. 125-133.

[26] Così invece Di Benedetto, Nel laboratorio cit., p. 328.

[27] Si veda in proposito la recensione di M. Cantilena alla prima edizione del volume di Di Benedetto («RFIC» CXXIII, 1995, pp. 440-460) con la successiva replica del recensito, «RFIC» CXXV, 1997, pp. 235-252 (e ora Nel laboratorio cit., pp. 395-401). Cf. inoltre C.O. Pavese, Nell’officina di Omero e nel laboratorio di un critico letterario, «QUCC» n.s. XLIX, 1998, pp. 153-168.

[28] Per non fare che qualche esempio: altro è il precoce compianto di Tetide (Il. XVIII 50-64), altro la rabbiosa e indispettita replica a Ettore (Il. XXII 364-366), altro ancora il lungo discorso rivolto a Licaone, abilmente sospeso fra ira e compassione (Il. XX 99-113: cf. Schein, op. cit., pp. 147-149, e per i possibili presupposti rituali P. Wathelet, Homère, Lykaon et le rituel du mont Lycée, in AA.VV., Les rites d'initiation. «Actes du colloque de Liège et de Louvain-la-Nueve, 20-21 novembre 1984», éd. par J. Ries, Louvain-la-Neuve, Centre d’histoire des religions, 1986, pp. 285-297; M. Kitt, The Sacrifice of Lykaon, «Métis» VII, 1992, pp. 161-176); altro – infine – la partecipe ma già rasserenata risposta a Priamo (Il. XXIV 518-551).

[29] Per un quadro d’insieme sulle varietà ideologiche e storiche dell’'aristocrazia’ ellenica, si veda per es. G. Nagy, Aristocrazia: caratteri e stili di vita, in AA.VV., I Greci. Storia, cultura, arte, società, II/1, Torino, Einaudi, 1996, pp. 577-598; per il suo potere di rinnovamento ideologico, che tanto profondamente ha influenzato il senso comune democratico, cf. L. Gernet, Anthropologie de la Grèce antique, Paris, Maspero, 1968, pp. 342s.; L. Canfora, Il cittadino, in AA.VV., L’uomo greco, a c. di J.-P. Vernant, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 121-152: pp. 122s.

[30] Così, con equilibrio condivisibile, Griffin, Homer on Life cit., p. 100; cf. inoltre O. Taplin, The Shield of Achilles within the Iliad, «G&R» XXVII, 1980, pp. 1-21.

[31] Per un inquadramento dell’episodio entro la densa trama di rapporti intertestuali fra Iliade e Odissea, si veda P. Pucci, Odysseus Polytropos. Intertextual Readings in the Odyssey and the Iliad, Ithaca-London, Cornell University Press, 19952. Non è forse da trascurare il fatto che l’epiteto okymoroi, così tipicamente achilleo, risulti riservato nell’Odissea ai soli Proci, sotto forma di reiterato malaugurio (Od. I 266 = IV 346 = XVII 137)

[32] Mi riferisco in particolare a Griffin, Homer on Life cit., pp. 103-143: trattazione piena di acute osservazioni, ma per molti aspetti unilaterale.

[33] Griffin, Homer on Life cit., p. 96.

[34] Esemplare, da questo punto di vista, Shein, op. cit., pp. 70-72.

[35] Griffin, Homer on Life cit., p. 138.

[36] Su questo punto si può vedere per es. V. Leinieks, A Structural Pattern in the Iliad, «CJ» LXIX, 1973, pp. 102-107.

[37] Per questo distico reiterato (senz’altre occorrenze in Omero) cf. N. Loraux, Ebe et andreia: deux versions de la mort du combattant athénien, «AncSoc» VI, 1975, pp. 1-31: pp. 22s. Un parallelo si può trovare nell’immagine del defunto okymoros che, secondo una stele parlante macedone (I sec. d.C.), piange se stesso e il proprio «destino prematuro»: cf. GVI 429,3s. La giovinezza di Ettore è ribadita da Andromaca in Il. XXIV 725s.: «Sposo, giovane tu muori dalla vita, e me vedova / lasci nella reggia».

[38] Per gli sviluppo del motivo – che trova qui un’anticipazione arcaica per lo più ignorata – si veda infra, cap. 4.

[39] G. Murray, The Rise of the Greek Epic, Oxford, Oxford University Press, 19344, p. 206. Per i presupposti cultuali dell’Achille omerico si veda in generale Nagy, op. cit., passim. Per il nesso tra il kouros e il taglio dei capelli (keiro) tipico dei riti funebri, cf. DELG, s.v.

[40] J.P. Vernant, La belle mort et le cadavre outragé, in AA.VV., La mort, les morts cit., pp. 45-76 : p. 58.

[41] Per il ‘doppio dono’ e per la logica della compensazione, cf. per es. G.A. Gilli, Origini dell’eguaglianza. Ricerche sociologiche sulla Grecia an­tica, Torino, Einaudi, 1988, pp. 418ss.

[42] A. Brelich, op. cit., passim.

[43] Lo ha mostrato, a partire dal motivo del ‘doppio dono’ applicato al tipo dell’eroe/indovino cieco, G. Camassa, Il simbolismo del terzo occhio e la cecità dell’indovino greco, «QS» XVI, 1982, pp. 249-275.

[44] Basti un rinvio ad A.J. Greimas-J. Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, a c. di P. Fabbri, Firenze, La Casa Usher, 1986, s.vv. «acronia», «struttura», «temporalizzazione» (pp. 26, 347-351, 357s.); per il rapporto fra «ordine di successione cronologica» e «struttura intemporale» soggiacente, sono fondamentali i rilievi di C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, trad. it. Milano (Il Saggiatore) 1996, passim: cf. in proposito R. Barthes, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, in AA.VV., L’analisi del racconto, trad. it. Milano, Bompiani, 1969, pp. 5-46: pp. 23s.

[45] Vernant, op. cit., p. 53.

[46] Per i rapporti tra le diverse entità semantiche in gioco, si vedano ancora Greimas-Courtés, op. cit., pp. 275-278.

[47] Cf. Il. XIII 484, quindi – fra le molte occorrenze arcaiche – H.Hymn. Herm. 375, Hes. Th. 988 (cf. West, ad l.), Tyrt. fr. 10,28 W.2, Mimn. frr. 1,3 e 2,4 W.2, Theogn. 1007s. e 1070, Sim. fr. 8,6 W.2. Una concezione naturalistica (e per conseguenza una metaforizzazione a base vegetale) della giovinezza, sono espliciti nelle parole di Tetide citate sopra (Il. XVIII 52-64). Per una rassegna sulle metafore vegetali e floreali connesse alla giovinezza, si veda Vérilhac, op. cit., II, pp. 339-352.

[48] Su questo discusso passaggio si possono vedere A.-Capra–M. Curti, Semidei semonidei. Note sull’elegia di Simonide per la battaglia di Platea, «ZPE» CVII, 1995, pp. 27-32, e soprattutto G. Burzacchini, Note al nuovo Simonide, «Eikasmós» VI, 1995, pp. 21-38: p. 31.

[49] Loraux, op.cit. e Vernant, op.cit.; si vedano inoltre N. Loraux, La «belle mort» spartiate, «Ktema» II, 1977, pp. 105-120 ; Ead., Mourir devant Troie, tomber pour Athènes: de la gloire du héros a l’idée de la cité, in AA.VV., La mort, les morts cit., pp. 27-43; J.-P. Vernant, La «belle mort» d’Achille, in Id., Entre mythe et politique, Paris, Seuil, 1996, pp. 501-510.

[50] Gli argomenti – a mio avviso probanti – a favore di una divisione in due distinte elegie del fr. 10 W.2 (tramandato unitariamente da Lycurg. In Leocr. 107) sono sintetizzati da C. Prato, Tirteo. Introd., testo critico, testimonianze e comm., Roma, Edizioni dell’Ateno, 1968, pp. 81-86; cf. inoltre E. Degani in E. D.-G. Burzacchini, Lirici greci. Antologia, Bologna, Pàtron, 20052, pp. 85s.

[51] Per la documentazione relativa, si vedano i commenti di Prato, op. cit., pp. 93-102 e di Degani, op. cit., pp. 90-94. Importante al proposito G. Tarditi, Parenesi e areté nel corpus tirtaico, «RFIC» CX, 1982, pp. 257-276.

[52] Come osserva Prato, op. cit., p. 99, sulla scorta di O. Weber, il riuso omerico operato da Tirteo non è privo di una certa meccanica durezza: ciò che non lascia dubbi sulla priorità del luogo omerico. Cf. inoltre Degani, op. cit., p. 92.

[53] Cf. Vernant, La belle mort cit., p. 57; Prato, op. cit., p. 99.

[54] Vernant, La «belle mort» cit., p. 508.

[55] Trad. di A. Coppola, Padova, Marsilio, 1996. Per altre occorrenze del motivo, cf. per es. Gorg. fr. 6 D.-K. o Isocr. Archid. 108.

[56] «Quando non si ha immaginazione, morire è poca cosa, quando se ne ha, morire è troppo […]. Ero dunque il solo a sapermi immaginare la morte in quel reggimento? La preferivo tardiva, la mia di morte… Tra vent’anni… Trent’anni… Anche più in là, rispetto a quella che volevano darmi subito» (L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte, trad. it. Milano, Corbaccio, 1992, p. 27).

[57] Per i ben noti rapporti fra il testo di Mimnermo e la similitudine di Il. VI 145-149, basti il rinvio a Degani, op. cit., 99s.; cf. inoltre il commento di A. Allen, The Fragments of Mimnermus. Text and Commentary, Stuttgart, Steiner, 1993; per la fortuna secolare del motivo si veda ad es. D. Susanetti, Foglie caduche e fragili genealogie, «Prometheus» XXV, 1999, pp. 97-116.

[58] D. Babut, Semonide e Mimnermo, in AA.VV., Poeti greci giambici ed elegiaci. Letture critiche, a c. di E. Degani, Milano, Mursia, 1977, pp. 76-94: p. 88.

[59] Si veda in proposito A. Traina, Introduzione, in Seneca. Le consolazioni, a c. di A. T., Milano, Rizzoli, 19982, pp. 8-28: p. 21.

[60] Su cui cf. innanzitutto M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1984.

[61] Cicerone, Tuscolane I 94 (trad. di L. Zuccoli Clerici, Milano, Rizzoli, 1996); cf. L.F. Pizzolato, op. cit., 30-34, e per es. Cic. de fin. III 45s.; Sen. ben. V 17,6, ep. 73,14 e 74,27; Plut. Mor. 1061f. Per la concezione stoica della temporalità, cf. V. Goldschmidt, Le système stoïcien et l’idée du temps, Paris, Vrin, 19692 ; D. Pesce, La concezione stoica del tempo, «Paideia» XLVII, 1992, pp. 49-64.

[62] Per il rito funebre notturno destinato agli aoroi e per la sua ricorrenza in Seneca, cf. Boyancé, op. cit., p. 276 e passim. Per i presupposti, il contesto e i temi del De brevitate vitae, basti il rinvio all’Introduzione di A. Traina, Seneca. La brevità della vita, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 5-21, e, dello stesso, Seneca. La brevità della vita, con un’antologia di pagine sul tempo, Torino, Loescher, 19967; si vedano inoltre i saggi raccolti in AA.VV., Protinus vive. Colloquio sul De brevitate vitae di Seneca, a c. di I. Dionigi, Bologna, Pàtron, 1995. È significativo che proprio in questa linea consolatoria emergano immagini debitrici dell’eroismo bellico-agonistico, e.g. Sen. ep. 93,12: «forse il gladiatore ucciso la sera, al termine dello spettacolo festivo, è, per te, più felice di quello che è caduto a mezzodì? C’è qualcuno così stoltamente bramoso della vita da preferire di essere sgozzato nello spogliatoio che nell’arena?» (trad. di G. Monti, Milano, Rizzoli, 1999).

[63] Per il topos del punctum temporis, cf. Traina, Introduzione cit., pp. 9s.

[64] Ma per la datazione di Mimnermo si veda ora M. Sanz Morales, La cronología de Mimnermo, «Eikasmós» XI, 2000, pp. 29-52, che opta per una cronologia sensibilmente più alta.

[65] Per un inquadramento e un commento del carme si veda l’esaustiva trattazione di M. Noussia in Solone. Frammenti dell’opera poetica, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 315-325; sul frammento soloniano si sofferma, in questo stesso numero di «Griseldaonline», Matteo Martelli: http://www.
griseldaonline.it/
percorsi/
5martelli.htm
.
Per un’analisi del campo semantico di aoros, cf. Griessmair, op. cit., pp. 11-16.

[66] Alla polemica con Mimnermo si fa risalire di solito anche il fr. 20 W.2 = 26 G.-P.2, giustamente interpretato quale risposta a Mimn. fr. 6 W.2 = 11 G.-P.2: ma tale ‘risposta’ si spiega bene quale fenomeno di metapoiesis simposiale (cf. ora Noussia, op. cit., pp. 329s.), ciò che fra l’altro costringe ad assumere una notevole cautela nell’ipotizzare che il patronimico del v. 3 (variamente corretto dagli editori, specie sulla base di Suda m 1077, che può essere però frutto di banale autoschediasmo) si riferisca allo stesso Mimnermo.

[67] Cf. Noussia, op. cit., pp. 316s.; per il valore della vecchiaia in Solone, si veda G. Burzacchini, Lirica arcaica (I). Elegia e giambo. Melica monodica e corale (dalle origini al VI secolo a.C.), in AA.VV., Senectus. La vecchiaia nel mondo classico, I. Grecia, a c. di U. Mattioli, Bologna, Pàtron, 1995, pp. 69-124: pp. 75-78.

[68] Pizzolato, op. cit., p. 12.

[69] Per Imeneo, cf. Pind. fr. 128c M. = 56 C.F., con il commento di M. Cannatà Fera, Pindarus. Threnorum fragmenta, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990, pp. 136-156; per Ialemo, cf. ibid., p. 128; per la genealogia (assai variabile) di Lino, Imeneo e Ialemo, ibid., pp. 150-153.

[70] M. Detienne, I giardini di Adone, trad. it. Torino, Einaudi, 1975.

[71] Brelich, op. cit., p. 90.

[72] Lycophr. 859 e scolio ad l., con il commento di V. Gigante Lanzara, Licofrone. Alessandria, Milano, Rizzoli, 2000, p. 346; Paus. VI 23,3, con il commento di G. Maddoli et al., Pausania. Guida della Grecia. VI. L’Elide e Olimpia, Milano, Mondadori-Fond. L. Valla, 1999, p. 382.

[73] R. Barthes, Poteri della tragedia antica, in Id., Sul teatro, trad. it. Roma, Meltemi, 2002, pp. 51-59: p. 53.

[74] I contatti fra i moduli omerici relativi alle morti dei guerrieri minori e il formulario dei Grabepigrammen è stato talora osservato: cf. per es. K. Reinhardt, Die Ilias und ihr Dichter, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1961, p. 430; Griffin, op. cit., pp. 141-143.

[75] Da un’analisi di tale distico prende avvio la riflessione di J. Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1991. Si vedano inoltre Griessmair, op. cit., pp. 63-65; G. Daux, Sur quelques stèles funéraires grecques d'époque archaïque ou classique, «ArchClass» XXV-XXVI, 1973-1974, pp. 238-249 e M. Stieber, Phrasikleia’s Lotuses, «Boreas» XIX, 1996, pp. 69-99.

[76] Su questa linea già Griessmair, op. cit., p. 64.

[77] Per Eschilo, si veda R. Rhem, Marriage to Death. The Conflation of Wedding and Funeral Rituals in Greek Tragedy, Princeton, Princeton UP, 1994, pp. 43-58; e già l’ottimo lavoro di R. Seaford, The Tragic Wedding, «JHS» CVII, 1987, pp. 106-130: pp. 127s. Per Euripide, E. Contiades-Tsitsoni, Euripides Pha. 227-244, Tro. 308-341, Iph. Aul. 1036-1079, «ZPE» CII, 1994, pp. 52-60.

[78] In particolare sul v. 239 e sui valori simbolici delle «vesti di croco» indossate da Ifigenia, si veda Rhem, op. cit., p. 50s. e da ultimo F. Delneri, Cassandra e Ifigenia (Aesch. Ag. 1121-1124; 231-247), «Eikasmós» XII, 2001, pp. 55-62, con ampia bibliografia.

[79] Cf. Seaford, op. cit., pp. 108-110.

[80] Per un inquadramento del motivo all’interno della tragedia, cf. Rhem, op. cit., pp. 59-71 e ora M. Griffith, Sophocles. Antigones, Cambridge, Cambridge UP, 1999, pp. 51-54, con bibliografia.

[81] Si confronti questa triplice serie di alfa privativi con analoghi moduli funerari censiti da Griessmair, op. cit., p. 75.

[82] Seaford, op. cit., pp. 120s.; Rhem, op. cit., p. 65.

[83] Per un esaustivo commento ai due testi si veda C. Neri, Erinna. Testimonianze e frammenti, Bologna, Pàtron, 2003, pp. 422-427 e 433-438. Per la morte precoce di Erinna – a sua volta aoros, con tipico cortocircuito associativo autore/personaggio – cf. ibid., pp. 51-53.

[84] T. Szepessy, The girl who died on the day of her wedding, «AAntHung» XX, 1972, pp. 341-357: p. 347. Il lavoro è assai utile anche per una raccolta del materiale epigrammatico letterario; per la fortuna del motivo nell’àmbito delle epigrafi funerarie si veda invece Griessmair, op. cit., pp. 63-75, con ampia messe d’esempi.

[85] Cf. le celebri tirate di Deianira in Soph. Tr. 141-152 (commento dettagliato in M. Davies, Sophocles. Trachiniae, Oxford, Clarendon Press, 1991, pp. 87-92) e di Medea in Eur. Med. 213-266 (commento dettagliato in D.J. Mastronarde, Euripides. Medea, Cambridge, Cambridge UP, 2002, pp. 205-217). In generale, sulle affinità tra rito matrimoniale e rito funebre si vedano Rehm, op. cit., pp. 3-42, con ampia documentazione, e Seaford, op. cit., pp. 106s.,113s.; per un esempio dell’uso ambiguo di kedos, ibid., p. 126.

[86] C. Bérard, La condizione delle donne, in AA.VV., La città delle immagini. Religione e società nella Grecia antica, trad. it. Modena, Panini, 1988, pp. 79-96: p. 95.

[87] Cf. e.g. GVI 658, 1162, 1238, 1551, 1989; ulteriore documentazione in Seaford, op. cit., p. 106 n. 11.

[88] Per l’uso ambiguo di telos applicato alla morte e al matrimonio, cf. Seaford, op. cit., p. 114. telos ho gamos, «il matrimonio è un telos», spiega una ricorrente formula antica (e.g. Hesych. d 2184, p 3974 L.; Phot. p 464; Suda t 271).

[89] Su questa, e sull’ancor più netta tipologia offerta da Sen. HF 849-857 (virgines, ephebi, infantes), si veda Boyancé, op. cit., p. 282.

[90] Cf. in proposito L. Battezzato, Il monologo nel teatro di Euripide, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1995, pp. 153-155.

[91] Si veda Griessmair, op. cit., pp. 16s.; cf. inoltre Vérilhac, op. cit., II, pp. 153-173, con ampia casistica.

[92] Per i rapporti fra AP VII e l’opera di E.L. Masters, cf. per es. S. Simone, Le fonti classiche di Spoon River Anthology, «AFMB» XI, 1972, pp. 347-373.

[93] Per l’epigramma di Anite e per i motivi in esso adibiti, si veda il commento di D. Geoghegan, Anyte. The Epigrams, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 65-71, e in part. p. 67 per la fortuna dell’aggettivo okymoros.

[94] Seaford, op. cit., p. 106.

[95] Cf. ancora Griessmair, op. cit., p. 17.

[96] Ulteriore documentazione in Griessmair, op. cit., pp. 53-62.

[97] Per la topica della ‘coincidenza’, cf. anche Vérilhac, II, op. cit., p. 87.

[98] De mortuis nil nisi bene: per la fortuna del motto si veda R. Tosi, Dizionario delle sentenze greche e latine, Milano, Rizzoli, 2000, p. 284.

[99] Per tutti questi motivi, un più ampio censimento è fornito da Vérilhac, op. cit., II, pp. 3-15, 18-25, 35-42, che tuttavia si limita a sottolinearne la funzione eulogistica. «Vinse molta bellezza acerba morte» (Petrarca, RVF 323,11; cf. 325,111s.), per non citare che uno degli innumerevoli esempi successivi.

[100] Cf. Vérilhac, op. cit., pp. 22-25, per la topica della perfezione.

[101] Cf. supra, n. 16. Per il topico paragone con gli eroi, cf. Vérilhac, op. cit., II, pp. 26-28.

[102] op. cit., pp. 97-101; cf. anche Pizzolato, op. cit., p. 18.

[103] Cf. inoltre Vérilhac, op. cit., II, pp. 15-18.

[104] Si veda ancora Griessmair, op. cit., p. 98.

[105] Una buona rassegna in Pizzolato, op. cit., pp. 29-44, e in Vérilhac, op. cit., II, pp. 208-247.

[106] Cf. inoltre e.g. GVI 961, 1329, 1646, 2003, nonché Griessmair, op. cit., pp. 101s. e Vérilhac, op. cit., II, pp. 225-227.

[107] Pizzolato, op. cit., p. 30.

[108] Per questa prospettiva sulla funzione dei miti, si veda C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 231-261, con il commento di F. Remotti, Lévi-Strauss. Struttura e storia, Torino, Einaudi, 1971, pp. 193-202.

[109] Per questi argomenti si vedano in sintesi le trattazioni di G. Cambiano, Diventare uomo, in AA.VV., L’uomo greco cit., pp. 87-120, e di A. Schnapp, L’immagine dei giovani nella città greca, in AA.VV., Storia dei giovani, a c. di G. Levi e J.-C. Schmitt, I. Dall’antichità all’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 3-53. Di una originale evoluzione della ‘liminalità’ giovanile si occupa D. Allegro, Ai margini del potere: la gioventù nella poesia trobadorica, in questo stesso numero di Griseldaonline.

[110] Per una sintesi, si vedano il classico M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, trad. it. Firenze, Sansoni, 1988, P. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 479-555 e M. Vovelle, La morte e l’Occidente, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 514-540.