Edizione critica a cura di Arianna Capirossi, Firenze University Press, 2022
La Nuova opera di Giovanni Cavalcanti era finora disponibile solo in edizioni parziali oppure funestate da errori di trascrizione o interpretazioni del testo fuorvianti. Il volume fornito da Arianna Capirossi, giovane studiosa bolognese, si distingue per la presentazione di un testo coerente ed uniforme, restituito prendendo in esame l’unico testimone manoscritto (ms. Riccardiano 1870) ed emendato in caso di necessità, ove opportuno tenendo conto delle congetture proposte dalle precedenti edizioni. Ogni capitolo risulta corredato da un apparato critico dettagliato e completo, finalizzato a documentare il processo ricostruttivo di un’opera lacunosa e incompiuta. L’ampio ricorso a note esplicative consente di fornire contestualizzazioni storiche, chiarimenti lessicali, riferimenti a fonti impiegate e annotazioni utili a comprendere costrutti sintattici complessi, favorendo così un’agevole lettura e permettendo di approfondire le molteplici stratificazioni storiche, linguistiche e letterarie che compongono il variegato universo della Nuova opera.
La fondamentale introduzione offre al lettore gli strumenti critici essenziali per inoltrarsi nell’opera peculiare dello storico fiorentino Giovanni Cavalcanti. Capirossi restituisce una visione quanto più completa della biografia e produzione dell’autore, arrivando ad esaminare le caratteristiche formali che fanno della Nuova opera un testo autonomo e indipendente rispetto alle precedenti Istorie fiorentine; considerare il volume come una semplice continuazione cronologica della cronaca precedente rischierebbe difatti di oscurare la complessa varietà ed eterogeneità di cui la Nuova opera si fa portatrice.
L’analisi prosegue con un’inedita riflessione sulla dimensione satirica dello scritto, osservando come lo stesso Cavalcanti, in due luoghi del testo, si sia avvalso del termine satira per denominare la propria opera. L’eco satirico, difatti, ben si riversa nel ricorso ad una lingua mordace e sferzante, nell’impiego di uno stile basso e quotidiano, nell’esplicito fine moralistico del testo, per sedimentarsi pienamente nella varietas ed eterogeneità costitutiva dell’opera, ritracciabile sul piano stilistico, linguistico e strutturale. Satira e cronaca, dunque, coesistono all’interno della Nuova opera, fornendo una narrazione degli eventi mediante un libero ed ampio andamento cronologico che, seppur tendente alla dispersione, consente di restituire una panoramica multidimensionale delle vicende narrate; il racconto degli avvenimenti che coinvolsero la città di Firenze tra il 1440 e il 1447 risulta inoltre arricchito da originali digressioni aneddotiche ed inserti novellistici.
L’approfondita indagine riservata alle fonti è altrettanto necessaria per comprendere l’architettura testuale su cui l’opera prende forma. Capirossi, attraverso la sua ricostruzione, restituisce una vivida percezione della personalità di Giovanni Cavalcanti, non solo come storico e scrittore, ma anche come appassionato lettore e conoscitore critico che ebbe l’audacia di interfacciarsi con una varia ed eterogenea letteratura, spaziando tra opere di carattere filosofico, storico e letterario, in continuo dialogo tra mondo antico e moderno. L’approccio del Cavalcanti ai testi non risulta mai passivo, come è ben dimostrato dall’atteggiamento duplice riservato alla Nuova cronica di Giovanni Villani, considerata attendibile per i fatti coevi, laddove per gli eventi antichi appare contaminata da invenzioni ed elementi appetibili utili a «infiammare gli animi de’ lettori» (par. 13, 2).
L’altrettanto stimolante capitolo dedicato a Machiavelli lettore della “Nuova opera” consente di individuare una corrispondenza tra l’opera machiavelliana delle Istorie fiorentine e la produzione di Giovanni Cavalcanti, con particolari echi provenienti dalla Nuova opera. Apparentemente autore poco noto, Giovanni Cavalcanti fu con sicurezza letto da Machiavelli e apprezzato per le sue coraggiose prese di posizione, per il suo anticonvenzionale punto di vista e per l’innovativa capacità di indagare, attraverso le proprie opere, quelle ostilità e inimicizie che furono motivo di aspre divisioni all’interno della città fiorentina.
La commistione tra dimensione pubblica e privata, tra storia generale e particolare, costituisce uno degli aspetti centrali della Nuova opera. Giovanni Cavalcanti, storico e cronista discendente da una nobile famiglia fiorentina, fu protagonista di inquiete vicende personali: sottoposto alla rigida tassazione emanata dalla Repubblica di Firenze durante la guerra contro il duca di Milano Filippo Maria Visconti, impossibilitato a sanare gli aspri e gravi debiti, dovette scontare dieci anni di reclusione nelle «“fetide” e “infernali”» (p. 11) carceri delle Stinche. Gli anni di prigionia portarono alla maturazione di passioni feroci ed astiosi sentimenti che trovarono un inevitabile sfogo nei suoi scritti. Memore delle ingiustizie subite e del declassamento familiare, animato dal desiderio di denuncia e dalla volontà di reagire alla dilagante corruzione della Repubblica fiorentina, Giovanni Cavalcanti si dedicò alla composizione della Nuova opera, la cui stesura sembrerebbe collocarsi proprio al termine della lunga prigionia. Nel tentativo di reagire allo smarrimento del proprio tempo, Cavalcanti si avvalse della scrittura per denunciare la degenerazione e corruzione morale del presente, fornendo al contempo un monito per le generazioni future; egli stesso dichiara apertamente: «diliberai di fare nuova opera per la difesa del vero e ad offesa degli huomini invidiosi, aggiugnendo amaestramenti alle future gienti» (1, 2).
All’interno della parabola storica cavalcantiana, un evento di profonda cesura per gli equilibri politici interni ed esterni alla città di Firenze è costituito dalla battaglia di Anghiari (29 giugno 1440); lo storico mostra come dietro alla parvenza di prosperità garantita dalla vittoria fiorentina sulle truppe milanesi dei Visconti si celi di fatto la sventura e rovina della Repubblica: la vittoria, infatti, viene descritta come «destatricie della superbia ventura e aumentatrice della abominevole ingratitudine» (16, 1), seminando discordia e conducendo all’inevitabile degenerazione politica e morale della città, la quale raggiungerà il pieno acme sotto l’egemonia di Cosimo de’ Medici. La Repubblica fiorentina è dipinta dall’autore attraverso le tinte fosche della tirannide, osservando la mancanza di un onesto e virtuoso governatore, di “un buon padre” che sia modello per i propri cittadini; al contempo, l’autore analizza con estrema criticità le cospirazioni dei “malvagi cittadini” avidi e corrotti a scapito della libertà personale, il totale abbandono degli antichi valori in favore di vizi, dissolutezze ed invidie. La visione della società appare dunque fortemente dicotomica e polarizzata, giocando sulla costante opposizione tra onesti e disonesti, tra virtuosi e corrotti, tra i gentili e nobili membri dell’aristocrazia cittadina, ingiustamente declassata, e i «villanelli raffazzonati» (28, 24) gestori del potere e descritti come «giente povera, avara, ingiusta e superba, i quali della loro volontà facevano leggi e non avevano più riguardo alle cose giuste che s’avessono alle ingiuste, né più alle oneste che alle disoneste» (20, 10).
Attraverso una sferzante e inedita prospettiva antimedicea, Giovanni Cavalcanti mostra al lettore una Firenze ingorda e insaziabile, abitata da uomini invidiosi e dimentichi del benessere collettivo, unicamente focalizzati sul proprio arricchimento personale. L’autore porta coraggiosamente alla luce brogli elettorali ed ambigui giochi di potere esercitati dall’oligarchia cittadina, da quella «turba cosimesca» (20, 9) superba e parassitaria focalizzata più sull’utile che sull’onesto, più sugli istinti che sulla ragione. Ampi capitoli polemici sono riservati ai grandi uomini di potere, distaccati da ogni forma di onestà morale e principio di giustizia. Giovanni Cavalcanti fornisce ritratti di signori ipocriti ed avidi: ecco che Francesco Sforza appare nelle vesti di uomo «insano e bestiale» (19, 1), Filippo Maria Visconti è dipinto come l’origine di tutti i mali, per giungere poi all’altrettanto provocatoria descrizione di Cosimo de’ Medici e del suo operato, cruentemente criticato per la pessima politica estera ed interna, per la soffocante imposizione fiscale e per la dichiarata opposizione all’antica nobiltà cittadina. Cavalcanti mostra al lettore una Firenze inedita, non tesa all’esaltazione del governo cittadino ma profondamente critica nei confronti di esso, una Repubblica ipocrita, ammantata di false apparenze.
Tuttavia, Cavalcanti sembra reagire alla moltitudine bestiale, da lui tratteggiata con il tipico piglio ironico e satirico, opponendo all’irrazionalità circostante una forte lucidità d’indagine, continuando a nutrire speranze nei confronti del futuro e presentandosi come baluardo di virtù, di prudenza e buon giudizio. Lo sguardo storico dell’autore non è dunque totalmente disilluso, ma reattivo: solo proponendo una lucida disamina del proprio presente e gettando luce sulle mancanze e sulle debolezze umane egli sente di poter consentire ai futuri lettori di correggere cautamente i loro errori.
Un fondamentale collante della narrazione è rappresentato dalla capacità artistica e creativa dell’autore, dalle sue vaste conoscenze e dalla passione che lo muove. È proprio attraverso la voce della dea Fantasia, emblema della facoltà immaginativa, che la narrazione prende forma e si dipana, costruendo un solido architrave artistico su cui la cronaca storica può poggiare. Cavalcanti dimostra una grande maestria nel mettere in racconto gli eventi, giocando con un impianto narratologico costituito da un intarsio di voci narranti e da un coinvolgimento diretto del lettore stesso. La materia letteraria non appare dunque scissa, ma anzi coesistente alla fattualità storica; essa la carpisce, ne incamera le dinamiche e i sentimenti. Ciò appare ben esemplificato dalle novelle della Nuova opera, rappresentanti un microcosmo narrativo particolare, specchio delle dinamiche storiche e dei complessi rapporti umani che regolano la storia generale. All’interno delle novelle è messo in scena un mondo abitato da umili subalterni, uomini ingenui vittime di patti disonesti, personaggi totalmente passivi in balìa della volontà altrui e sopraffatti dalle prepotenze dei potenti; un’umanità profondamente smarrita, riflesso dell’infetta Repubblica fiorentina contagiata da avarizia e «lascivie miserie» (80, 1), in cui la giustizia appare ormai irrimediabilmente corrosa dall’ingratitudine.
Attraverso una scrittura vivace e colorita, la Nuova opera getta luce su un’umanità varia, molteplice e proteiforme; quell’umanità che abita le intercapedini della storia, invischiata nelle complesse spirali degli eventi e ingiustamente dimenticata.
Arianna Capirossi, elaborando un’edizione coerente e rigorosamente sistematizzata, ha permesso di restituire visibilità e dignità ad autore quasi altrimenti sconosciuto, quel Giovanni Cavalcanti che, ben consapevole della potenza delle parole, non ebbe timore di rivendicare le proprie posizioni personali, privilegiando l’onestà morale alla convenienza; un autore che tentò di reagire all’indolente passività contemporanea, continuando a preservare uno sguardo autentico e consapevole, sagace e critico.
30 settembre 2024