Roberta Paltrinieri
Quello del welfare culturale è un concetto diffuso nella letteratura anglosassone che ha dato avvio a tante buone pratiche tese a sperimentarlo, ma è soprattutto dal 2020 che ha conosciuto una crescente attenzione nel nostro paese. Parlare di welfare culturale significa, infatti, parlare di un nuovo modello integrato di promozione del benessere e della salute e degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale. La cultura, dunque, come dispositivo per la promozione di benessere individuale e di benessere collettivo.
Archiviata l’idea che con la cultura non si mangia, la cultura, le arti performative e il patrimonio culturale materiale e immateriale diventano l’avanguardia della progettazione territoriale di percorsi tesi alla crescita di capitale sociale e fiducia delle comunità. Con il welfare culturale la cura delle persone e dei luoghi e la cultura diventano un connubio fondamentale.
D’altro canto l’amministrazione pubblica bolognese già da tempo ha assunto questa dimensione, tanto che il settore biblioteche del sistema bolognese si chiama “biblioteche e welfare culturale” nella consapevolezza che, come affermano Eric Klinenberg negli Usa e Antonella Agnoli in Italia, le biblioteche ovvero le infrastrutture fisiche o spazi pubblici sono in realtà delle vere e proprie “infrastrutture sociali”, ovvero sono luoghi dove le persone si incontrano, rafforzano le relazioni, stringono quei rapporti su cui si può rafforzare l’intera comunità. L’esperienza di Sala Borsa dimostra come le biblioteche pubbliche possano essere luoghi di prevenzione di quei sentimenti di isolamento, di dispersione ed emarginazione che affliggono la nostra modernità.
Questo stesso concetto può essere ampliato fino a comprendere gli spazi pubblici e privati della cultura: i teatri, i cinema, i musei. Luoghi che senza dubbio hanno come scopo il coinvolgimento e l’intrattenimento di pubblici, per fortuna sempre più vasti nella nostra città, ma fondamentali se assurgono gli obiettivi a cui tendere.
A cosa serve la cultura? Questo è il primo quesito che verrà posto ai numerosi partecipanti che daranno un calcio di inizio al progetto: Alessandra Rossi Ghiglione, Andrea Mochi Sismondi, Gerardo Guccini, Mauro Meneghelli gli artisti Simona Bertozzi e Aristide Rontini, Daniele Sepe e Carlotta Tringalli che saranno coordinati da Laura Gemini e Giulia Allegrini.
L’obiettivo sarà dunque quello di scomporre i processi di welfare culturale che sono già presenti sul territori, sto pensando ai lavori di empowerment del Teatro del Pratello sui giovani carcerati; al lavoro di comunità svolto dal Dom del Pilastro o dai Cantieri Meticci a Corticella, che operano in periferie nelle quali le dinamiche e i processi sociali della globalizzazione sono realtà quotidiana; al lavoro sull’immaginario collettivo sul tema dei generi che è portato avanti dal festival Gender Bender e dalle campagne di Cheap, che risemantizzano i nostri spazi pubblici e che rendono i muri delle nostre città beni comuni per i significati sociali che riverberano. E questo solo per citarne alcuni.
La ricerca da qua alla fine del 2025 avrà come scopo quello di scomporre i processi, nella convinzione che l’atto fondamentale del welfare culturale sia la preservazione dell’atto creativo, non una ciliegina sulla torta, ma al contempo è necessario osservare i processi ex ante e valutare gli effetti ex post, nella convinzione che la cultura sia la base per creare percorsi di coprogettazione che hanno come fine la ritessitura del legame sociale tra le persone e per la comunità stessa.
Lo scopo, in sintesi, è quello di valorizzare le singole pratiche della città all’interno di un ampio ecosistema della cultura bolognese, nella convinzione che la coesione sociale e la cittadinanza siano o possano essere obiettivi perseguibili attraverso buone pratiche, non dimenticando quanto estetica ed etica siano la duplice faccia dei processi socioculturali.