Robert Graves - Mitologia junghiana

Traduzione e cura di Adil Bellafqi

Introduzione

di Adil Bellafqih

 

Sul quinto volume dell’Hudson Review del 1952 appare un saggio di Robert Graves intitolato Mitologia junghiana.

All’epoca Graves si è già affermato come uno dei maggiori (e prolifici) poeti inglesi. Talento poliedrico, si è cimentato nella stesura di romanzi storici che gli hanno garantito un successo internazionale (Io, Claudio su tutti). L’interesse di Graves per la cultura classica non si limita alla narrativa (che considera perlopiù un mezzo utile a sostentarsi come poeta) ma si esprime appieno nella mitografia. Nel ’55, infatti, pubblicherà il ponderoso I miti Greci, ma già nel ’48, in una scrittura febbrile durata poche settimane, dà alla luce forse la sua opera più affascinante, La dea bianca, un’indagine storico-poetica sulle radici mitologiche della poesia stessa – e, di riflesso, sulla fonte primigenia del proprio processo creativo.

Mitologia junghiana si inserisce in questo quadro come una puntuale critica allo sterile (e «privo di humor») approccio psicoanalitico ai miti greci – e, più in generale, a tutta la letteratura. Da un lato Graves ravvisa il dogmatismo dei freudiani avvitati sull’interpretazione in chiave sessuale dei racconti mitologici, dall’altro si scaglia contro un testo a quattro mani di Carl Jung e Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia. È proprio in questo secondo obiettivo critico che il saggio di Graves esprime tutta la sua pregnanza, anticipando in parte i contenuti che integreranno I miti Greci degli anni successivi.

Jung considera i miti un’espressione narrativa degli archetipi dell’inconscio collettivo. A differenza di Freud, per cui l’inconscio è vincolato alla sfera individuale, Jung («sulla scia di Carus, Fechner, James e Wundt», come ricorda Graves) postula l’esistenza di uno strato ancora inferiore dell’architettura inconscia, una dimensione atemporale e collettiva i cui contenuti non sono più i “complessi” – quello edipico, per esempio, come nel caso dell’inconscio freudiano –, ma gli “archetipi”. Un archetipo è un’immagine primordiale e preesistente, collettiva e condivisa da tutti gli esseri umani di tutte le epoche che, di volta in volta, si esprime perlopiù creativamente in diverse forme artistiche e nei sogni. In questo quadro i miti, i racconti popolari e (almeno in parte) le fiabe, si configurerebbero come «gettiti» dell’inconscio collettivo infiorettati in narrazioni contestuali al periodo storico in cui sono raccontate. Uno studio «scientifico» della mitologia dunque si può assimilare a uno scavo archeologico nella psiche collettiva che ha partorito questo o quell’altro mito, alla caccia degli archetipi celati dietro la narrazione. Secondo questo approccio, per esempio, l’archetipo del “Vecchio saggio” potrebbe essersi manifestato sia in Zeus che in Mago Merlino e, perché no, perfino in Gandalf il Grigio.

Poiché collettivi, la radice dei racconti mitologici è la medesima: tale assunto permette a Jung di porre sullo stesso piano miti di tempi e culture anche lontanissime (all’epoca del saggio di Graves Jung si è già occupato di mitologia orientale nel Segreto del fiore d’oro) i quali devono essere necessariamente scaturiti dalla medesima fonte inconscia. Lo stesso principio analitico è applicabile tanto alla mitologia quanto all’alchimia e alla poesia, ed è proprio su questo punto nodale che Graves attacca il sistema «ermetico» di Jung.

Pur manifestando un approccio scientifico alla materia, infatti, secondo Graves Jung e Kerényi snaturano la limpidezza della mitologia intorbidendola con argomenti di natura psicologica che non tengono conto della realtà storica degli originali racconti “figurati” da cui si originano i miti, cioè brevi narrazioni politico-rituali assimilabili per concisione alle vignette a fumetti. Il presupposto secondo cui tutti i miti sarebbero riflessi inconsci spinge Jung a sovrainterpretare in chiave analitica racconti che, più semplicemente, sarebbero elaborazioni successive di brevi storie (antecedenti al mondo ellenico) la cui origine non ha nulla di psicologico: in questo senso il parallelo che Graves fa con le vignette è pregnante poiché chiunque, dato il contesto, riconosce immediatamente i simboli stilizzati di una striscia a fumetti, senza che necessariamente dietro il racconto figurato si celi qualche arcano psichico. Ignorare l’origine storica dei miti (e le differenze culturali, come quelle tra mitologia greca e cinese) genera una serie di errori che Graves attribuisce al peculiare fenomeno di iconotropia, l’interpretazione errata (accidentale o deliberata) di figure sacre e drammi rituali. Kerényi stesso, pur essendo a sua volta un mitografo, nel ricostruire la logica dei miti attraverso la lente della psicologia junghiana ne deforma il senso profondo. Riprendendo l’esempio di prima, vedere in Zeus l’archetipo del “Vecchio saggio” sarebbe un errore poiché, sostiene Graves, pur essendo al vertice del Pantheon Olimpico, il Padre degli dèi non era per nulla saggio – la saggezza, infatti, era prerogativa femminile ed erano dee come Atena a concederla ai veggenti come Tiresia; in questo senso, l’immagine di Zeus con la barba bianca potrebbe davvero essere vista in retrospettiva più come la vignetta di un fumetto che un archetipo.

Graves ammette che certi racconti primordiali possano avere una genesi inconscia, ma lo stesso non si può dire della mitologia greca la cui origine storica è chiarissima o, se non altro, lo diventa una volta riorganizzato il disordinato corpus di narrazioni pervenute fino a noi; e forse è proprio dal presupposto seminale di questo saggio che Graves ha iniziato la meticolosa catalogazione culminata nei Miti Greci, allo scopo di eliminare i fenomeni iconotropici  e restituire alla mitologia la sua essenza.

Data la natura trasversale, il saggio di Graves può suscitare l’interesse tanto del poeta quanto dell’analista. Mescolando taglienti argomentazioni a una cultura enciclopedica, Mitologia junghiana emerge come un interessante (e per certi versi feroce) terreno di confronto tra due approcci divergenti alla mitologia che, forse, finiscono col rivelarsi essi stessi nuove, personali mitologie – La dea bianca da un lato e, parafrasando il titolo di un libro di James Hillman, Il mito dell’analisi dall’altro.

 

Robert Graves

 

Mitologia junghiana

(Hudson Review, V, 1952)

 

Mai discutere storicamente di miti greci con freudiani e junghiani. Nessuno degli adepti di ambo le fedi riesce a reagire in più di un solo modo all’argomento.

Mai, per esempio, provare a convincere un medico freudiano che, nella storia originale su cui è basata la teoria di Freud del Complesso Edipico, Edipo non uccide suo padre né giace con la madre – poiché Laio era, infatti, il predecessore reale di Edipo, non il progenitore, e Giocasta la Tebana rappresentante della dea-Madre pre-ellenica, non la sua progenitrice. Costui è programmato per rispondere: “Ma possiamo provare attraverso innumerevoli casi clinici che tutti i bambini sono innamorati delle proprie madri e hanno un desiderio represso di uccidere il padre, che è ciò che il mito inconsciamente svela”.

E mai mostrargli un vaso greco dipinto dell’Edipo accecato che si sorregge a un bastone, a meno di non essere preparati a sentirlo concionare in circolo:

 

“Il cieco Edipo si regge a un bastone;

il bastone è un simbolo fallico;

dunque la cecità simbolizza la castrazione.

 

O ancora:

 

Un bastone è un simbolo fallico;

la cecità simbolizza la castrazione;

dunque il cieco Edipo si regge a un bastone.

 

E:

 

La cecità simbolizza la castrazione;

Il cieco Edipo si regge a un bastone;

Dunque il bastone è un simbolo fallico.

 

E questo è il motivo per cui i bambini di quattro anni amano giocare con i bastoni e rivela (inconsciamente) una patologica paura della castrazione – così come dimostrato da innumerevoli casi clinici”.

Il sillogismo freudiano è a tenuta stagna e privo di umorismo, e un medico si rassomiglia a tutti gli altri perché, per qualificarsi come tale, deve anzitutto sottomettersi alla psicoanalisi e approvarne tutte le bizzarre scoperte. L’accettazione credo quia absurdum di questa teoria da parte di migliaia di medici qualificati è una ragguardevole caratteristica della nostra epoca; ma Freud è stato un pioniere nel campo della psicoterapia pratica e ora il freudismo organizzato è diventato un interesse costituito, rispettabilmente autorevole, promosso dallo stato in tutto il mondo Occidentale; così, anche coloro che non ci credono anima e corpo, ne accettano comunque il valore pragmatico. L’infiltrazione freudiana nella critica letteraria è stata disastrosa, se non altro perché la teoria è logicamente inaccettabile date le premesse indimostrabili. Scrittori che hanno tradito i propri professati standard letterari si fanno venire un crollo di nervi, consultano un analista, riguadagnano fiducia in loro stessi in quanto geni e tornano alla carica con un nuovo, splendido, vocabolario gergale.

Non è generalmente riconosciuto come Freud (nel suo lavoro sul simbolismo dei sogni, scissione di personalità e simili) stia a Gottlieb Schubert – mio bisnonno materno, sul quale i suoi primi scritti sono basati – più o meno nello stesso modo in cui Charles Darwin sta ad Abbé Lamark. Entrambi hanno rinnovato un concetto del predecessore aggiungendogli qualche controversa stranezza – Freud, “la Libido Infantile”; Darwin, “la Selezione Naturale” – e sono stati così energici nel promuoverle da fondare una personale Scuola, sicché Darwinismo e Freudismo ora sono popolari sinonimi per “teorie generali dell’evoluzione” e “meccanismo dei sogni”.

Gli junghiani hanno avuto meno successo, poiché la nostra è un’epoca di anime malate in contrasto con il loro ambiente e Jung ha sempre mostrato più interesse nella psicologia di gruppo rispetto ai casi individuali. Jung considera i miti come un irreprimibile getto di immaginazione che emerge dalla primitiva mente collettiva nella quale i simboli mutano costantemente, come le facce in un sogno. Il lavoro di Jung è essenzialmente basato su quello di Schubert (in particolare le romantiche speculazioni riguardo l’inconscio collettivo) sulla scia di Carus, Fechner, James e Wundt. Anch’egli ha organizzato un sistema psicologico impermeabile e privo di senso dell’umorismo sul quale assume una posizione irremovibile; sebbene recentemente giri voce che ne stia emendando parti importanti in lezioni segrete per pupilli selezionati ai quali è vietato prendere appunti.

Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia contiene contributi alterni di C. Kerényi, un pio discepolo ungherese di Jung, e di Jung stesso. Eppure il titolo è smentito nel testo: entrambi gli autori condannano la follia di qualunque tentativo di approccio razionale alla mitologia. Kerényi, sebbene pubblichi da tempo trattati psicologici con titoli come Apollo, Hermes e Mnemosyne, ha più dimestichezza con i racconti popolari ungheresi e finlandesi rispetto alla mitologia classica – argomento del tutto differente – con cui cerca di metterli in relazione. Nel libro in esame Kerényi ha preparato il materiale per il commento di Jung, non prima averlo parafrasato secondo principi junghiani – sebbene in una recente lettera al supplemento letterario del Times di Londra abbia sorprendentemente affermato che: “le idee e le scoperte del professor Jung non hanno giocato alcun ruolo nella mia vita nel 1939, quando ho scritto quei saggi”.

I miti non sono né inaffidabili né fantasiosi: possono essere definiti come l’equivalente, in forma di racconto, di un’abbreviazione figurata usata anticamente per fini religiosi o politici. Una vera scienza della mitologia inizierebbe con la decifrazione dei simboli usati in tali abbreviazioni nei diversi periodi della storia o della preistoria.

L’abbreviazione figurata non è, tuttavia, una tecnica necessariamente primitiva; è ancora ampiamente utilizzata, specialmente nei giornali a fumetti. Alcuni anni fa, nell’introduzione del mio Vello d’oro, scrissi che la poesia Bryan, Bryan, Bryan di Vachel Lindsay merita l’attenzione di tutti gli studiosi di mitologia greca. Rievocando le emozioni adolescenziali provate durante la campagna elettorale di William Jennings Bryan per la presidenza degli Stati Uniti nel 1896, Lindsay mescola dichiarazioni autobiografiche a un linguaggio figurato preso in prestito dai vignettisti democratici:

 

In un cappotto come un diacono

In un nero cappello Stetson

Ha flagellato gli Elefanti plutocrati

Con filo spinato dal Platte…

… plutocrati…

Con i segni del dollaro sui cappotti

E ghette ai piedi.

 

Questo è un semplice mito che anche un inglese può decifrare. È chiaro che McKinley, Hanna e i leader del partito repubblicano sono stati al più flagellati verbalmente da Bryan; che l’Elefante è l’emblema del partito repubblicano; e che il filo spinato rappresenta gli interessi di voto degli allevatori di bestiame del Sudovest – il fiume Platte scorre nel Nebraska di Bryan. È chiaro, inoltre, che alcuni magnati di Wall Street indossavano le ghette (simbolo dell’affezione per i modi inglesi) e che i segni del dollaro sono stati fantasiosamente appuntati sui loro cappotti in tono di scherno per come i soldi fossero troppo vicini ai loro cuori.

I mitografi greci, come ho sottolineato, usavano questo tipo di linguaggio, e se Lindsay fosse stato un greco del sesto secolo, la poesia sarebbe stata sintetizzata nelle mitografie di Igino e Apollodoro più o meno come segue:

 

Lindseus di Ochian Parthenie[1], il ditirambista, racconta di un favoloso scontro tra Bryaneus, nero ammantato campione dei bovari che bazzicano le acquose rive del Plattos, secondo alcuni sacerdote con l’elmo del semidio Stetos, figlio di Zeus, e certi tiranni dell’Est che lo assalirono con gli elefanti. Egli, armato di null’altro che di un flagello di fil di ferro, scacciò dai confini delle terre occidentali questi funesti tiranni, vestiti di sole uose com’è uso tra i popoli delle montagne, e di bianche tuniche ricamate col simbolo di una serpe attorcigliata attorno a una doppia stanghetta; poiché attraverso questo simbolo votarono se stessi all’infernale Serpente Pluto, Donatore di Ricchezza. Nondimeno, alla fine, Bryaneus fu sopraffatto in battaglia e confinato nel Tartaro.

 

Spesso la forma abbreviata delle vignette è estremamente concisa, come nel caso dello stemma del recente Festival of Britain: la testa di Britannia coperta dall’elmo posizionata sul vertice Nord di un compasso rosso, bianco e blu, con una fila di bandiere tese tra Est e Ovest. Eppure il visitatore non necessita di alcuna spiegazione psicologica: sa che Britannia rappresenta le conquiste inglesi e che il Nord è la posizione verso cui puntano tutti i compassi. Le bandiere sono quelle del festival, ma suggeriscono anche come i membri di ciascuna nazione del mondo sono magneticamente attratti alle coste inglesi.

Tuttavia, il significato originale dei simboli figurati è facilmente dimenticato e frainteso. Tra quattromila anni cosa diranno gli archeologi dello stemma del festival? O della misteriosa vignetta sportiva che qualunque atleta britannico capirà a prima vista: un leone con una mazza di legno sulla spalla che porge, cortesemente, una piccola urna di ceneri a un canguro?[2] Li descriveranno forse come “bizzarre e chimeriche fantasie del tardo cristianesimo”?

Chimerico è un aggettivo formato dal sostantivo chimera. Quattromila anni fa la Chimera non era affatto bizzarra e nessuno la considerava uno straripamento dell’inconscio collettivo. Essa era una belva cerimoniale composita (come riportato da Omero) con una testa di leone, un corpo da capra e coda di serpente. La chimera è stata trovata scolpita in un tempio ittita a Karkemiš, e originariamente era un simbolo del calendario: ciascuna delle sue parti rappresentava una delle tre stagioni dell’anno sacro della Caria.

Bellerofonte, nel mito Omerico, doma il cavallo alato Pegaso e uccide la Chimera sputafuoco. Perseo, in una variante dello stesso mito, vola nell’aria e decapita la madre di Pegaso, la Gorgone Medusa. Inizialmente il suo nome era pronunciato Pterseus, “il Distruttore”; e non era, come suggerisce Kerényi, una figura archetipica della Morte, bensì la rappresentazione del patriarcato elleno che invase la Grecia e l’Asia Minore nel secondo millennio a.C., e la cui trinità di dèi maschili, Indra, Mitra e Varuna, spodestò la Triplice dea-Luna, suprema divinità matriarcale dell’Europa e dell’Asia Minore prima che gli dèi maschili fossero conosciuti. Pegaso era un simbolo della religione pre-ellenica che usava il cavallo – sacro alla Luna (per via delle impronte di zoccoli a mezzaluna) – come animale-culto per le cerimonie della pioggia. Medusa era la Dea stessa, celata dietro una membranosa maschera di Gorgone, un orrido volto inteso ad ammonire i profani contro lo sconfinamento. Perseo decapitò Medusa: ossia, gli Elleni invasero i principali santuari votati alla Dea, strapparono le maschere di Gorgone alle sue sacerdotesse e presero possesso dei cavalli consacrati. In un primo reperto che documenta tale evento, trovato in Beozia, la Dea è ritratta con la testa di Gorgone e il corpo di cavalla. Bellerofonte, il doppio di Perseo, uccise la Chimera: ossia, gli Elleni annullarono l’antico calendario di Medusa, rimpiazzandolo con un altro.

Larga parte dei miti greci è una storia politico-religiosa di questo tipo. Eracle che uccide l’Idra di Lerna e il leone di Nemea, cattura la cerva di Cerinea, ruba il tripode alla sacerdotessa di Delfi: tutte queste storie raccontano del saccheggio dei santuari matriarcali da parte degli Elleni. Così come il tentativo di Apollo di stuprare Dafne, tramutatasi poi in alloro; eppure questo mito è citato dagli psicologi freudiani come rappresentazione dell’istintivo orrore dell’atto sessuale da parte di una ragazza. Dafne non era una vergine spaventata. Il suo nome è una contrazione di Daphoine, “la Sanguinaria”, la Dea in vena orgiastica, le cui sacerdotesse, le Menadi, masticavano foglie di alloro[3] per intossicarsi e, periodicamente, quando la luna era piena, si avventavano sugli incauti viandanti, facendo a pezzi bambini o giovani animali. Gli Elleni soppressero queste congreghe di Menadi e il boschetto di alloro rimase come unico testimone dell’antico possesso dei santuari da parte di Daphoine; con la sola eccezione della Pizia (sacerdotessa che Apollo tenne al suo servizio a Delfi) la masticazione dell’alloro divenne tabù in tutta la Grecia fino all’epoca dei Romani, le Menadi si votarono al vino e riapparvero sotto la protezione di Dioniso.

Jung, tuttavia, non avendo alcun dono per la concisione, né comprensione poetica[4] o senso della storia, nega che queste abbreviazioni figurate abbiano un qualunque senso preciso. Scrive:

 

Il principio metodologico in accordo col quale la psicologia [intendendo la sua stessa scuola di psicologia] tratta i prodotti dell’inconscio è questo: “I contenuti di un carattere archetipico sono manifestazioni dei processi attivi nell’inconscio collettivo. Perciò non si riferiscono a nulla che è, o è mai stato, conscio, ma a qualcosa di essenzialmente inconscio. In ultima analisi ne consegue l’impossibilità di stabilirne il riferimento… Non è più questione di sapere se un mito si riferisce al sole o alla luna, al padre o alla madre, alla sessualità, al fuoco o all’acqua. Tutto ciò che possiamo fare è circoscrivere e dare una descrizione approssimativa di un nucleo di significato inconscio.”

 

Così Jung si esime da qualunque riguardo per la ricerca storica o archeologica. Si imbatte in mistici simboli che è incapace di risolvere e si arrocca su una posizione dalla quale non può essere smosso. Scrive provocatoriamente a riguardo:

 

… la struttura pre-conscia della psiche che era già in essere quando non c’era ancora una personalità unita.

 

Certo, alcuni miti sono piuttosto enigmatici a prima vista; ma spesso succede perché il mitografo ha accidentalmente o deliberatamente interpretato male una figura sacra o un dramma rituale. Ho definito questa forma di interpretazione erronea “iconotropia”. Esempi del genere sono ravvisabili in tutte le letterature sacre che suggellano una qualche riforma radicale delle credenze primitive.

I miti Greci abbondano di casi iconotropici. Il cosiddetto “Giudizio di Paride”, dove un eroe è chiamato a decidere tra il fascino di tre dee rivali e premiare la più bella con una mela, è il residuo di un’antica situazione rituale, già superata al tempo di Omero e Esiodo. Queste tre dee sono un’unica divinità trina: la Luna come Fanciulla, Sposa e Vecchia – Artemide, Afrodite e Era – ed è Afrodite, la Sposa, che dona la mela a Paride, non il contrario. La mela rappresenta l’amore di lei, ma un amore comprato a costo della vita di lui. La mela diventa il salvacondotto di Paride per i Campi Elisi, il meleto dell’Ovest, nel quale solo le anime degli eroi sono ammesse. Un dono simile veniva elargito sovente nei miti irlandesi e gallesi; e dalle tre Esperidi, a Eracle; e da Eva, “la Madre di Tutti i Viventi”, ad Adamo. Così Nemesi, Dea del bosco sacro che, nel tardo mito, divenne simbolo di vendetta divina contro i sovrani orgogliosi, era sempre raffigurata con un ramo cui era appesa una mela, il suo dono agli eroi. Tutti i paradisi neolitici e dell’Età del Bronzo erano isole-frutteto; paradiso stesso significa “frutteto”. “Elisio” sembra collegato alla parola pre-Gallica alisier, “sorbola”, che è sopravvissuta in Francese; e “Averno”, che i Latini derivavano da a-ornis, “senza uccelli”, è una variante dell’Arturiana “Avalon” – Afallenan, gallese – e significa “isola delle Mele”.

Una scienza del mito, dunque, dovrebbe iniziare con lo studio di archeologia, storia e religioni comparate, non nel consultorio di uno psicoterapeuta. Un immenso lavoro deve ancora essere fatto prima che l’enorme, confuso corpus di miti greci che è arrivato fino a noi sia propriamente classificato. Miti storici o politici devono essere distinti dai miti rituali o calendari – spesso strettamente intrecciati, come nell’epica degli Argonauti e nell’Odissea. Le distorsioni iconotropiche devono essere messe in evidenza, così come deve essere fatto il tentativo di dare a ciascun mito la sua data e provenienza, di solito indicata dal modo in cui l’eroe muore – che sia colpito da un fulmine, gettato da un dirupo, trascinato da cavalli selvaggi, divorato dai segugi, morso da un serpente, colpito da una freccia nel tallone, sventrato da un cinghiale, annegato in una giara di miele, o fatto a pezzi da donne selvagge.

Quando questo lavoro sarà compiuto, ma solo allora, gli psicologi saranno capaci di isolare certi elementi mitici genuinamente primitivi – potrebbero benissimo esservene – che non hanno nessuna ovvia spiegazione nella Storia o nella storia naturale; e decidere se Jung ha ragione nel descriverli come:

 

… archetipi o immagini primordiali che si manifestano in tutti i tempi nelle religioni, nel misticismo, nell’alchimia, tanto quanto in sogni, visioni e fantasie portate alla luce nello studio del medico.

 

Jung sostiene che tali ossessioni primordiali sono ereditate, e io non lo contraddirei, non fosse che è in dubbio fino a che punto l’immagine reale, piuttosto che la predisposizione a riconoscerla e perpetuarla, sia ereditata. Una volta, nella Pennsylvania rurale, ero stato lasciato ad assistere la moglie di un contadino che soffriva di un crollo nervoso, fino all’arrivo dell’ambulanza. La sua terrificante esibizione nel rito di una Menade mi affascinò. Aveva cercato di strangolare un bambino, rideva tristemente, scuoteva i capelli, si era strappata i vestiti, era diventata aggressivamente ninfomane, e pregava un’aniconica immagine che aveva improvvisato con le bende – uno dei primi simboli conosciuti della Dea come Sposa. Ma fino a che punto il suo comportamento era ereditato e quanto lo aveva inconsapevolmente assorbito dalle sue letture?

Jung afferma con sicumera:

 

La mentalità primitiva non inventa i miti; li esprime. I miti sono rivelazioni originali della psiche pre-conscia, involontarie dichiarazioni sugli accadimenti della psiche inconscia.

 

Ma quasi nessuno dei miti greci di cui parla è primitivo. Per la maggior parte sono stati formulati in territori che erano, o erano stati recentemente, in stretta relazione politica con la Creta Minoica. E la Creta Minoica era sufficientemente sofisticata da avere archivi scritti, edifici a quattro piani con un igienico impianto idraulico, e un calendario basato sulla paziente osservazione astronomica.

 

*

 

Nella prima parte del loro libro Jung e Kerényi cercano di dimostrare che il “Dio-Bambino”, come lo chiamano – prendendo i casi degli infanti Eracle, Apollo, Zeus, Ermes e Gesù Bambino – non è un simbolo figurato, ma un “primordiale archetipo psichico”. Scrive Jung:

 

È nato dal ventre dell’inconscio, generato dalle profondità della natura umana, una personificazione delle forze vitali oltre la limitata portata della nostra mente cosciente. Rappresenta il più forte, ineluttabile bisogno di ciascun essere vivente, quello di realizzare se stessi. È, per così dire, un’incarnazione dell’incapacità di fare altrimenti, dotato di tutti i poteri della natura e dell’istinto, mentre la mente cosciente è sempre legata alla presunta capacità di fare altrimenti. La brama e la compulsione all’autorealizzazione è una Legge di Natura e quindi di invincibile potere, anche se il suo effetto, all’inizio, è insignificante e improbabile. Il potere si rivela nelle miracolose azioni dell’eroe bambino…

 

Né Kerényi né Jung hanno notato la caratteristica più importante del Bambino Divino: Zeus, Dioniso, Apollo, Eracle e il Bambino Divino di Eleusi – per non parlare di Mithra, Baldur, Finn, Gwion, il Jehovah Caanita e il Cristo Bambino[5] erano tutti nati durante il solstizio d’inverno, quando l’anno pre-ellenico iniziava. Quest’anno era governato dalla Triplice dea-Luna e figurativamente rappresentato col cerchio zodiacale attorno al quale lo Spirito dell’Anno si muoveva come il Sole, cambiando stagionalmente, e in mutevole rapporto con la Dea. La sua vita iniziava nel giorno più freddo e corto, proseguiva fino al più caldo e lungo, poi declinava.

Era conveniente descrivere tale spirito sotto le spoglie di un eroe in divenire. Egli fu messo al mondo dalla Dea; la sua Epifania poteva avvenire sia sul dorso di un delfino, poiché la Luna controlla le maree; o in un cesto per la crivellatura, giacché la Luna governa la crescita del raccolto e della vegetazione. Avendo strangolato i serpenti che ne minacciavano la culla – i serpenti simbolizzano l’inverno e la morte – arrivò alla pubertà, l’Equinozio di Primavera, e fu dispensato dalla tutela della Madre; sedotto da una dea-Fanciulla, compì audaci imprese per provare la sua virilità e, giunta la Mezza Estate, fu accettato come amante della dea-Sposa, che lo fece uccidere all’approssimarsi della luna di miele. Egli divenne così un eroe; parola che denota un sacrificio a Era. La Dea trascorse la seconda metà dell’anno con la sua ombra, o il suo altro sé, o rivale, o successore[6] o coreggente. Il ciclo vitale del sacro sovrano tribale del neolitico e della prima Età del Bronzo era modellato su questo mito del Bambino Divino; fu modificato in seguito quando la reggenza, in accordo con gli altri capi tribali, fu allungata da uno a otto anni, e bambini-vittima annualmente sacrificati in sua vece.

Jung e Kerényi mancano di distinguere questi nobili bambini sacrificali – come Melicerte, Zagreo, Fetonte e altri che appaiono nei miti – dall’infante Spirito dell’Anno. In effetti sembrano considerare perfino gli inni omerici come ispirazioni primordiali, ignari del fatto che furono raffinate produzioni letterarie scritte secoli dopo che Elleni e pre-Elleni ebbero concordato una religione condivisa. Tale era la famiglia Olimpica di sei dèi e sei dee, governata da Zeus, formata da rinnovati Spiriti dell’Anno ora elevati al rango di divinità immortali e da varie, conturbanti sfaccettature della Dea per completare la galleria divina.

Jung approva una greve massima di Kerényi: “Nel simbolo, il mondo stesso sta parlando”. E aggiunge, di nuovo rinnegando qualsiasi visione scientifica o razionale dei miti:

 

Tanto più arcaico e profondo, cioè più fisiologico, è il simbolo, più collettivo e universale, tanto più “materiale” esso è. Tanto più astratto, differenziato e specifico esso è, più la sua natura si approssima all’unicità della coscienza e alla sua individualità, tanto più esso abdica al suo carattere universale e… corre il rischio di diventare una mera allegoria che non oltrepassa in alcun modo il limite della comprensione cosciente ed è quindi esposto a ogni sorta di tentativo di spiegazione razionalistica, quindi inadeguata.

 

Ma se ha ragione nel postulare che più arcaico e indifferenziato è il simbolo, più esso si avvicina all’archetipo primordiale, allora le cinque immagini fotografiche presenti nel suo libro, usate per supportare l’ipotesi del Bambino Divino, sono state scelte in modo davvero ingenuo. Mostrano tutte sentimentali statue del dio Eros ispirate a una elevata cultura letteraria: una alessandrina, tre romane, una veneziana del sedicesimo secolo. Come ha sottolineato tempo fa Jane Harrison nel suo Prolegomena to the Study of Greek Religion, l’Eros arcaico, “Lussuria”, era raffigurato come un Dispetto – una delle astrazioni alate che assalivano l’umanità, tra le quali Vecchiaia, Follia e Morte – o, più malevolmente, sottoforma di un fallo di pietra, come a Tespia. Fu solo nei successivi vasi dipinti di rosso che più attraenti figure alate, gli eroti, si radunarono attorno alla loro madre e signora, la dea-Amore Afrodite – impulsi di passione sessuale, fascinose tentazioni a procreare o partorire figli; ma queste sono allegorie della coscienza, del tipo disprezzato da Jung, e diventano ancor meno arcaiche al tempo dei Romani.

Gli Alessandrini diedero vita al culto letterario di Eros quale irrefrenabile cattivo ragazzo che non è mai cresciuto, dedito a prendersi gioco di Afrodite, sua madre, e di Zeus stesso, coinvolgendoli in umilianti relazioni amorose (sebbene l’umorismo di Apollonio Rodio fosse più delicato di quello del suo successore Apuleio, il tema è lo stesso.) Ma il fatto che l’Eros alessandrino allegoricamente portasse una torcia per infiammare i cuori degli amanti non è una buona ragione per collegarlo, come fa Kerényi, all’arcaico Bambino Divino che rinnova il tiepido fuoco dell’anno al Solstizio d’Inverno. Ed è assurdo interpretare, con Jung, questo dono del fuoco come “il dono della luce, l’allargamento della coscienza”. Scrive in proposito:

 

Non poche figure infantili sono eroi culturali e quindi identificati con cose che formano la cultura: fuoco, metallo, mais, ecc.

 

e poi, in nota, descrive il Cristo Bambino come un eroe culturale del fuoco, un portatore di luce – fuorviato da una citazione di Girolamo del detto apocalittico di Gesù: “Colui che è vicino a me è vicino al fuoco”. Gesù era tutto fuorché un eroe culturale per Girolamo, e le sue parole significavano qualcosa di completamente diverso: una fede in lui in quanto Messia implicava una fede nell’avvicinarsi della fine del mondo, che sarebbe venuta con una pioggia di fuoco.

Jung considera i miti, infatti, una deliziosa zuppa globale senza tempo arricchita di innumerevoli bocconcini, tutti indistintamente riducibili a un singolo, fondamentale, sapore germanico: assaggiane uno, assaggiali tutti. Ciò l’ha incoraggiato a collaborare con Richard Wilhelm, in un lavoro sulla mitologia cinese, Il Segreto del Fiore d’Oro, del tutto ignaro del divario tra simbolismo cinese e occidentale. Se, per esempio, una ragazza nei canti popolari europei “wears the willow”[7], significa che sta dormendo da sola in un letto angusto abbandonato dall’amante; mentre nei canti tradizionali cinesi significa che è la ragazza più popolare del bordello locale. Jung ha fatto divagazioni simili e altrettanto irresponsabili nel campo dell’alchimia medievale, dove nessuno si è ancora avventurato per verificare le sue fantasie – suppongo perché Dionisio, il chimico bizantino dell’undicesimo secolo, non è ancora disponibile in una traduzione intelligente. Dionisio era un germanico che infranse il codice allegorico dei metallurgisti spagnoli traducendo proposizioni quali: “Accoppia la femmina di drago al leone, e fai schiudere il suo uovo d’argento sotto un gallo rosso”, in semplici formule chimiche.

La seconda parte del libro riguarda i Misteri Eleusini. Qui Kerényi è singolarmente ottuso: suggerisce che l’iniziato deve identificarsi con la Dea Demetra attraverso “l’esser perseguitato, derubato, violentato, incapacitato a comprendere, adirato, ridotto in lacrime, per poi riavere tutto indietro e rinascere”. Kerényi non suggerisce esattamente come l’iniziato venisse simbolicamente violentato: eppure espone la confessione dell’iniziato stesso, conservata da Clemente di Alessandria – “Ho digiunato, scolato la mistura, preso [certe cose] dal forziere, maneggiato [con esse] per poi rimettere [queste] nella cesta, e dalla cesta di nuovo nel forziere” – dicendo:

 

… l’iniziato faceva quel che la trista e irata Demetra aveva già compiuto: digiunare e poi bere la mistura. La misteriosa impresa con il forziere e la cesta può essere solo qualcosa che Demetra fece nella casa reale di Eleusi, un qualche servizio reso alla Regina.

 

No! I misteri di Demetra erano notoriamente simili a quelli di Cibele, dei quali Clemente ha di nuovo preservato la confessione dell’iniziato: “ho mangiato dal piatto, ho bevuto dal piatto, ho portato il piatto delle offerte, sono sceso nella camera nuziale”; e “maneggiato”, ergasamenos, era una comune espressione Greca per “atto sessuale”. Ora è generalmente convenuto che l’azione dell’iniziato era del tutto virile: penetrava nella camera nuziale e consumava simbolicamente il sacro matrimonio dell’annuale re del grano con la Dea maneggiando un oggetto fallico su e giù in un sacro stivale alto femminile.

Di nuovo, Kerényi assume, non storicamente, che gli Elleni abbiano introdotto l’orzo e il cavallo, insieme alla dea Demetra; e che Brimo, il Bambino Divino maschio dei Misteri Eleusini, fosse in realtà la perduta Persefone – poiché in queste primordiali ondate di fantasticherie tutte le distinzioni sessuali sono, sostiene Kerényi, confuse.

Poi Jung, sviato dall’opinione di Kerényi sul mistico cambio di sesso dell’iniziato, scrive della Dea con nebulosità quasi Delfica:

 

Questa figura, quando osservata in un uomo appartiene al tipo dell’anima; quando osservata in una donna, al tipo di personalità sovraordinata. La doppiezza, o quantomeno la capacità di duplicazione, è essenzialmente caratteristica delle figure psichiche; esse sono bipolari in tutti i casi e oscillano tra il loro significato positivo e negativo.

 

Seguono esempi tratti dai sogni di suoi pazienti in cui la Dea presumibilmente appare:

 

Una contessa vestita di nero si inginocchia in una cappella oscura. Il suo vestito è agghindato di perle preziose. Ha i capelli rossi ed è circondata dagli spiriti dei morti.

La sconosciuta, come il sognatore, siede sulla cima di un campanile e lo fissa in modo inquietante, al di sopra dell’abisso.

Improvvisamente ella appare come una vecchia custode in un bagno pubblico sotterraneo con una temperatura di quaranta sottozero.[8]

Ella, da petite bourgeoise, abbandona la casa insieme a una compagna, e al suo posto immediatamente appare una dea ammantata di azzurro di dimensioni superiori al normale…

 

Tornando ancora una volta alla mitologia Greca, Jung commenta la Dea come Fanciulla:

 

La sua impotenza la espone a ogni genere di pericolo, per esempio essere divorata dai rettili o macellata ritualmente come una bestia. Spesso vi sono sanguinose, crudeli e perfino oscene orge in cui ella cade vittima.

 

Ma questo non è un mito archetipico né primordiale. La Dea pre-ellenica era inviolata in ciascuno dei suoi tre aspetti. Era la sovrana, non la vittima, delle orge (“festa dell’orzo”). Ma quando infine gli Elleni spezzarono il potere della Dea profanandone i santuari, decisero, così sembra, che il modo migliore per tenere a bada le sue sacerdotesse fosse dar loro un assaggio di ciò che per lungo tempo avevano imposto agli uomini. Abolendo il sacrificio dei bambini maschi, riportato in centinaia di miti, sacrificarono sacerdotesse fanciulle – Ifigenia, Elle, Andromeda e così via. Nemmeno alle sacerdotesse anziane fu risparmiata l’umiliazione: Zeus appese Era al cielo per i polsi con incudini alle caviglie; Afrodite fu messa alla gogna pubblica in una rete; Teti, la dea del Mare pre-ellenica, fu data in sposa a un semplice mortale e Poseidone prese possesso del suo elemento.

A capo dei suoi archetipi universali Jung pone il “Vecchio Saggio”. Un archetipo del genere può essere trovato tra le razze gialle, ma non c’è traccia di lui nella mitologia occidentale. Vero è che, in Omero, antichi veterani, come Nestore, dispensano consigli dagli angoli del focolare, e che esperti diplomatici, come Mentore, risolvono contese, e che bardi ciechi, come Tiresia, formulano profezie. Ma queste non sono figure arcaiche; diversamente un vecchio dio saggio, presso cui tutti si sarebbero recati per trarne consiglio, si sarebbe sicuramente trovato tra gli Olimpi. Il corrispettivo più simile a un vecchio saggio in Omero è l’elusivo Proteo, accuratamente descritto come un egiziano. La saggezza divina era una prerogativa femminile sia a Roma che in Grecia; ed era Atena, non Padre Zeus, a conferire la saggezza a Tiresia. Infatti, lo stesso Zeus visita la vecchia cugina Meti per chiedere consiglio quando progetta di spodestare suo padre Crono. È ovvio che Jung sia stato sviato dalle esperienze nel suo studio, dove il “vecchio saggio” dei sogni dei pazienti non è per nulla un archetipo, piuttosto un lusinghiero ritratto di Jung stesso.

 


[1] Qui Graves conia una sorta di finto greco antico, un epiteto attribuito a Lindsay simile all’omerico “Achille piè veloce”. “Ochian” potrebbe essere l’equivalente del latino “occulus”, occhio, a significare che Lindsay fu il primo a utilizzare le vignette satiriche in un componimento poetico. “Parthenie” si riferirebbe al Partenio, componimento della lirica greca eseguito da vergini (Lindsay considerava la propria produzione poetica una forma di esibizione, nel solco della tradizione orale degli antichi bardi Greci). Un altro possibile riferimento di “Parthenie”, casto, virginale, è allo Stato della Virginia: sebbene Lindsay fosse originario dell’Illinois, è stato associato spesso alla Virginia per via di una sua poesia, “The Virginians are coming again”; in questo senso, più che un titolo, “Parthenie” varrebbe come luogo di provenienza del ditirambista Lindseus. Una traduzione possibile dell’epiteto potrebbe essere: “Lindseus dagli occhi vergini” o “dagli occhi nuovi”, ma dati i molteplici significati e la forma estetica in falso greco scelta da Graves, abbiamo preferito mantenere l’originale.

[2] Graves fa riferimento al The Ashes (ceneri), una competizione di cricket che si disputa tra Inghilterra e Asutralia; nella vignetta citata, leone e canguro rappresentano i due paesi in competizione, l’urna è la coppa in palio.

[3] Contenenti cianuro di potassio.

[4] Nel suo libro sulla mente poetica inconscia indugia amorevolmente sui lavori di Goethe e Longfellow.

[5] Il suo compleanno è stato variamente celebrato il 6 Gennaio, il 19 Aprile, il 20 Maggio o il 17 Novembre, ma fu cambiato nel 25 Dicembre dalle autorità della Chiesa intorno al 354 d.C., per farlo corrispondere a quello di Mithra.

[6] Riferito nello specifico al successore designato del capo di una tribù celtica (tanist).

[7] Poiché Graves qui si riferisce a un modo di dire tipico sia dell’Inghilterra che della Cina, abbiamo preferito non tradurlo. Non è detto che il corrispettivo italiano (forse “essere un salice piangente”) valga anche per la cultura cinese (ndt).

[8] La traduzione di Bollati Boringhieri riporta una temperatura di 15 gradi, cfr. Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. it. Angelo Brelich, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p. 245.

 

21 settembre 2021