"In casa avevamo un po’ di corrente elettrica, giusto la quantità per caricare i telefoni, ma insufficiente per fare altro come, ad esempio, utilizzare il phon. Non avevamo acqua calda, quindi per fare la doccia facevamo bollire pentoloni d’acqua di fiume. Tutto, anche le cose più semplici, richiedevano il doppio del tempo,” racconta Clara Galvani, mentre ricorda la forte esperienza professionale, ma soprattutto umana, vissuta in quel lembo di Africa profonda e selvaggia che affascina e spaventa allo stesso tempo, la Tanzania. Clara, 22 anni, ci è arrivata a giugno del 2019 con il programma Field Work dell’Università di Bologna e un compito ben preciso: aiutare la comunità locale a incrementare l’industria lattiero-casearia in sicurezza, tramite lo screening delle malattie infettive degli animali.
Un viaggio in aereo fino a Dar es Salaam e venti ore di autobus per arrivare a Mahinya, un villaggio nella provincia di Songea, dove avrebbe vissuto con altri ragazzi espatriati all’interno del college della ONG Co.P.E. (Cooperazione Paesi Emergenti). A farle da compagni di viaggio, le competenze acquisite durante i suoi studi in Scienze Veterinarie e la consapevolezza di un importante capitolo della sua vita che stava per iniziare. Per tre mesi si sarebbe infatti occupata dello screening di malattie infettive: Brucellosi, Tubercolosi, Rift Valley Fever e East Coast Fever. Perché per incrementare l’industria lattiero-casearia nella regione di Ruvuma, è necessario che gli animali siano esenti da malattie trasmissibili tramite il latte, e Clara desiderava fare parte di questo significativo cambiamento nella qualità della vita degli abitanti locali.
“La ONG Co.P.E., con la quale avrei collaborato, aveva messo in atto un progetto di ambito agricolo-zootecnico, il FARE, che sta per Fair Agro-Zootechnical Regional Empowerment in Tanzania. Questa iniziativa ha avuto il compito di implementare un sistema di governance che potesse favorire il dialogo e le sinergie tra settore pubblico e privato per sviluppare l’industria lattiero-casearia. Il progetto aveva come obiettivo anche quello di migliorare la qualità dei servizi veterinari locali attraverso formazione, ricerca, creazione di nuove opportunità di occupazione e sostegno all’imprenditoria consortile, con particolare enfasi sulla popolazione femminile,” spiega Clara. “Il programma Field Work, unito all’opportunità di collaborare con questa ONG, mi è da subito sembrato un’esperienza costruttiva sia da un punto di vista formativo che umanitario, perciò sono partita nonostante la consapevolezza che di difficoltà e incognite, ne avrei incontrate tante.”
Difficoltà, come la diffidenza degli allevatori, e incognite, come sentirsi improvvisamente quelli ‘diversi’. “Quando mi capitava di mangiare presso i villaggi, le persone erano sempre molto felici di potermi dare un pasto a casa loro. La voce che una musungu (bianca) era nei paraggi, si spargeva velocemente e spesso le persone venivano semplicemente a guardarmi. Specialmente i bambini mi accerchiavano spesso per parlarmi e pizzicarmi la pelle, così stranamente pallida.”
Nell’entroterra della Tanzania non si incontrano spesso turisti, ma nonostante ciò i locali hanno idee molto precise sugli occidentali. “Un pregiudizio molto diffuso è l’immediata associazione del colore della pelle con la ricchezza. Si dà per scontato che una persona bianca sia ricca e in quanto tale, tutti si aspettano di ricevere qualcosa in più: un regalo, un prezzo più alto al mercato, una mancia più consistente. Con Simone, un ragazzo italiano che stava svolgendo il servizio civile a Mahinya, siamo stati invitati a prendere parte a un matrimonio. In parte perché si sapeva che avremmo aiutato a pagare la cerimonia e avremmo portato il regalo più bello e costoso, ma soprattutto perché ospitare due amici bianchi a un matrimonio è un avvenimento eccezionale. Tanto, che ad un certo punto siamo stati fatti accomodare su due seggiole e, a turno, gli ospiti pagavano 1TZS (0,00039 €, ndr.) per farsi fotografare con noi.”
In Tanzania, Clara ha certamente scoperto una quotidianità profondamente diversa dalla sua, ma allo stesso tempo un calore umano e un ritmo di vita molto più in accordo con la natura. “Non si arrabbiano mai e sorridono sempre. La cosa più affascinante è indubbiamente la cultura del saluto. Quando due persone si incontrano, sebbene non sia la prima volta durante la giornata, si salutano in modo molto articolato. Anche la fisicità è particolarmente ricercata. Quando ci si presenta, ci si saluta abbracciandosi o tenendosi per mano per molto tempo.”
Tutto, in Tanzania, si affronta ‘pole pole’ cioè ‘piano piano’, con tranquillità. “La vita viene affrontata alla giornata. Se si prova a fare progetti, al 99% questi falliscono. Non essendo abituati a organizzare in anticipo, è di routine avere inconvenienti e aspettare, anche per ore o giornate intere. Il loro rapporto con il tempo è curioso, a partire dal modo in cui viene calcolata l’ora. Vicino all’equatore le ore di luce sono circa dodici durante tutto l’anno. La loro ora 1 corrisponde alla prima ora di luce e quindi alle 7 del mattino, la seconda ora alle 8, e così via. Questo mi ha creato non pochi misunderstanding, specialmente nel momento in cui volevo comprare i biglietti per l’autobus e capire a che ora dovevo partire.”
Gli spostamenti, in questo territorio, non sono affatto facili. I mezzi principali sono gli autobus, sui quali la quantità massima di passeggeri viene sempre raggiunta e spesso superata, siccome i bambini non vengono conteggiati. Durante i viaggi, solitamente lunghissimi, non si può scendere molto spesso ma vengono fatte alcune soste per poter comprare cibo attraverso i finestrini. “È possibile trovare ogni sorta di alimento, una volta ho visto addirittura vendere grilli fritti,” racconta Clara. “E quando si passa nelle zone vicino ai laghi, l’autista fa salire in autobus una donna che vende pesce fritto."
In questo contesto inusuale ma pieno di stimoli, Clara si è trovata a dover far incontrare le sue competenze, maturate in anni di studio e impegno accademico, con la realtà locale. “La mia attività di ricerca prevedeva il prelievo del sangue in dodici villaggi e l’analisi dei campioni in laboratorio. Nel primo periodo, quando ancora non erano arrivati i reagenti per le analisi, ho aiutato l’associazione nella gestione di un progetto FARE, grazie al quale è stato possibile aprire alcune centrali del latte. A metà luglio ho poi iniziato la mia attività vera e propria sul campo,” ricorda, mentre racconta del suo piccolo team composto da un veterinario locale, Dixon, una ragazza italiana che studiava produzioni animali, Anna, un rappresentante dell’ufficio veterinario regionale della Tanzania, Nelson, e il loro autista, Fanueli. “Per dodici giorni, il nostro compito è stato quello di girare, villaggio per villaggio, al fine di raccogliere il sangue delle vacche che gli allevatori mettevano a disposizione.”
Gli allevatori venivano ‘istruiti’ prima della visita della delegazione per poter comprendere l’importanza di quella attività. “La quasi totalità degli allevatori non ha avuto un’istruzione, in pochi sanno leggere e scrivere. Per questo motivo, e per evitare fraintendimenti, era fondamentale spiegare loro cosa stavamo facendo. Non era raro che qualcuno associasse la nostra attività alla stregoneria o che pensasse che dopo il nostro intervento gli animali sarebbero potuti morire, o ancora che il sangue potesse servirci per un qualche guadagno.
Durante l’attività di prelievo, io sottoponevo agli allevatori anche un questionario che avevo preparato in Italia con l’aiuto della mia relatrice di tesi, la Professoressa Alessandra Scagliarini (Prorettrice alle Relazioni Internazionali dell’Università di Bologna, ndr.), e poi tradotto in swahili una volta arrivata in Tanzania. Non è stato facile trovare qualcuno che parlasse l’inglese e il mio swahili, non molto comprensibile, è stato spesso fonte di grande ilarità tra i presenti.”
Clara ammette che durante i 3 mesi in Tanzania gli alti e bassi sono stati numerosi, ma sono state proprio le difficoltà a farla crescere e maturare come persona e come professionista.
“Vedere l’impatto che ciò che sai fare può avere in un luogo dove il bisogno delle tue competenze è quasi estremo, ti dà la vera misura di quanto la ‘missione’ che hai scelto per la tua vita valga la pena di tutti i sacrifici. Passati, presenti e futuri. Grazie al Field Work e all’Università di Bologna per questa consapevolezza.”
Chi sa maneggiare un remo, trova sempre posto in una canoa. (proverbio della Tanzania)