Andrea Pagani
La parola inadeguata e il passo zoppicante di Zeno
Con la sua abituale e spiazzante autoironia, appropriandosi di un giudizio – pur lusinghiero – di uno dei suoi massimi estimatori e scopritori, Benjamin Crémieux, Italo Svevo in alcune lettere del 1927, riferendosi alle critiche che circolavano attorno alla recente uscita della Coscienza di Zeno, si divertiva a descriversi come «un pezzo d’aglio nella cucina di persone che non possono soffrirlo», alludendo, con la sua difficoltà ad essere “digerito” e ad essere poco apprezzato, ai caratteri del suo stile, impreciso e incerto, inadeguato e difettoso, talvolta addirittura sgraziato, di certo stravagante rispetto al canone coevo del purismo e degli idealisti crociani, i gruppi di Stracittà e Strapaese, compatti nella difesa di un nitore linguistico nazionale e diffidenti verso gli sperimentalismi del modernismo, e insomma guadagnandosi ben presto l'epiteto di uno “Svevo che scrive male”.
Del resto, nel rilevare le incertezze morfo-sintattiche e lessicali, le imperfezioni grammaticali e strutturali nella costruzione della sua frase, si direbbe che l'autore faccia di tutto per entrare in conflitto col “galateo” formale e per rendere complicato il lavoro del lettore, con periodi insicuri e claudicanti.
L'uso scorretto di alcune preposizioni in italiano come calchi dal tedesco (ad esempio: «Sarebbe stato di dire perché...» o «attraverso al pensiero...»); un lessico ora arcaicizzante (ad esempio: i portati anziché i doni, adusti anziché inariditi, aggradevoli anziché gradevoli), ora sciatto e colloquiale (ad esempio «continuammo a succhiellare», termine gergale per “sfogliare le cartelle”); un frequente uso del verbo in modo irregolare (ad esempio, la forma impersonale del verbo servile che di norma ammette solo l’ausiliare essere, mentre Svevo scrive «il vestito di sera in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno»; i participi passati concordati con il complemento oggetto posposto: «avevo amata mia madre», «avrebbe rafforzati i freni»; il passato remoto usato in eccesso in una sorta di ipercorrettismo tipico di chi non lo possiede nel proprio modo di parlare spontaneo, come nel caso di «la mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo», mentre l’italiano toscano avrebbe richiesto il passato prossimo; l'improprio uso della preposizione di al posto di a, ad esempio in “se riuscissimo di tenerlo a letto”, con evidente ascendenza dal francese): sono tutti elementi che rischiano di produrre nel lettore un effetto piuttosto sgradevole, in taluni casi persino indisponente, rispetto ad una scrittura che, ben lungi dall'essere esatta ed elegante, invece d'ambire ad essere sperimentale e d'avanguardia, sembra piuttosto contaminata di inesperienza ed incapacità, faticosa e “zoppicante”.
Senza dubbio, a spiegare in parte le scelte formali di Svevo valgono ragioni culturali e biografiche, in margine al contesto in cui è cresciuto e si è formato lo scrittore. Occorre rammentare infatti che il cosiddetto “caso Svevo” è quello di un autore “dialettofone”, un caso non troppo diverso da quello di Manzoni, nel senso che la lingua della comunicazione quotidiana e familiare di entrambi era il dialetto (triestino per Svevo, milanese per Manzoni) e che la lingua, diremmo, “professionale”, per usi sociali, lavorativi, più generalmente intellettuali era una lingua straniera (il tedesco per Svevo, il francese per Manzoni).
Con una differenza sostanziale, però. Nel momento in cui Manzoni, per giungere alla definitiva versione dei Promessi sposi, la cosiddetta “quarantana”, ossia per spurgare gli elementi dialettali, francofoni e arcaicizzanti del suo libro, prese la decisione della celebre “risciacquatura dei panni in Arno”, pervenendo ad un toscano parlato, non letterario, assimilato di persona e quindi restituito sulla pagina, per Svevo il toscano resta una lingua letteraria, una lingua acquisita sui libri e in qualche maniera astratta (il che potrebbe assomigliare all'operazione condotta da Manzoni nella prima redazione “ventisettana” del romanzo).
La scelta dell'italiano come “lingua del romanzo” – inteso in senso programmatico, quindi sia per La coscienza di Zeno, sia per Una vita e Senilità – comporta per Svevo la necessità d'imparare una lingua nuova, come si farebbe con una lingua straniera (e come fece, di fatto, per oltre cinque anni, dal 1880 al 1885 nei libri della Biblioteca Civica di Trieste), senza recarsi, come altri suoi concittadini (Scipio Slataper e Umberto Saba), a Firenze per frequentare il toscano parlato. Ne deriva così una prosa “scolastica”, che Montale non esitò a definire di «stile commerciale», a metà strada fra un tono scialbo e uniforme, e le imperfezioni e gli arcaismi di cui abbiamo dato conto, e dove con ogni probabilità non è esente neppure una componente politica, o quanto meno ideologica, per un irredentista come Svevo che in tal modo faceva della scelta linguistica (come della scelta del suo pseudonimo, Italo), anche uno strumento per rivendicare un senso di appartenenza ed emancipazione.
Eppure, dietro la volontà di non ripulire in profondità la lingua, come avrebbe potuto fare, specie dopo le critiche che già serpeggiavano numerose quand'era ancora in vita, ossia dietro la volontà di mantenere, potremmo definirla, una “parola inadeguata”, ci sono anche altre ragioni, che concernono più estesi aspetti culturali e forse persino filosofici.
In altri termini, non riesce troppo difficile riconoscere in quell'incedere lacunoso della frase della Coscienza lo speculare movimento maldestro e impacciato, goffo e sconveniente dell'inetto Zeno Cosini.
La serie sconcertante, e in molti casi comica, dei lapsus, degli atti mancati, delle gaffe, dei malintesi, delle frasi inappropriate ma rivelatrici d'una scomoda verità che caratterizzano Zeno, si riverbera nel ritmo d'una scrittura vacillante e irregolare, che allo stesso tempo si oppone alla stabilità e purezza del linguaggio della tradizione: «L'incapacità di immediato adattamento – la “distrazione” che sembra una caratteristica del solo Zeno – si traduce in un linguaggio inadeguato rispetto a un protocollo che tutti gli altri tacitamente conoscono e assecondano» (Contini, il corsivo è nostro).
Il fatto più bizzarro, per l'appunto, è che la maldestra inettitudine dei comportamenti di Zeno, riflessa nell'incedere incerto di una prosa insicura, non di rado sortisce un inaspettato e involontario effetto trionfale.
Ciò ci spinge ad almeno tre riflessioni significative.
La prima è che l'inimmaginabile risultato efficace delle azioni – e quindi delle parole, degli errori formali, della parola inadeguata – di Zeno, frutto di casuali ed impreviste congiunture (una “forza cieca”, un'imperscrutabile dinamica degli eventi, la volontà altrui che guida le scelte del protagonista), rischia inizialmente, di generare irritazione o antipatia nell’interlocutore, ma di seguito produce una sorta di stupore, di consenso unanime, se non addirittura di sconcertata ammirazione, come nel caso, giusto per citare un esempio fra i tanti, dell'epilogo del funerale mancato di Guido, dove Zeno s'impone «non solo come l’unico uomo della famiglia, ma come il migliore», lodato dai genitori di Ada e riconosciuto come il salvatore del dissesto finanziario generato dal cognato: «la battuta sbagliata, il passo zoppicante dell’eroe edipico, che raggiunge così spesso la meta desiderata, rivelano una diversità di visione, irritante per alcuni, accattivante per altri, che propone la vita umana come se apparisse per la prima volta a qualcuno che viene da altrove» (Contini).
Esiste, in secondo luogo, come effetto di questa “parola inadeguata” e di questo gesto maldestro di Zeno, un irresistibile marchio ironico, che ci rende il personaggio simpatico, o quanto meno familiare e attraente. Siamo di fronte cioè a ciò che si potrebbe definire una sorta di “scarto testuale”, nel senso che è come se convivessero due Zeno nel corso della narrazione: c'è Zeno Cosini che agisce sulla scena, e c'è Zeno Cosini che sta raccontando, che ha già vissuto le vicende, che si vede in retrospettiva e restituisce al lettore lo sviluppo bizzarro degli eventi. Su questo doppio binario, appunto, si gioca la comicità della situazione.
In tal senso, pare che il “secondo Zeno”, rivedendo se stesso a posteriori, operi una sorta di smascheramento, di irrisoria e divertita demistificazione, rivelando – in maniera allusiva e cifrata – l'artificio della verità nascosta dietro la menzogna, non di rado mimetizzata dietro lo “zoppicare” di una parola incerta. Con ogni probabilità, dunque, la malattia psicosomatica di Zeno zoppicante si rispecchia, fra le altre cose, nel movimento claudicante della prosa del romanzo.
Inutile nascondere, che ci sia qualcosa di piacevole e forse persino di euforico in questa messa a nudo delle menzogne e delle finzioni del “primo” Zeno, per la semplice ragione che alla luce di tale ironia e simpatia egli non è mai posto sul banco degli imputati, non viene mai giudicato dal “secondo” Zeno, e quindi dal lettore, generando così l'effetto di provocare quanto meno comprensione e sorriso, se non addirittura una propensione a identificarsi nelle peripezie, per quanto bizzarre e stravaganti, di Zeno. È come se il “secondo” Zeno/narratore (che rivede la sua vita a posteriori, seguendo la consegna terapeutica del dottor S.), in forza di questo osservare da fuori la dinamica di finzioni/giustificazioni/assoluzioni che muove il protagonista con un'osservazione divertita e dissacrante, volesse suggerirci che non siamo troppi diversi dal “primo” Zeno, che nessuno è senza peccato, che anche il lettore inscena ogni giorno la commedia della maschera e della truffa (il che, naturalmente, ci rinvia alla filosofia dell'umorismo pirandelliano).
E veniamo così alla terza definitiva implicazione che determina la “parola inadeguata” della Coscienza di Zeno.
Così come lo “zoppicare” fisico di Zeno rappresenta l'espressione somatica del suo disagio e, al contempo, della sua diversità, in qualche misura della sua opposizione al consorzio civile, austero e equilibrato, della benestante borghesia triestina (accentuata, peraltro, dalla sua condizione di nullafacente disoccupato, senza precisa professionalità, tant'è che il padre pose come condizione testamentaria che Zeno non potesse gestire l'eredità patrimoniale), allo stesso modo la lingua imperfetta del testo, la prosa claudicante e insicura del romanzo, contro il purismo idealistico crociano, vuol essere l'evidente contrapposizione alla cultura positivista, al robusto scientismo ottocentesco. In altre parole, Svevo attraverso la sua scelta formale mette in campo l’irresolubile compresenza fra due poli, la fallimentare dialettica fra due culture opposte: il relativismo gnoseologico del Novecento contro le solide certezze del Positivismo, la crisi d'identità del Decadentismo contro l'inossidabile evidenza della scienza, la disgregazione dell'io del XX secolo contro la verità persuasiva del Naturalismo razionalista. E ancora una volta su questo mancato «adattamento» si fonda lo scarto ironico del personaggio, che con la sua zoppicante inettitudine sovverte ogni convenzione canonica (a partire dalla grottesca dichiarazione di matrimonio ad Augusta), ci regala spiazzanti metamorfosi e sorprendenti mutamenti, non troppo diversamente da certi protagonisti della Recherche che nel corso della storia mettono in crisi ogni prevedibile teoria, in una vera e propria sfilata di stranianti colpi di scena: «Per [Proust] tutto è metamorfosi. E questo appunto si vede bene nel trattamento dei personaggi […]. Proust era talmente convinto della non unitarietà dell'individuo umano (e in questo era in perfetta sintonia con Freud) che i suoi personaggi rischiano di essere inverosimili da quanto improvvisi e imprevedibili sono i loro cambiamenti» (Stefano Brugnolo).
Questo snodo di riflessioni applicate a Proust - non a caso con uno stringente elemento di convergenza con Freud - si può perfettamente sottoscrivere anche per Svevo, che anche nel «mito personale pazientemente elaborato della propria autobiografia, abilmente ritoccata» (Mario Lavagetto) si divertì a giocare sull'irresolubile compresenza fra propositi ed esiti, “volontà” e “rappresentazione”, autoinganni e realtà, mistificazioni e verità, menzogna e sincerità, equivoci e giustificazioni, distorsione ideale di un fatto e ruvida concretezza.
Non c'è dubbio che la parola della Coscienza, in questo costante movimento di antifrasi, di alterazioni, di iperboli ironiche, di imprecisioni, di faticosi malintesi, per cui ogni enunciato è così ambiguo da sottintenderne almeno altri due, sommersi e perturbanti, è la parola che meglio rende il perenne doppio senso dell'irrisolta natura di Zeno Cosini.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, edizione critica a cura di Bruno Maier, edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1985.
Italo Svevo, Romanzi e «Continuazioni», Edizione critica con apparato genetico e commento di Nunzia Palmieri e Fabio Vittorini, Saggio introduttivo e Cronologia di Mario Lavagetto, Mondadori, I Meridiani, Milano, 2004.
Italo Svevo, Lettere, a cura di Simone Ticciati, con un saggio di Federico Bertoni, il Saggiatore, Milano, 2021.
Gabriella Contini, La coscienza di Zeno di Italo Svevo, in ALBERTO ASOR ROSA (a cura di) Letteratura italiana, Le Opere, volume quarto, Il Novecento, 1. L'età della crisi, Einaudi, Torino, 1995, pp. 593-624.
Mario Lavagetto, L'impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino, 1975.
Stefano Brugnolo, Dalla parte di Proust, Carocci editore, Roma, 2022
8 maggio 2023