di Francesco Medico, Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Bologna [27 settembre 2024]
Pubblicato il 27 settembre 2024 | contributi
Molto spesso, quando si parla di Unione europea, si associa ad essa l’esistenza di una ferrea disciplina fiscale dei conti pubblici e la presenza di alcuni numeri (rectius indicatori o parametri numerici) che tutti gli Stati membri hanno l’obbligo di rispettare. Il diritto europeo è, infatti, maggiormente caratterizzato da una logica di tipo economicistica rispetto ai modelli statali e il campo in cui questa impostazione si evidenzia di più è proprio la governance economica europea, alias il Patto di Stabilità.
Le critiche al vecchio Patto di Stabilità sono state molte e sono arrivate da diverse parti della riflessione accademica e politica. Tra queste spiccano quelle di: (1) natura pro-ciclica; (2) scarsa democraticità; (3) eccessiva complessità del quadro normativo. Più in generale, si è parlato di un utilizzo degli indicatori numerici in chiave di vere e proprie regole fiscali inderogabili, espressione di un modello disciplinare di austerità economica e di costituzionalismo fiscale. Tutto questo ha prodotto l’effetto di un indebolimento della capacità di spesa degli Stati europei e di progressivo smantellamento dei modelli di welfare, tra cui è compreso il finanziamento di servizi pubblici essenziali come la sanità, l’istruzione pubblica e la lotta alle diseguaglianze sociali. Questa è stata la regola fino almeno allo scorso decennio.
La finestra della crisi pandemica si è aperta, invece, con la scelta obbligata di sospendere l’applicazione del vecchio Patto di Stabilità per tre anni (2020-2023), permettendo così agli Stati membri di utilizzare la leva del debito nazionale per finanziare i già deboli e infiacchiti modelli di protezione sociale, messi a dura prova dall’emergenza sanitaria. A questa è seguita l’adozione del Next Generation Eu, che ha rotto il tabù dell’indebitamento comune sovranazionale e che ha allargato i margini di investimento degli Stati. È stato l’albore di una nuova stagione per l’Unione europea? L’impressione sembra ad oggi di no, visto lo stretto legame di questi interventi con l’emergenza pandemica e la loro improbabile stabilizzazione in futuro.
Nel frattempo, si è inaugurato il cantiere della riforma della governance fiscale, da tutti riconosciuta come non più in grado di rispondere alle esigenze della diversa fase del processo di integrazione. Il nuovo Patto di Stabilità avrà così finalmente posto fine alla vecchia logica manageriale della disciplina fiscale? Si è partiti con la proposta della Commissione europea, che presentava la novità di superare il principio one fits all e di costruire una risposta di rientro dal debito individualizzata per ogni Stato membro. L’obiettivo dichiarato era di lasciarsi alle spalle, con la logica di piani a medio termine (4 anni, estendibili a 7), l’applicazione automatica di regole fiscali. Si è giunti ad un compromesso di tipo diverso, su spinta degli Stati frugali come Germania e Olanda, che hanno riproposto l’imposizione di indicatori numerici vincolanti di natura pro-ciclica, con l’obiettivo di fissare un rientro “certo” della parabola del debito pubblico e di sottrarre discrezionalità politica agli organi sovranazionali.
Da una parte, dunque, la proposta della Commissione sembrava aprire uno scenario di maggiore flessibilità e di una valutazione di sostenibilità del debito di tipo individualizzato e basata su standard econometrici di giudizio (l’Analisi di sostenibilità del debito). Dall’altra, con le modifiche volute in primis da Germania e Olanda, si sono di fatto ristretti i margini di politica di bilancio degli Stati e si è riprodotta la logica introiettata nel vecchio Patto di Stabilità, centrata su numeri che si impongono come regole normative di natura fiscale (ad esempio, riduzione del debito del 1% annuo per i Paesi che superano il 90% di rapporto debito/Pil, riduzione del deficit dello 0,5% annuo se questo supera il tetto del 3%). Si è davanti ad un avanzamento migliorativo, come si è da alcune parti sostenuto o, piuttosto, le due logiche incompatibili perseguite dalla Commissione e dagli Stati frugali hanno prodotto un esito contraddittorio e negativo?
La risposta sembra essere la seconda, anche assumendo per buona la logica del bicchiere mezzo pieno. Questo si evidenzia sia guardando questa riforma nel suo versante interno di coerenza tra le logiche perseguite dagli stessi attori europei, sia nel versante esterno, aprendo ad una riflessione che si focalizzi verso l’orizzonte più ampio dell’ordine economico europeo post pandemia.
Dalla prospettiva interna, infatti, si potrebbe dire, con una battuta, che delle due l’una: o si persegue la linea della differenziazione e della costruzione di un “abito sartoriale” per ogni singolo Paese oppure si ripropone il vecchio sistema di regole “certe” – che tutto fuorché certe si erano dimostrate – basate sul principio one fits all. La fusione a freddo di queste due prospettive ha prodotto solo un paradosso normativo che, molto probabilmente, vivrà nell’ordinamento e avrà applicazione nella consapevolezza di non dover far entrare in collisione queste due anime antitetiche.
Sul versante esterno, invece, il quadro non può che essere ancora più scoraggiante. Questo perché la riforma del nuovo Patto di Stabilità ha deciso di non coinvolgere il livello dei Trattati. Vale a dire che si è partiti dal presupposto che non fosse necessario rivedere i due capisaldi della governance fiscale (il 60% del debito e il 3% del deficit), e di non aprire strutturalmente allo scorporo dal calcolo del debito di quegli investimenti che garantiscono moltiplicatore economico e di quei finanziamenti destinati ai servizi pubblici essenziali (la famosa golden rule).
Il significato costituzionale di tale scelta politica è chiaro: la disciplina fiscale e l’austerità rimangono i paradigmi egemoni attorno cui costruire il nuovo ordine economico europeo, anche dopo l’esperienza pandemica. Come anche pare evidente che, se nell’emergenza sanitaria si erano aperti degli spazi per l’intervento pubblico in economia, questo nuovo assetto della governance li chiude definitivamente. Detto in altri termini, per la stragrande maggioranza degli Stati europei (Italia compresa), con anche l’ulteriore indebitamento causato dalla pandemia e dalle guerre, è preclusa la possibilità di avere una leva di bilancio e di spesa per perseguire le finalità dello Stato sociale e costituzionale.
Chiudendo con una riflessione sul tema del governo dei numeri, si potrebbe dire che, parafrasando un saggio di qualche anno fa “Numerical rules or political government, that is the (European) question”, la riforma della governance economica europea sembra aver già dato una risposta a questa domanda. Siamo davanti, insomma, ad una consistente occasione perduta per mettere mano a quei fondamentali economici europei che oramai definiscono gli assetti costituzionali delle nostre società.