Mi ha sempre affascinato il fatto che una lingua riesca a produrre e riconoscere un numero potenzialmente infinito di frasi partendo da un numero finito di unità di base (fonemi) e con un numero finito di regole sintattiche, come sottolinea Noam Chomsky parlando dell'«aspetto creativo dell'uso del linguaggio».[2] L’idea del linguaggio come macchina combinatoria, capace di produrre un’infinità di parole e testi, non è nuova, precisa Chomsky. Si trova già contenuta in Wilhelm von Humboldt (1767-1835), grande linguista tedesco, quando afferma che una lingua «fa uso infinito di mezzi finiti» e prima ancora nei grammatici di Port-Royal per i quali il linguaggio è una «meravigliosa invenzione capace di comporre con venticinque o trenta suoni un'infinita varietà di parole».
Se vogliamo è lo stesso concetto espresso da Jorge Luis Borges in La biblioteca di Babele:[3]
la Biblioteca è totale, e […] i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue.
Certo, come fa notare Umberto Eco, questo kit preconfezionato che è l’alfabeto, composto di un numero variabile di elementi a seconda delle lingue, oscillante tra venti e trenta, può dar vita a combinazioni le più diverse e lontane fra loro: Dante ad esempio ne ha tratto la Divina Commedia, Hitler il Mein Kampf e l’oscuro brigadiere calviniano un patetico rapporto burocratico.[4]
Come si deduce dal titolo del mio contributo, mi occuperò di letteratura, di gioco e di combinatoria. Su che cosa sia la letteratura me la cavo con una definizione molto semplice:[5] «La letteratura è l'insieme di opere che una civiltà ha prodotto nel tempo, attraverso una serie di autori, sia in prosa che in poesia, in tutti generi che le compongono: dal romanzo all'epistolario, dall'autobiografia al saggio, dalla poesia d'amore a quella civile a quella ispirata a ogni aspetto della vita dell'uomo». Sul gioco dirò qualcosa più avanti.
Vediamo quindi che cosa significa combinatoria. Mi avvalgo del dizionario, nella fattispecie lo Zingarelli, dove «combinatorio» sta per: «Fondato sulla combinazione di vari elementi», e la «combinazione», in ambito matematico, è definita: «numero di raggruppamenti non ordinati che si possono formare con elementi di un insieme». Senza scomodare i massimi sistemi (la complessità dell’ars combinatoria studiata, fra gli altri, da Leibniz), mi limito a un esempio di combinazione molto elementare. Le combinazioni (permutazioni) possibili di una serie di quattro lettere ABCD sono 24 e si presentano come:
ABCD BACD CABD DABC
ABDC BADC CADB DACB
ACBD BCAD CBAD DBAC
ACDB BCDA CBDA DBCA
ADBC BDAC CDAB DCAB
ADCB BDCA CDBA DCBA
Con 26 lettere (come quelle dell’alfabeto italiano), combinate in gruppi diversi (di due, tre, quattro, ecc. unità letterali) è possibile creare un’infinità di parole (di senso o no) e con queste parole un’infinità di frasi e con queste frasi un’infinità di testi (ad esempio poesie e romanzi).
Se ci pensate lo stesso accade nella musica: con un numero ristretto di note si possono creare un’infinità di testi musicali (sinfonie, canzoni, ecc.), e anche nella pittura dove i colori fondamentali sono pochi (secondo la teoria del fisiologo tedesco Ewald Hering i cosiddetti colori puri sono sei: bianco e nero, verde e rosso, giallo e blu), ma variando la loro combinazione se ne possono ottenere infiniti.
Il concetto di combinatorietà è strettamente legato a quello di struttura, un insieme di relazioni tra elementi di vario tipo. In ogni settore dell’attività artistica (letteratura, arti visive, cinema, teatro, musica, ecc.) la struttura di un’opera, cioè il modo in cui le sue diverse parti sono combinate, riveste un’importanza significativa per la sua efficacia espressiva.
Ma torniamo al linguaggio: l’uso combinatorio dei pochi segni e suoni che abbiamo a disposizione è talmente creativo che possiamo prenderci la libertà d’inventare delle lingue artificiose, inesistenti o di parlare senza vere parole come nel grammelot, linguaggio che riproduce per imitazione alcune proprietà del sistema fonetico di una determinata lingua (l’intonazione, il ritmo, le sonorità, le cadenze). In breve nel grammelot si combinano dei suoni in modo da farli sembrare, ascoltandoli in successione, una lingua naturale, esistente, come il francese, l’inglese o il russo (vi ricordate Chaplin quando canta «Io cerco la Titina» in Tempi moderni?).[6]
L'idea del linguaggio come macchina combinatoria ha ispirato molti scrittori, che si sono inventati delle macchine per costruire testi. Ne ricordo alcuni.
A Lagado, capitale dell'isola di Balnibarni, il capitano Lemuel Gulliver, protagonista di I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, visita la Grande Accademia, composta di una serie di case situate a destra e a sinistra di una strada; ogni stanza ospita uno o più inventori. Fra essi, un professore che in un'aula amplissima, circondato da quaranta scolari, illustra le proprietà di una macchina, in cui è travasato l'intero vocabolario, grazie alla quale la persona più ignorante, con poca spesa e uno sforzo muscolare minimo, può scrivere libri di filosofia, poesia, politica, legge, matematica e teologia, senza alcun bisogno di genio o di studio. Ecco la descrizione di questa macchina nel racconto di Gulliver:
Situata nel bel mezzo dell'aula, [la macchina, n.d.r.] misurava venti piedi quadrati. La superficie risultava di vari pezzetti di legno, grossi press'a poco come dadi, alcuni di maggiore dimensione degli altri. Erano tutti congiunti da esili fili di ferro. Incollata sopra le quattro facce dei pezzetti di legno era della carta, e su questa si trovavano scritte tutte le parole della loro lingua, coniugate nei diversi modi e tempi e declinate nei vari casi, ma senza ordine veruno. Il professore m'invitò a prestare attenzione, ché appunto s'accingeva a mettere in moto la macchina. Ciascun discepolo prese, al cenno del maestro, un manico di ferro (ce n'erano quaranta fissati intorno agli orli della macchina) e d'un tratto lo fece girare. Naturalmente la disposizione delle parole cambiò in tutto e per tutto. Il maestro ordinò allora a trentasei scolari di leggere pian pianino i vari righi così come apparivano sulla macchina; e quando quelli trovavano tre o quattro parole unite insieme che potevano far parte d'una sentenza, le dettavano ai quattro rimanenti discepoli che fungevano da scrivani [...]. Gli studenti, tutti i giorni per sei ore, erano occupati in questo lavoro, e il maestro mi mostrò una collezione di grossi volumi in folio, contenenti monche sentenze, che egli si proponeva di legare insieme per dare al mondo, in base a tanto ricco materiale, un organamento completo di tutte le arti e di tutte le scienze.[7]
Ne La sinagoga degli iconoclasti (1972) di Rodolfo J. Wilcock, straordinario scrittore italiano di origine argentina, amante di “fatti inquietanti”, di “mostri” e di “folli letterari”, poeta, drammaturgo e traduttore, fra gli altri, di testi di Christopher Marlowe e James Joyce, è riportato, fra i profili di esseri che, sulle solide basi della scienza o comunque di una qualche disciplina rigorosa, si sono mossi verso la demenza, il caso dell’orologiaio francese Absalon Amet che, nel Settecento, inventa e fabbrica il Filosofo Meccanico Universale. Si tratta di un apparecchio, grande come un’intera stanza, in grado di produrre una quantità quasi infinita di frasi, combinando una serie di vocaboli (sostantivi, avverbi di ogni sorta, congiunzioni, negazioni, verbi sostantivati, ecc.) scritti su delle targhette disposte a loro volta su ruote dentate caricate a molla e regolate nel loro movimento da uno speciale congegno a scatto che periodicamente ferma l’ingranaggio. Con la figlia Marie Plaisance, Amet pubblica nel 1774 a Nantes Pensées et Mots Choisis du Philosophe Mécanique Universel, una raccolta di frasi “pensate” dalla macchina, fra cui troviamo una frase di Lautréamont: «I pesci che nutri non si giurano fraternità», un’altra di Arthur Rimbaud: «La musica sapiente manca al nostro desiderio», una di Jules Laforgue: «Il sole depone la stola papale», e ancora altre sorprendenti per l’epoca: «Tutto il reale è razionale»; «Il bollito è la vita, l’arrosto è la morte»; «L’inferno sono gli altri»; «L’arte è sentimento»; «L’essere è divenire per la morte».[8]
All’inizio degli anni sessanta, Nanni Balestrini compone alcune poesie con l’ausilio del calcolatore elettronico.[9] Il procedimento usato da Balestrini per creare le sue poesie combinatorie si basa sulla divisione in «elementi», cioè in gruppi di poche parole legate sintatticamente, di tre brani:
1. «L’accecante globo di fuoco si espande rapidamente trenta volte più luminoso del sole quando raggiunge la stratosfera la sommità della nuvola assume la ben nota figura di fungo» (dal Diario di Hiroshima di Michihito Hachiya).
2. «La testa premuta sulla spalla, i capelli tra le labbra, giacquero immobili senza parlare finché non mosse le dita lentamente cercando di afferrare» (dal Mistero dell’ascensore di Paul Goldwin).
3. «Mentre la moltitudine delle cose accade io contemplo il loro ritorno; malgrado che le cose fioriscano esse tornano tutte alla loro radice» (dal Tao te King di Lao-Tse).
Le istruzioni per il calcolatore sono le seguenti: a) effettuare combinazioni di 10 elementi sui 15 dati, senza permutazioni e ripetizioni; b) costruire catene di elementi tenendo conto dei codici di testa e di coda (cioè: la testa e la coda degli elementi vanno saldate grammaticalmente, ad esempio: «i capelli tra le labbra» + «assume la ben nota forma di fungo» diventa «i capelli tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo»); c) evitare la contiguità di elementi derivati dallo stesso brano; d) suddividere le catene di 10 elementi in 6 versi di 4 «unità metriche» ciascuno (ecco un elemento diviso in unità metriche: «La testa –premuta –sulla spalla –trenta volte»).[10]
In qualunque modo siano combinati i tre testi di partenza producono un senso preciso. Il trattamento imposto da Balestrini è solo uno dei tanti modi possibili:
Tape Mark I
La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole io contemplo il loro ritorno,
finché non mosse le dita lentamente e mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte alla loro radice e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.
[...]
L'esperimento con il computer di Balestrini fa venire in mente «Il Versificatore», un racconto in forma teatrale contenuto nelle Storie naturali (1966) di Primo Levi.[11] Il protagonista del racconto di Levi è un poeta che sgobba, senza «mai un momento di libera ispirazione», per comporre carmi nuziali, poesia pubblicitaria, inni sacri, ecc. Dal rappresentante Simpson il nostro poeta acquista, neutralizzando le diffidenze della propria segretaria, il Versificatore, una macchina per comporre versi di ogni tipo, munita di una tastiera simile a quella degli organi musicali e delle Linotype.
Il testo teatrale di Levi, che riporta anche alcuni esempi di poesie create dal Versificatore, si conclude con questa battuta del poeta:
Posseggo il Versificatore ormai da due anni. Non posso dire di averlo già ammortizzato, ma mi è diventato indispensabile. Si è dimostrato molto versatile: oltre ad alleggerirmi di buona parte del mio lavoro di poeta, mi tiene la contabilità e le paghe, mi avvisa delle scadenze, e mi fa anche la corrispondenza: infatti, gli ho insegnato a comporre in prosa, e se la cava benissimo. Il testo che avete ascoltato, ad esempio, è opera sua.
Levi non è estraneo al fascino del gioco letterario, testimoniato per altro dalla sua quarantennale attrazione per Rabelais; va ricordato inoltre che lo scrittore torinese compose bellissimi rebus e fra le altre cose un citatissimo (fra gli addetti ai lavori, s'intende) palindromo interlinguistico: «in arts it is repose to life: è filo teso per siti strani». Nel «risvolto» editoriale da lui stesso preparato per le Storie naturali, Levi avverte che nei suoi racconti vi si può trovare non solo satira e poesia, impostazione scientifica e attrazione per l'assurdo, ma anche «amore dell'ordine naturale e gusto di sovvertirlo con giochi combinatori».
La bella introduzione di Ernesto Ferrero all'edizione einaudiana de I racconti (1996) di Levi, che raccoglie testi contenuti in Storie naturali, Vizio di forma e Lilít, si apre con una critica al diffuso pregiudizio che vuole che chi pratica le scienze esatte e le tecniche sia un uomo arido, negato alle altezze dello spirito e all'emozione della creatività; in realtà «solo chi dispone di strumenti concettuali e conoscitivi che siano al tempo stesso complessi, sofisticati e duttili può tentare la vera creatività». Non credo − aggiunge Ferrero − di conoscere persone più creative dei fisici, dei biologi e dei matematici. E poi sottolinea come «le esperienze letterarie più autenticamente feconde del nostro Novecento, le più innovative, le più ricche di contenuto nutrizionale per la mente del lettore, ci vengano da tre scrittori in cui gli interessi tecnico-scientifici si sono felicemente coniugati con un solido sostrato di cultura classica»: Gadda, Calvino e Levi.
A proposito di quest'ultimo, dopo aver ricordato che Levi fornì una preziosa consulenza terminologica a Calvino, impegnato nell'impervia traduzione della Canzone del polistirene (1958) di Queneau (la Canzone, un'indagine confidenziale sulla creazione della materia plastica, era il commento a un cortometraggio promozionale per la regia di Alain Resnais; lo stesso Calvino riconobbe a Levi una «vena di enciclopedista delle curiosità agili e minuziose»), Ferrero conclude l'introduzione al libro dei racconti di Levi con questa, solo in apparenza, sorprendente affermazione:
Levi si sarebbe trovato benissimo tra i maghi-bambini dell'Oulipo, quel laboratorio di letteratura potenziale attivo a Parigi soprattutto negli anni '60 e '70, che annoverava tra i suoi soci più attivi, oltre allo stesso Queneau, Calvino e Perec. Non si limitavano, gli oulipiens, a studiare tutte le possibili combinazioni che si offrono alla letteratura: convinti, con Paul Valéry, che la più grande libertà nasce dal più grande rigore, si davano programmaticamente gabbie ristrette, che chiamavano contraintes, costrizioni, strettoie, per mettere alla prova il loro ingegno di costruttori (sappiamo che Perec riuscì a scrivere un intero romanzo senza usare la lettera e). Ma la letteratura è proprio questo, cercare di far passare il mare in un imbuto, come diceva Calvino. E Primo Levi altro non ha fatto, sin da quando ha forzato la gabbia mortale del Lager opponendogli anzitutto il paziente esercizio di una ragione che cercava di capire, di stabilire un reticolo di cause ed effetti, di far passare una tragedia senza nome nello stretto imbuto di una esperienza raccontabile. Non diversamente lottò durante la sua vita di chimico contro l'inerzia riottosa della materia. E infine, nei racconti, e poi nei romanzi, diede alla sua immaginazione i vincoli di ristrette ipotesi di lavoro, perché sapeva che solo lavorando sul margine più risicato si può allargare il varco, e farvi passare una migliore comprensione di quello che siamo stati e siamo, dei nostri sogni tormentosi, delle nostre eredità troppo spesso dimenticate, e dell'incerto ma non disperante futuro che ci attende.[12]
Nel racconto di Tommaso Landolfi La dea cieca o veggente (1962)[13] il poeta Ernesto s’interroga su quante siano le possibili combinazioni di frasi, parole, sillabe capaci di comporre poesie nelle varie lingue del mondo. Di certo si tratta di un numero limitato sebbene stragrande. Dopo centinaia di migliaia d’anni, esaurite tutte le combinazioni possibili, si dovrebbe forzatamente ricominciare da capo. Per questo, scrive Landolfi, è inutile che qualcuno si dia tanto da fare: la poesia ci pensa da sé a morire. In base a queste amare considerazioni il poeta Ernesto è solito comporre le sue poesie estraendo a sorte le parole da una grande urna con manovella che si è fatta appositamente costruire, simile a quelle in uso per le lotterie o a quei cilindri dove si tostava il caffè o ancora a un frullatore.
Ne Lo scrittore automatico (1953) di Roald Dahl, un giovane aspirante scrittore, Adolph Knipe, stanco di vedere le sue creazioni rifiutate dalle riviste letterarie, risolve il problema inventando una macchina in grado di produrre qualsiasi tipo di storia, di elaborare un racconto di cinquemila parole in trenta secondi, attingendo a una sezione «memorie trame» per la definizione del tipo di intreccio da raccontare. La macchina è munita di varie file di pulsanti: una per la scelta del genere (storico, satirico, filosofico, politico, sentimentale, erotico, umoristico o medio); una per l’argomento (vita militare, epopea dei pionieri, guerra civile, guerra mondiale, questione razziale, ecc.); una terza fila per lo stile letterario (classico, bizzarro, frizzante, Hemingway, Faulkner, Joyce, femminile, ecc.); la quarta fila per i personaggi; la quinta per il lessico; ecc. La macchina offre inoltre la possibilità di modulare o mescolare continuamente cinquanta qualità diverse come la tensione, l’imprevisto, lo humour, il pathos e il mistero.[14]
Un’ultima storia legata alle macchine combinatorie. Ancora ne La sinagoga degli iconoclasti Wilcock ci parla di Yves de Lalande, pseudonimo di Hubert Puits, inventore della Ditta Lalande, il primo produttore di romanzi su scala industriale.[15] Puits ha costruito uno stabilimento o fabbrica di romanzi, nel petit-hôtel di Meudon, che gli permette di pubblicare, tra il 1927 e il 1942, 672 romanzi, di cui 84 trasposti con svariato successo sullo schermo. Puits assume allo scopo delle lavoranti, tutte ragazze sane e spiritose, poco propense all’affermazione. In qualità di direttore-proprietario della Ditta, Puits propone un tema qualsiasi; la titolare dell’ufficio Intrecci-base sceglie un intreccio adatto al tema da un fornitissimo archivio, e lo passa alla titolare di Personaggi che, desunti i personaggi secondo formule collaudate, li trasmette all’ufficio Storie individuali e Destini. Quest’ultimo ufficio, di carattere combinatorio, si serve di una roulette: per ogni personaggio tira tre numeri corrispondenti a tre schede dell'archivio di Incidenti-Base, con le quali viene rapidamente composto il destino di ogni personaggio. Nell'ufficio Concordanze si concordano tra di loro i destini individuali, in modo da evitare che un personaggio sposi suo figlio o nasca prima di suo padre o anomalie del genere. La Vicenda ormai composta e concordata passa all'esperta in Stili-Base che assegna al romanzo lo stile più adatto, tra quelli in voga in quel momento; infine la ragazza addetta ai Titoli propone da sei a otto titoli, da scegliersi a lavoro ultimato.
C’è poi chi non inventa delle macchine ma segue un’altra strategia come l’io narrante di Lo scrittore robot (1988) di Luigi Malerba,[16] un ingegnere progettista che si dà alla letteratura cercando di «robotizzarsi» il più possibile. L’ingegnere affida a un computer la stesura del suo nuovo romanzo. Si attiva così per inserire nella memoria del computer i dati sulle sue intenzioni letterarie, e cioè sul tipo di romanzo che intende scrivere, sulle emozioni che vuole provocare nei lettori, sulle idee generali alle quali intende ispirarsi. Il computer gli dà consigli, collabora alle varie stesure come un amico intelligente, molto colto e anche furbo (un giorno l’ingegnere tiene nascosto al computer un capitolo per sottrarlo al suo giudizio e alle sue correzioni, ma il computer se ne accorge subito).
Che combinare sapientemente le parole sia un’arte lo si vede in modo chiaro in poesia.
Prendiamo il primo verso de L’infinito di Giacomo Leopardi:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle
Se spostiamo l’aggettivo ermo, ad esempio lo mettiamo al fondo, se cioè cambiamo la disposizione, la combinazione delle parole di quel verso, tutto il fascino, l’incantesimo di questa poesia crolla:
Sempre caro mi fu questo colle ermo
Il significato non muta, ma cambia la musica e quindi – come osserva Attilio Bertolucci – la poesia non c’è più, questo non è più un bel verso. È molto importante, dice ancora Bertolucci, quello che ti interessa sapere, il significato, ma è anche molto importante e decisivo quello che la poesia provoca attraverso le immagini, è qualcosa che viene forse prima del pensiero, cioè il suono, la musica.[17]
In un articolo di Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio),[18] dopo aver accennato, da un lato, a alcune analisi in cui le possibilità narrative sono assunte come il risultato di un gioco combinatorio (gli studi di Vladimir Jakovlevič Propp sulle fiabe russe, quelli dei formalisti russi e della scuola semiologica di Roland Barthes insieme al lavoro creativo degli scrittori del gruppo Tel Quel e naturalmente dell'Oulipo francese, di cui parlerò più avanti) e, dall'altro, alla nuova tendenza in atto nella cultura contemporanea di vedere il mondo sempre più come discreto, nel senso matematico del termine, cioè composto di parti separate, e non come continuo (il riferimento è ai modelli interpretativi di scienziati come Claude Shannon, Norbert Wiener, John Von Neumann, Alan Turing, Noam Chomsky, Julien Algirdas Greimas, ecc.), Calvino s'interroga sul senso della letteratura. Essa non si risolve in un problema d'ispirazione discesa da chissà quali altezze o d'intuizione pura o di rispecchiamento delle strutture sociali o di presa diretta della psicologia del profondo, come vogliono le varie estetiche del novecento. Piuttosto la letteratura è «un'ostinata serie di tentativi di far stare una parola dietro l'altra seguendo certe regole definite, o più spesso regole non definite né definibili ma estrapolabili da una serie di esempi o protocolli, o regole che ci siamo inventate per l'occasione cioè che abbiamo derivato da altre regole seguite da altri». Lo scrivere, dice Calvino, è solo un processo combinatorio tra elementi dati. Ma se la letteratura è un gioco combinatorio che segue le possibilità implicite nel proprio materiale, indipendentemente dalla personalità del poeta, va detto anche, aggiunge Calvino, che tale gioco a un certo punto si carica di significati inattesi, di effetti imprevisti, come nel procedimento del gioco di parole.
Convinto che l'universo linguistico abbia ormai soppiantato la realtà, Calvino concepisce il romanzo come un meccanismo che gioca artificialmente con le possibili combinazioni delle parole. Fra i primi prodotti di questa sua nuova concezione della letteratura è Il Castello dei destini incrociati (1969), al quale in seguito si aggiunge La Taverna dei destini incrociati (1973),[19] in cui il percorso narrativo è affidato alla combinazione delle carte di un mazzo di tarocchi, adoperati, racconta Calvino nella presentazione del suo libro, come una macchina narrativa combinatoria. Un gruppo di viandanti si incontra in un castello: ognuno ha un'avventura da raccontare ma non può farlo perché ha perduto la parola. Per comunicare allora i viandanti usano le carte dei tarocchi, ricostruendo grazie a esse le proprie vicissitudini. Il mazzo dei tarocchi è visto da Calvino come un sistema di segni, come un vero e proprio linguaggio: ogni figura impressa sulla carta ha un senso polivalente così come lo ha una parola, il cui esatto significato dipende dal contesto in cui viene pronunciata. L'intento di Calvino è smascherare i meccanismi che stanno alla base di tutte le narrazioni, creando un romanzo che va oltre se stesso, in quanto riflessione sulla propria natura e configurazione.
Altro romanzo di carattere combinatorio è Le città invisibili (1972),[20] il cui modello di riferimento è Il Milione (circa 1289) di Marco Polo. Ogni capitolo si apre e si chiude con un dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan, che interroga l’esploratore sulle città del suo immenso impero. Marco Polo descrive città irreali, immaginarie, frutto della sua fantasia, che colpiscono sempre più il Gran Khan. Il libro è costituito da nove capitoli: ognuna delle 55 città, tutte con nomi di donna (Diomira, Isidora, Dorotea, ecc.), è divisa in base a una categoria, 11 in totale, dalle «città e la memoria» alle «città nascoste». Il lettore ha quindi la possibilità di “giocare” con la struttura dell’opera, scegliendo di seguire un raggruppamento o un altro, in base alla divisione in capitoli o in categorie, o semplicemente saltando da una descrizione di città a un’altra.
Corollario a tutto questo è la dissoluzione dell’io dell’autore, la scomparsa della figura dell’autore: «questo personaggio a cui continuiamo ad attribuire funzioni che non gli competono, l’autore come espositore della propria anima alla mostra permanente delle anime, l’autore come utente d’organi sensori e interpretativi più ricettivi della media, l’autore questo personaggio anacronistico, portatore di messaggi, direttore di coscienze, dicitore di conferenze alle società culturali».[21]
I romanzi a struttura combinatoria sono costruiti in modo da lasciare al lettore la libertà di scegliersi un suo personale percorso di lettura, e quindi di combinare a sua discrezione e piacere le pagine del testo. Ciò ha implicazioni importanti. Il lettore, da soggetto passivo, diventa attore che interagisce con il testo e lo piega in qualche modo alla propria sensibilità, allo stato d’animo del momento, mimando approssimativamente la navigazione zigzagante tipica del web.
Uno dei precursori (verrebbe da dire il prototipo) dei romanzi a struttura combinatoria è Un racconto a modo vostro di Raymond Queneau, uscito la prima volta su «Les Lettres Nouvelles» nel luglio-settembre 1967.[22] Il testo, presentato all’83a riunione di lavoro dell’Oulipo (vedi più avanti), si ispira, per ammissione del suo autore, alle istruzioni destinate ai computer oppure all’insegnamento programmato.
L’incipit di Un racconto a modo vostro è questo:
1. Volete conoscere la storia dei tre arzilli piselli?
Se sì, passate al n. 4.
Se no, passate al n. 2.
2. Preferite quella delle tre pertiche smilze?
Se sì, passate al n. 16.
Se no, passate al n. 3.
3. Preferite quella dei tre mediocri arbusti?
Se sì, passate al n. 17.
Se no, passate al n. 21.
Il testo si sviluppa con una struttura a grafo o diagramma di flusso (flowchart), un diagramma generalmente impiegato nella scrittura di programmi per computer, che permette di raffigurare graficamente le diverse sequenze di una procedura. Questa struttura ammette la possibilità di percorrere un tragitto a ritroso, passando più volte per lo stesso vertice, di cambiare percorso o saltare a un livello successivo senza transitare su quelli intermedi. Esempio classico di queste strutture sono i libri-game dove il lettore è chiamato a scegliere tra diverse alternative narrative, calandosi nei panni del personaggio,[23] come accade in Un racconto a modo vostro chetermina con questi due punti:
20. Non c’è seguito, il racconto è finito.
21. Anche in questo caso, il racconto è finito.
A proposito dei romanzi[24] a struttura combinatoria, che lasciano al lettore, come ho detto, la libertà di scegliersi il percorso di lettura, ovvero di combinarne le varie parti in modo personale, e quindi casuale (il caso gioca un ruolo determinante nella lettura di questi libri), possiamo distinguere A) i romanzi di tipo cartaceo e B) quelli in formato elettronico.
Per quanto riguarda i primi possiamo a loro volta distinguere A1) i romanzi in forma di libro tradizionale, con pagine rilegate, e A2) quelli in cofanetto con pagine staccate.
Alla categoria dei romanzi di tipo A1 appartengono due testi molto noti.
La struttura di Fuoco pallido (1961) di Vladimir Nabokov è labirintica.[25] Il cuore del libro è un poema di carattere autobiografico in quattro canti per 999 versi complessivi, scritto da John Shade, poeta e letterato statunitense che lavora come professore universitario nell'immaginario Wordsmith College, sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Il poema è preceduto da una prefazione cui segue un commento, entrambi scritti da Charles Kinbote, un enigmatico personaggio proveniente da Zembla, paese immaginario del nord Europa. Kinbote è amico e collega di Shade nella stessa università americana. Nel libro ci sono continui rimandi all'interno dell'apparato di note e riferimenti al poema che costringono il lettore a muoversi dentro la narrazione adottando strategie soggettive di lettura. In Fuoco pallido s’intersecano numerose storie che si prestano a interpretazioni contrastanti: Kinbote esiste davvero come personaggio oppure è un personaggio di Shade, che ha scritto il poema e il commento, inventando la propria morte? O viceversa l’autore del poema è Kinbote che si è inventato il personaggio di Shade? Il genio letterario è Shade o Kinbote? Kinbote è davvero il re di Zembla in esilio come dichiara oppure è un mitomane? O ancora Kinbote potrebbe essere l'alter ego del professor Botkin, uno studioso americano di origine russa che lavora nell'università? O addirittura Botkin è l'autore sia del poema che del commento? e via di questo passo.
Fuoco pallido risponde in gran parte ai connotati di ciò che Calvino ha chiamato «iper-romanzo», ovvero un testo che funziona come una macchina per moltiplicare le narrazioni, dove le sue parti sviluppano nei modi più diversi un nucleo comune, e che agiscono su una cornice che li determina e ne è determinata, un testo costruito da molte storie intrecciate fra loro che danno vita a infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili.[26]
Numerosi sono gli esempi di romanzi simili per struttura a Fuoco pallido, ovvero con una narrazione che procede a scatole cinesi, dove molteplici storie sono incapsulate l’una nell’altra. Si pensi fra tutti al Manoscritto trovato a Saragozza (1803-1815)[27] del conte polacco Jan Potocki, opera suddivisa in «giornate», una sorta di Decamerone a tinte fosche, dove dalla storia del protagonista Alfonso sbocciano storie di secondo grado entro cui si sviluppano storie di terzo grado, e così via, in un gioco di specchi, e a La vita istruzione per l’uso (1978)[28] di Georges Perec che descrive un condominio di 10 piani, ciascuno con 10 stanze: ci sono perciò 100 luoghi da descrivere nei singoli capitoli corrispondenti a una scacchiera 10 per 10; ogni stanza contiene un personaggio che compie un’azione e ci sono 10 tipologie di personaggi e 10 di azioni.[29]
Questa struttura letteraria (racconti che stanno dentro altri racconti) è stata definita da Claude Berge (1926-2002), matematico e membro dell’Oulipo, racconto telescopico:
Un’altra forma di letteratura, che può prestarsi a schemi ricchi di proprietà combinatorie, è ciò che si può convenire di chiamare racconto telescopico. Dopo il celebre romanzo di Potocki, Un manuscrit trouvé à Saragosse, soprattutto dopo i romanzi telescopici di Eugène Sue, non sono mancati autori che facessero intervenire personaggi che raccontino avventure nelle quali intervengano altri protagonisti chiacchieroni che raccontino altre avventure, producendo così tutta una serie di racconti incastrati gli uni negli altri. Nei suoi poemi, Raymond Roussel arrivava a aprire parentesi dentro parentesi fino a sei volte di seguito.[30]
Ne Il gioco del mondo. Rayuela (1963)[31] di Julio Cortázar, considerato uno dei romanzi più influenti della letteratura ispano-americana contemporanea, il protagonista, lo studente argentino Horacio Oliveira, si muove attraverso una Parigi popolata da affittacamere xenofobe, intellettuali male in arnese, pianiste patetiche, scrittori distratti facili vittime di incidenti stradali, ecc.; Oliveira si muove come attraverso le caselle della rayuela (da raya, che in spagnolo significa «linea», «striscia»), antico gioco per bambini che si svolge su un tracciato di caselle disegnato per terra: in Italia è anche chiamato «gioco del mondo» oppure «settimana» o «campana». Anche in questo caso il romanzo è ricco di storie parallele montate raggruppando materiali eterogenei: ritagli di giornale, citazioni, testi di critica, ecc.
Nella «Tavola d’orientamento» che apre il romanzo, una sorta di avvertenza per il lettore, Cortázar scrive:
A modo suo questo libro è molti libri, ma soprattutto è due libri.
Il primo lo si legge come abitualmente si leggono i libri, e finisce con il capitolo 56 e alla pagina ove tre evidentissimi asterischi equivalgono alla parola Fine. Conseguentemente il lettore potrà prescindere senza rimorsi di coscienza da quel che segue.
Il secondo, lo si legge cominciando dal capitolo 73 e seguendo l’ordine indicato a piè di pagina d’ogni capitolo.
Alla fine di ogni capitolo Cortázar indica il capitolo successivo da leggere: così alla fine del capitolo 73 troviamo l’indicazione (-1), che significa che dobbiamo andare al capitolo 1 al termine del quale c’è l’indicazione (-2); al termine del capitolo 2 dobbiamo spostarci al capitolo 116, e così via. Esiste un'altra forma di lettura, suggerita indirettamente dall'autore, che consiste nel leggere il romanzo con la sequenza dei capitoli scelta dal lettore, ordinando e disordinando i capitoli a proprio gusto.
In Italia, fra i romanzi a struttura combinatoria, possiamo annoverare L’oblò (1964)[32] di Adriano Spatola, Tristano (1966 e 2007)[33] di Balestrini e Il Giuoco dell'Oca (1967)[34] di Edoardo Sanguineti, tutti e tre nati nel clima della nascente neoavanguardia legata al Gruppo 63.[35]
Quello di Spatola è uno «pseudo-romanzo»[36] (per quanto in copertina e nel frontespizio sotto il titolo sia riportato il termine «romanzo») in cui l’elemento combinatorio si snoda in una sequela di storie indipendenti, assemblate in modo casuale, una sorta di «cadavere squisito» il cui percorso può essere scelto a piacere dal lettore. Il libro, composto da molteplici scene, capitoletti in cui l'indefinita voce narrante espone vicende, spesso surreali, confezionate in un linguaggio sperimentale, osservate dall’intercapedine visuale di un oblò, si apre con un Riassunto delle puntate precedenti e, passando attraverso vari episodi senza un alcun nesso fra loro, intitolati Elefantiasi del buco del muro, Cavalcata di eroi, Fornire le chiavi, Attenti al cane, ecc., a volte ripresi e sviluppati, termina con un sintomatico Continua al prossimo numero.
Nel 1966 Balestrini concepisce il progetto di un romanzo:
Rispetto all’esperimento sulla poesia [si veda la nota 9 di questo scritto, n.d.r.], quello su un testo narrativo aveva il vantaggio di poter avere come prodotto finale un oggetto fisico, un libro, che nelle sue varianti si sarebbe potuto produrre in un grandissimo numero di esemplari, tutti sensibilmente diversi tra di loro, risultanti dalle diverse combinazioni di elementi verbali che il calcolatore volta per volta avrebbe ottenuto seguendo il programma prestabilito.
Ma le tecniche di stampa dell’epoca non permettevano la realizzazione del progetto, per cui nel 1966 mi ero limitato a pubblicarne presso l’editore Feltrinelli una singola versione con il titolo Tristano, un ironico omaggio all’archetipo del romanzo d’amore.[37]
Come spiega Jacqueline Risset nella prefazione all’edizione francese del 1972, Tristano è composto da una serie di dieci capitoli, a loro volta composti da venti paragrafi di frasi già esistenti, estratte da testi diversi (manuali di fotografia, atlanti, romanzi rosa, giornali, guide turistiche) e «deve essere letto come un dispositivo di dimostrazione: con il suo puro e semplice funzionamento come testo, come “romanzo”, compie una serie di dimostrazioni, ogni lettura ne diventa la prova, l'applicazione».[38]
Sempre a proposito della prima versione di Tristano, Walter Pedullà scrive:
Per Balestrini il romanzo non è altro che «un meccanismo puramente verbale», un artificio che non ha alcun rapporto con la realtà (quindi non aiuta a conoscerla), un'entità linguistica che non ha che occasionali e casuali rapporti con il linguaggio parlato, un «ordigno verbale autosufficiente» che «non descrive una realtà preesistente ma ne inventa un'altra inedita che sta lì in quel romanzo e basta». Un romanzo "artificiale" poi non lega la sua materia in azioni verosimili o fantastiche, in esso «tutto torna a far perno sul disegno strutturale», che non è più quello del naturalismo ma è "derivato" o "apparentabile" a quello della poesia: trasferito di fatto da questa alla narrativa, che finisce così d'avere una struttura specifica (malgrado la varietà di essa) come è avvenuto per secoli.[39]
Nel 2007, grazie alla stampa digitale, Balestrini ha potuto licenziare tante versioni ricombinate del romanzo quante sono le copie (2500) della tiratura, ciascuna di esse risulta pertanto essere una copia unica, singolarmente individuata da una sigla alfanumerica di sei cifre (la mia è RE2832).
Il romanzo di Sanguineti è diviso in 111 capitoletti (anche il primo romanzo di Sanguineti Capriccio italiano, uscito nel 1963, conteneva 111 capitoli), corrispondenti a altrettante caselle o «stazioni» di un ipoteticogioco dell'oca, tradizionale gioco da tavolo per bambini. Nel romanzo Sanguineti predispone un «magazzino» di oggetti, un «polverone di cose eterogenee», accostando e addizionando elementi dissimili, rottami in disuso, cartestracce.[40] Una curiosità. La prospettiva dell'oblò, fessura da cui la voce narrante osserva ciò che accade, si ritrova anche ne Il giuoco dell'oca di Sanguineti che inizia così:
Ci sono io, per intanto. Sto dentro la mia grande bara. Sono al buio, chiuso. Le voci che si sentono di fuori, che arrivano qui, che parlano di me, a me, sono le voci dei visitatori. Con la faccia girata tutta da una parte, con tanta fatica, ne vedo qualcuno, lì dei visitatori, da una fessura del legno, tra un'asse e l'altra della parete, che mi passa davanti, che si ferma. Poi qualcuno mette anche l'occhio, lì nella fessura, e si vede che non ci vede niente.
La lettura del romanzo può avvenire servendosi di due dadi numerati dall'1 al 6, come si deduce leggendo la nota posta nella quarta di copertina a firma di Valerio Riva (la firma compare nell’edizione 1991 del romanzo):
Questo Giuoco è composto di 111 numeri, e può anche servire a giocare fino a 79. Ciò deve convenirsi prima di cominciare la lettura. Per giocare ci si serve di due dadi numerati dall'l al 6, e si tira chi debba giocare per primo, e si conviene la posta al giuoco. Colui che fa 12 va al 110 e ci trova SUPERGIRL, e può tirare una volta sola con un solo dado; se per caso l'1 venisse, egli ha finito il romanzo. Se un altro tira il 12, e tirata su con la rete la ragazza va fino al 110, allora il primo resta al frontespizio. Colui cha va al 55, e dietro la macchina da presa vede l'occhio dello scheletro, retrocede dov'era prima, senza pagare; se per caso tirando di nuovo tornasse al 55, ritornerà un'altra volta al suo posto. Colui che va al 50, che è l'ultima cella, paga e vi resta fermo finché un altro lo leva e si ferma al suo posto, pagando il convenuto. Colui che oltrepassa il 111, tornerà indietro e incontrando un'oca retrocederà di nuovo. Colui che arriva al 111 ha vinto tutto, e può passare ad un altro libro. Quando si fa 9 (dove c'è Paola Pitagora), se è con 6 e 3, si va al 96 e si ascolta una sfuriata pienamente giustificata e densa di significato; e se esce 5 e 4, si va al 59, coi due malviventi pronti a chiudere gli sportelli del sarcofago − ed ogni volta che si incontra un'oca, si va avanti ricontando il numero fatto. Si paga il convenuto quando si va alle seguenti poste: 7, 11, 83: e tu lettore riscontrerai la fronzuta verità di questa cabala. Chi va al 48 torna al 21 e vi legge parole oscure. Chi arriva al 45, sulle ali della ragazza vola al 111, putre et factus. La morte sta all'82: chi vi giunge IS DEAD e paga. Chi arriva al 51 si ritira dal giuoco; chi arriva al 28 torna all'l; chi arriva al 64 va avanti di tanti punti quanti quelli dell'ultima giocata; chi, essendosi una volta fermato al 4, capita nel 34, va fino all'83: e capirà perché. Chi arriva al 62 o vuoi al 65, prosegue al 73; e chi arriva al 24, tira i dadi un'altra volta. Ma chi arriva al 44, se è accorto si ferma per due giri: perché la sosta è importante.
E chi avrà fatto tutte queste fermate e avanzate e ritorni e pene e pagamenti, innante e indietro quante fiate correndo come un matto con i suoi dadi e gli occhiali, e il naso puntato e il mento proteso, sì che giunga primo o postremo alla conclusione del giuoco, ne avrà tratto il giovamento che pare trarne l'autore, al lume di quella candela, con la testa tutta piegata sopra il tavolo, lì sopra i suoi fogli, sopra i suoi libri con le figure, sopra il suo teschio giallo.
Con i cardini portanti della struttura di questo romanzo, ovvero casualità, libero arbitrio, giochi combinatori, riprese e salti, Sanguineti sembra invitare il lettore a muoversi dentro l'opera secondo l'estro del momento, anche discontinuamente, in modo incompleto o a fare una sorta di zapping letterario tra i testi-stazione.
Abbiamo detto che alcuni romanzi a struttura combinatoria, editi in forma cartacea, hanno una struttura particolare: sono contenuti in un cofanetto con pagine staccate (li ho indicati con la sigla A2). È il caso di composizione n. 1 (1960)[41] di Marc Saporta, scrittore e giornalista francese, dove la libertà del lettore di leggere il romanzo disponendo come crede l’ordine delle pagine è totale. Anche perché le pagine del romanzo (come si avverte sotto il titolo) sono fisicamente sciolte, libere, separate le une dalle altre. Nella copertina, è scritto in grassetto: «Mescolate le pagine come un mazzo di carte e leggete», mentre la fascetta che tiene unite le pagine riporta questa frase dal sapore queniano: «TANTI ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo». Se vuole, il lettore può alzare le pagine con la mano sinistra, come si fa dalla cartomante; in ogni caso l’ordine in cui appariranno i diversi fogli determinerà il destino del protagonista del romanzo; dall’ordine scelto dipenderà se la storia finirà bene o male.
Sempre in cofanetto con pagine libere si presenta In balìa di una sorte avversa (1969)[42] di Bryan Stanley Johnson, scrittore e poeta inglese, apprezzato da Anthony Burgess e Samuel Beckett. Il romanzo ha 27 sezioni, temporaneamente tenute insieme da una fascetta rimovibile. Eccetto la prima e l’ultima, le altre 25 sezioni sono state concepite per essere lette in ordine casuale. Tuttavia, come si legge nella seconda pagina del cofanetto: «Se i lettori preferiscono non accettare l’ordine casuale in cui ricevono il romanzo, possono riordinare le sezioni in qualunque altra sequenza prima di iniziare la lettura».
Dopo il suicidio dell’autore nel 1973, il romanzo di Johnson è stato riscoperto da Jonathan Coe che lo ha trasformato in un fortunato caso editoriale. Il romanzo riproduce un’esperienza vera accaduta al suo autore. Recatosi a Nottingham come cronista sportivo, Johnson ricorda che in quella città ha vissuto e lavorato un suo amico intimo, un accademico di nome Tony Tillinghast, morto di cancro alcuni anni prima. Mentre segue una partita di calcio, a Johnson tornano in mente ricordi del suo amico Tony, ma questi ricordi riaffiorano alla sua mente in maniera non sistematica, non lineare, e vengono interrotti a caso dalle azioni sul campo. È per registrare questa casualità dei processi mentali, questa mancanza di struttura nel modo in cui ricordiamo le cose e riceviamo impressioni che Johnson decide di strutturare il suo romanzo con pagine non rilegate.
Veniamo ora a un breve cenno sui romanzi a struttura combinatoria in formato elettronico (li ho indicati con la sigla B).[43] Siamo qui nel campo del cosiddetto ipertesto (hypertext), termine coniato dal sociologo, filosofo e pioniere dell'informatica statunitense Ted Nelson nel 1965 con il significato di «non-sequential writing». L’ipertesto consente modalità di lettura diverse da quelle del testo scritto o stampato su carta. È registrato su memoria magnetica e è costituito da sottounità ipertestuali definite nodi. Da ogni nodo si accede a un altro nodo mediante un link, un insieme di istruzioni che, in sede di realizzazione dell’ipertesto, rendono noto al programma ipertestuale quali nodi l’autore voglia legare fra loro.
Afternoon, a story (1987)[44] di Michael Joyce, autore e critico statunitense di letteratura elettronica ipertestuale, è una delle prime opere ipertestuali, composta da un complicato intreccio di frammenti di storie, fruibile attraverso un apposito software sviluppato da un’équipe di cui fa parte lo stesso autore. L'opera si realizza seguendo diversi percorsi all'interno di una serie di nodi, cioè, come già detto, pagine da cui è possibile uscire tramite uno o più link, di modo che il significato dell'opera cambia a seconda del percorso che ha seguito il lettore.
Lo stesso procedimento lo troviamo in RadIo (1993)[45] di Lorenzo Miglioli, semiologo, scrittore e produttore esecutivo. RadIo è il primo romanzo ipertestuale italiano, leggibile su floppy disk in ambienti DOS e Mac, operazione più concettuale che letteraria, come sostiene il suo autore. Quest’opera, dedicata a Philip K. Dick, è stata presentata nell’aprile del 1993 in occasione del convegno per i trent’anni del Gruppo 63 a Reggio Emilia.
L’arte combinatoria trova una sponda appropriata nel gioco linguistico. Al riguardo ci soccorre la definizione di gioco offerta da Giampaolo Dossena. Fra i numerosi significati della parola «gioco» che si trovano nei dizionari (ad es. 14 nello Zingarelli 2011), Dossena ne sceglie uno molto freddo e meccanico: «In un accoppiamento meccanico mobile, [il gioco è lo] spazio residuo tra le due superfici di accoppiamento […] (il gioco di una vite)». Dossena sceglie questa definizione perché è la più utile per cercare di capire cosa significa «gioco di parole». Sulla base di questa definizione le parole, analizzate secondo certi rapporti di parentela, sono viste come elementi di un meccanismo che può funzionare in vari modi. Dunque è il particolare modo in cui due parole si combinano (si apparentano) a qualificare il gioco di parole. Cosciente del carattere provvisorio e non esaustivo che investe ogni tassonomia, Dossena individua tre generi di giochi di parole a seconda che il rapporto tra le due parole in gioco sia riconoscibile come: 1. identità (ad es. sei, parola che può significare cose diverse); 2. semi-identità (ad es. vènti e vénti) e 3. rassomiglianza (ad es. lacune e alcune).[46]
Quando si parla di gioco combinatorio vengono subito in mente i «centomila miliardi di poesie» di Queneau.[47] Si tratta di una forma speciale di poesia combinatoria, un testo “interattivo” esposto in un volume di grande formato, contenente dieci sonetti, uno per pagina, su pagine tagliate in strisce orizzontali, una striscia per ogni verso, di modo che il lettore può far seguire al primo verso d’ogni sonetto il secondo verso d’uno qualsiasi dei dieci sonetti, e così per il terzo, e via via fino al 14° verso (il sonetto ha 14 versi, due quartine e due terzine). I sonetti che si possono così comporre ammontano alla cifra di 1014, cioè centomila miliardi. Scrive Queneau nell'introduzione al libro:
Calcolando 45" per leggere un sonetto e 15" per cambiare la disposizione delle striscioline, per otto ore al giorno e duecento giorni all'anno, se ne ha per più di un milione di secoli di lettura. Oppure, leggendo tutta la giornata per 365 giorni l'anno, si arriva a 190.258.751 anni più qualche spicciolo (senza calcolare gli anni bisestili e altri dettagli).[48]
Per questo bizzarro libro, l’ispirazione è venuta a Queneau non dai giochi surrealisti tipo «Cadavere squisito», ma da un libro per bambini intitolato Têtes Folles (Teste di ricambio), libro le cui pagine sono divise in tre strisce separabili: sulla striscia in alto è disegnata la testa di un personaggio, al centro il busto e in basso le gambe; agendo sulle strisce si ottengono combinazioni di figurine con teste e abiti differenti.[49]
Una piccola digressione. Se «interroghiamo» il libro Centomila miliardi di poesie di Queneau otteniamo in risposta, di volta in volta, un sonetto. A Parigi il medico Giovanni Finazzi (?-1833), che per alcuni anni è stato sindaco di Omegna, concepisce, redige e stampa un libro intitolato L’oracolo della Sibilla Cusiana.[50] Di che si tratta? È un libro divinatorio, strutturato per interrogare la Sibilla Cusiana, dal toponimo Cusio che è il lago d’Orta, situato nelle Prealpi piemontesi.[51] Per consultare la Sibilla il procedimento è in estrema sintesi questo: si formula una domanda indicando il proprio nome, cognome e paese nativo: «Sarò io sfortunato in amore? Federico Gervasi, Roveredo». Poi a tutte le lettere iniziali dei vocaboli scritti (cioè S, I, S, I, A, F, G, R) si mette un numero sulla base di una tabella. A questo punto si effettuano complesse operazioni numeriche grazie alle quali si ottiene una serie di cifre. A ogni cifra corrisponde nel libro una serie di lettere che incollate fra loro danno un particolare risultato, ad esempio:
simostreravertelasortedura
finchetiavvampainsenofiammaimpura
testo che, spaziando e accentando opportunamente, si legge:
si mostrerà verte la sorte dura finché ti avvampa in seno fiamma impura
Dunque L’oracolo della Sibilla Cusiana èa suo modo un testo di letteratura combinatoria basato sugli stessi principi dei Centomila miliardi di poesie di Queneau, anzi, secondo alcuni, è perfino «più bello e più utile».[52]
Fatta questa piccola digressione, domandiamoci: da dove viene l’espressione «letteratura combinatoria»? Nella postfazione ai Centomila miliardi di poesie queniani, François Le Lionnais scrive:
Da Licofrone a Raymond Roussel, passando per i Grand Rhétoriquers, la letteratura sperimentale intende uscire dalla semiclandestinità, affermare la sua legittimità, proclamare le sue ambizioni, darsi dei metodi, adattarsi insomma alla nostra civiltà scientifica. La sua vocazione è di partire in avanscoperta per tastare il terreno, tracciarvi nuove piste, accertarsi se una certa strada finisce in un vicolo cieco, se un’altra è in realtà soltanto vicinale, se un’altra ancora sbocca invece in una via regia che condurrà alle Terre promesse e agli Eldorado del linguaggio. I «Centomila miliardi di poesie» ci propongono uno di questi tentativi, inscrivibile in un capitolo più vasto che si potrebbe definire «letteratura combinatoria», per il quale Raymond Queneau sembra manifestare una particolare predilezione.[53]
Il prurito combinatorio esercita le sue devastazioni al di là dei confini del linguaggio, afferma Le Lionnais, accennando a ricerche analoghe nell’ambito musicale, da John Cage alla musica algoritmica di Pierre Barbaud, da Mozart a Stockhausen («Pezzo per piano n° 11»). In pittura Le Lionnais si limita a segnalare Jazz, un quadro luminoso che consente 211 − 1 (= 2.047) combinazioni, opera di Frank Malina, un ingegnere e pittore statunitense noto per i suoi lavori nello sviluppo della missilistica, una rara combinazione (è proprio il caso di dirlo) di scienziato-artista-editore-umanista.
In uno studio approfondito sull’argomento, Andrea Martines ricorda che, ragionando di «letteratura combinatoria», Le Lionnais si riferisce:
all’insieme delle pratiche letterarie in cui l’opera non fissa una volta per tutte la sequenzialità dei brani di testo che la compongono, ma ne prescrive anzi la ricombinazione secondo procedimenti formalizzati. L’opera combinatoria non viene così letta, ma semplicemente giocata: nella scatola della «letteratura combinatoria» il fruitore trova delle tessere di partenza, che può smontare e rimontare a piacere seguendo le “regole del gioco” annesse. Questo gioco del fare letterario delega così al lettore una parte considerevole della funzione autoriale; ciò che questa letteratura restituisce non è un prodotto letterario, ma un metodo di produzione, un oggetto letterario a metà strada tra l’opera e la struttura.[54]
Queneau e Le Lionnais sono i fondatori dell’Oulipo (acronimo che sta per Ouvroir de Littérature Potentielle, tradotto in italiano con Opificio di Letteratura Potenziale; propriamente ouvroir in francese designa il laboratorio di cucito in un convento di monache o in un istituto di beneficenza), «una singolare consorteria di letterati, dediti a escogitare bizzarre invenzioni partendo da regole formali severamente costrittive, improntate a uno spiccato gusto matematizzante».[55]
Storicamente il gruppo − «una specie di società segreta»[56] − composto di letterati con la passione della matematica e di matematici con la passione della letteratura, è fondato nel 1960 a Parigi, un giovedì, 24 novembre, nella cantina del ristorante «Vrai Gascon» (Vero Guascone), come già accennato, da Le Lionnais e Queneau, e nasce nell’ambito di una delle numerose Sottocommissioni di Lavoro del Collegio di ‘Patafisica, accademia dello sberleffo e della fumesteria istituita l’11 maggio 1948 sempre a Parigi da un cenacolo di letterari, artisti e poeti depositari della ‘patafisica, scienza delle soluzioni immaginarie, del particolare e delle leggi che governano le eccezioni, teorizzata da Alfred Jarry in Gestes et opinions du docteur Faustroll. Pataphysicien. Roman néo-scientifique pubblicato postumo nel 1911.
Fra i membri del gruppo vi sono, fra gli altri, Marcel Duchamp, il surrealista Noël Arnaud, grande specialista di Jarry e di Boris Vian, André Blavier, che ha scritto un bellissimo libro sui «fous littéraires», Italo Calvino, Harry Mathews, Georges Perec, Jacques Roubaud.
Il carattere “potenziale” della letteratura praticata dall’Oulipo risiede nel fatto che si tratta di una letteratura ancora da farsi, da scoprire in opere già esistenti o da inventare attraverso l’uso di nuove procedure linguistiche, una letteratura mossa dall’idea che la creatività, la fantasia trovano uno stimolo nel rispetto di regole, di vincoli, di costrizioni (contraintes) più o meno esplicite, come ad esempio quella di scrivere un testo senza mai usare una determinata lettera (lipogramma). La costrizione è strumento creativo che amplifica le possibilità di raggiungere soluzioni originali, bizzarre: l’essere «costretti» a seguire certe regole induce uno sforzo di fantasia; la costrizione non restringe l’orizzonte delle strategie narrative dello scrittore, al contrario ne allarga le «potenzialità visionarie», paradossalmente è «un inno alla libertà d’invenzione», capace, come «il meccanismo più artificiale», «di risvegliare in noi i demoni poetici più inaspettati e più segreti».[57]
In una conferenza del 1964 sull'Oulipo, Queneau ci dice prima di tutto che cosa non è l'Opificio:
1) Non è un movimento o una scuola letteraria. Noi ci poniamo al di qua del valore estetico, il che non significa che lo disprezziamo.
2 ) Non è neppure un seminario scientifico, un gruppo di lavoro "serio" tra virgolette, benché ne facciano parte un professore della Facoltà di lettere e uno della Facoltà di scienze. Perciò sottoporrò i nostri lavori al gentile pubblico in tutta modestia.
Infine: 3) Non si tratta di letteratura sperimentale o aleatoria (sul tipo, per esempio, di quella praticata dal gruppo di Max Bense a Stoccarda [Queneau allude al saggista e poeta tedesco Max Bense (1910-1999), di formazione scientifica, che ha introdotto criteri propri delle scienze esatte nell'ambito dell'estetica e della teoria letteraria; Bense ha scritto degli «aforismi ultrakafkiani» ottenuti programmando un computer con una scelta statisticamente significativa di parole e frasi tratte dall'opera di Kafka, n.d.r.].
Poi aggiunge:
Adesso dirò che cos'è, o meglio che cosa crede di essere l'Oulipo. Le nostre ricerche sono:
1) Ingenue: uso la parola ingenuo nel suo senso peri-matematico [dal greco perí, cioè «intorno», n.d.r.], come ci dice la teoria ingenua degli insiemi. Procediamo senza troppo sottilizzare. Cerchiamo di dimostrare il movimento camminando.
2) Artigianali, ma questo non è fondamentale. Ci dispiace di non poter disporre di macchine: lamento continuo nel corso delle nostre riunioni.
3) Divertenti: almeno per noi. Certuni le trovano di una «sordida noia», ma questo non dovrebbe spaventarvi perché non siete qui per divertirvi.
Insisterò tuttavia sul qualificativo "divertente". È certo che alcuni nostri lavori possono sembrare dei semplici scherzi o semplici «jeux d'esprit», analoghi a certi «giochi di società».[58]
Lo scopo dei lavori dell'Oulipo, per dirla sempre con Queneau, è quello di «proporre agli scrittori nuove “strutture”, di natura matematica oppure inventare nuovi procedimenti artificiali o meccanici, contribuendo all’attività letteraria: supporti dell’ispirazione, per così dire, oppure, in un certo senso, un aiuto alla creatività».[59]
Nell'Oulipo, scrive Calvino, «domina il divertimento, l'acrobazia dell'intelligenza e dell'immaginazione. [...] Queneau e i suoi, amici della scienza, [...] pensano e parlano attraverso ghiribizzi e capriole del linguaggio e del pensiero».[60]
Il metodo dell'Oulipo − precisa ancora Calvino − si sostanzia nella qualità delle sue regole; quello che conta è la loro ingegnosità, la loro eleganza; se alla qualità delle regole corrisponderà subito la qualità dei risultati, delle opere ottenute per questa via, tanto meglio, ma comunque l'opera non è che un esempio delle potenzialità raggiungibili solo attraverso la porta stretta delle regole. Ogni esempio di testo costruito secondo regole precise apre la molteplicità «potenziale» di tutti i testi virtualmente scrivibili secondo quelle regole, e di tutte le letture virtuali di quei testi. In questo senso, per Calvino, «la struttura è libertà, produce il testo e nello stesso tempo la possibilità di tutti i testi virtuali che possono sostituirlo».[61]
Premesso questo, un tipico esempio di «letteratura combinatoria» maturato all’interno dell’esperienza oulipiana, al pari dei Centomila miliardi di poesie, è Ulcérations (1974) di Perec,[62] un testo dove, usando 399 variazioni (anagrammi) del titolo ULCERATIONS che è un eterogramma, cioè un enunciato che non ripete nessuna delle sue lettere, Perec compone un testo poetico, scomponendo e accentando i vari eterogrammi:
000 ULCERATIONS
001 COEURALINST Cœur à l’instinct saoûl,
002 INCTSAOULRE reclus à trône inutile,
003 CLUSATRONEI Corsaire coulant secourant
004 NUTILECORSA l’isolé,
005 IRECOULANTS tu crains la course intruse?
006 ECOURANTLIS
007 OLETUCRAINS
008 LACOURSEINT
009 RUSECALOTIN Calotin nul, ta sorcière
010 NULTASORCIE t’inocula son lucre si tacite
011 RETINOCULAS
012 ONLUCRESITA
013 CITE…………..
Qui, tuttavia, va sottolineato che il lettore assume un ruolo passivo, nel senso che non sceglie lui il percorso di lettura, quest’ultimo è già stabilito dall’autore del testo. Al massimo il lettore può divertirsi a costruire in proprio un testo simile, come ha fatto R. Campagnoli.[63]
Nel novembre 1990 nasce a Capri l’Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale), omologo del gruppo francese, e come quest’ultimo dedito all’invenzione di testi con regole. Fra i suoi presidenti, l’Oplepo ha avuto Sanguineti.[64] Una delle plaquette edite nella biblioteca dell’Oplepo s’intitola L’isola teletrasportata,[65] sottotitolata «Anagrafie», termine che, al pari di «anagramma», sta a indicare lo spostamento o il rimescolamento delle stesse grafie di un testo. L’operazione messa in atto nella plaquette, di chiara matrice combinatoria, è stata di prendere l’incipit del romanzo di Umberto Eco L’isola del giorno prima[66] e di riscrivere dei testi di senso facendo uso delle stesse parole e degli stessi segni di interpunzione, ovviamente in ordine diverso, contenuti in quell’incipit.[67]
Il testo di partenza è questo:
Eppure m’inorgoglisco della mia umiliazione, e poiché a tal privilegio son condannato, quasi godo d’un’aborrita salvezza: sono, credo, a memoria d’uomo, l’unico essere della nostra specie ad aver fatto naufragio su una nave deserta.
La riscrittura regolata che vinse la gara (perché di una gara si trattò svoltasi nel 1995 in occasione del 54° Congresso Nazionale di Enigmistica a Campitello Matese), è stata quella di Carmelo Filocamo (il cui pseudonimo enigmistico è Fra Diavolo):
Poiché son l’uomo della salvezza della nostra nave, m’inorgoglisco ad una tal specie di privilegio: credo di essere condannato a naufragio, eppure, fatto quasi unico a mia memoria, sono su e godo d’aver un’aborrita, deserta umiliazione.
La versione di Kierkia, curatore della plaquette oplepiana, è invece questa:
Un'aborrita memoria della nostra, della mia deserta umiliazione, e una specie di credo sono quasi nave di salvezza: poiché godo ad aver l'unico privilegio d'esser uomo, su, m'inorgoglisco a tal fatto, eppure son condannato a naufragio.
Il centone è un componimento risultante dalla combinazione di parti di un testo (spesso si tratta di versi) di autori diversi, anche di epoche differenti, parti che vengono unite a formare un nuovo originale testo. È un gioco praticato fin dall’antichità: nella metà del V secolo a.C. appaiono centoni omerici, composti con parole e frasi tratte dall’Iliade e dall’Odissea, mentre nel II secolo d.C. sono di moda i centoni virgiliani, tratti dall’Eneide.[68]
In questa sede mi limito a citare due centoni elaborati in epoca contemporanea.
Con Il centunesimo canto. Philologica dantesca[69] di Luca Chiti, poeta, saggista e membro dell’Oplepo, plaquette n. 18 uscita nel 2001 nella Biblioteca Oplepiana, si raggiunge la vetta più «magistrale» (così si esprime Monica Longobardi nel paragrafo che gli dedica nel suo libro Vanvere)[70] del centone. Quello creato da Chiti è straordinario, «un’acrobazia da applauso» scrive Dossena in una recensione sul «Ventiquattro» il Magazine del «Sole 24 ore».[71]
Si tratta di 151 versi di Dante scelti sapientemente, rispettando il concatenamento delle rime nelle terzine, all’interno della Commedia fino a dar vita a una nuova storia, quella di un certo Gruccio de’ Bardonecchi, «esperto e astutissimo alchimista» fiorentino.
Sbalordisce ne Il centunesimo canto l’ampiezza e la profonda meticolosità filologica delle note poste a commento dei «nuovi» versi danteschi, di cui qui riporto solo un piccolissimo esempio, l’incipit, in un’impaginazione diversa da quella predisposta nella plaquette oplepiana:
E, come l'uom che di trottare è lasso,
poi fummo fatti soli procedendo
3 di corno in corno e tra la cima e 'l basso
Ci sentivano andar; però, tacendo
tra l'altre vidi un’ombra che aspettava;
6 per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo.
E videmi e conobbemi e chiamava
e cominciò, raggiandomi d’un riso.
9 Pensa, lettor, s’io mi maravigliava
Il testo è corredato da tre appendici: la prima riguarda le corrispondenze, cioè le fonti di riferimento nei vari canti del poema; la seconda si occupa di «Le invettive e gli sfoghi» contenuti nella Commedia (contro i simoniaci, l’Italia, i Guelfi e i Ghibellini, ecc.) e la terza infine è relativa alle «Notizie su Gruccio de’ Bardonecchi».
Il centunesimo canto si apre con una spiegazione sulle fortunose circostanze che hanno portato alla scoperta dello sconosciuto canto dantesco. Tutto ha inizio verso la metà degli anni cinquanta, a Lucca, quando in una pausa di studio, mentre sta facendo merenda, tal Giovanni Ciancaglini, allora studente del liceo classico Macchiavelli, oggi affermato ingegnere, getta lo sguardo sul testo aperto dell’Inferno dantesco e vede con la coda dell’occhio «una specie di strisciolina di nebbiosa grumosità proprio nello spazio bianco tra il ventinovesimo e il trentesimo canto del poema»; ingrandita la macchiolina, prima con la lente che gli serve per la collezione di francobolli, poi con l’armamentario usato per sviluppare i negativi delle fotografie, Ciancaglini ottiene un primo risultato, un testo molto sfocato:
dopo un ulteriore ingrandimento la macchiolina si presenta così:
fino a quando, dopo successive prove d’ingrandimento, non compare, bello nitido, il testo de Il centunesimo canto.
Ci mancava anche l’“Ulisse”[72] è un testo di U. Eco uscito sull’«Almanacco del Bibliofilo» del 2009. Si tratta di una finta (fino a un certo punto) recensione all’Ulisse di James Joyce costruita assemblando spezzoni di giudizi tratti da articoli (veri) apparsi negli anni Venti e Trenta, articoli di cui si dà conto dal punto di vista bibliografico in una nota. Eco si è limitato a inserire alcune espressioni di raccordo tra i vari paragrafi, nulla di più.
Il testo inizia così:
È uscito da qualche anno, ma letto da pochi perché scritto in una lingua poco diffusa come l'inglese, uno strano romanzo (romanzo?) dovuto alla penna di Giacomo Yoyce, o Ioice, come scrive il Piovene, o Joyce. Nel tentare di darne conto al lettore (ora che è a disposizione delle persone colte la traduzione francese) mi sento talmente confuso, vittima di sentimenti altrettanto scomposti quanto l'opera che me li ispira, che procederò per osservazioni sparse, appunti per un ulteriore sviluppo, che mi permetto di numerare per non dar l'impressione che questi paragrafi vogliano susseguirsi in modo logico e consequenziale.
1. In Italia quest'opera, come peraltro gli altri libri del Joyce, era nota soltanto a pochi e, anche alla più parte di questi, per sentito dire, perché se ne sussurrava nei cenacoli e nei salotti intellettuali. Così che qualche rara copia di questo Ulysses (che poi andrebbe tradotto come Ulisse, perché in tal modo si chiama in lingua britannica 1'eroe omerico) andava attorno di mano in mano, avaramente prestata, invano tentata di capire e lasciandosi dietro come una confusa e torbida impressione di scandalo, di caotica mostruosità.
2. […]
Mi piace concludere questo mio breve excursus sull’arte combinatoria in letteratura con una nota giocosa citando i funambolismi combinatori di Toti Scialoja che sottopone le parole a continue variazioni sonore:[73]
Che fai malato Amleto con una mela in mano
che fai mela di Amleto nella mano malata
che fai molesto Amleto matto della tua mela
che fai mela di Amleto destinata a letame
che fai letale Amleto masticandola male
che fai mela di Amleto per metà malandata
che fai melato Amleto con una mela in meno?[74]
A proposito delle poesie di Scialoja, spesso attraversate in modo etereo dal gioco della rima, osserva G. Raboni: «La costrizione, la gabbia formale continua a essere fino all'ultimo, per lui (Scialoja, n.d.r.), salvezza, orientamento, rifugio».[75]
Nel congedarmi, vorrei confessare un dubbio che ha iniziato a frullarmi nella testa (a ciabattarmi nella testa, direbbe Manganelli, facendo sentire acusticamente il rumore di quel dubbio) man mano che mi avvicinavo alla fine di questo scritto. Il dubbio è: nel parlare di letteratura come gioco combinatorio avrò combinato qualcosa di buono?
Pubblicato il 17/01/2018
[1]Questo testo riproduce, con qualche modifica, una conferenza da me tenuta il 17 ottobre 2015 all’Auditorium di palazzo Montani a Pesaro nell’ambito della manifestazione intitolata «Lingua e parola (italiana)», a cura di C. Agostinelli e M. Di Bella.
[2] N. Chomsky, Aspetti della teoria della sintassi, in Saggi linguistici. 2. La grammatica generativa trasformazionale, traduzione di A. De Palma, C. Ingrao, A. Woolf De Benedetti, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 39-258.
[3] J.L. Borges, La biblioteca di Babele, in Finzioni, traduzione di Franco Lucentini, Torino, Einaudi, 1980, pp. 69-78, si cita da p. 73.
[4] U. Eco, Quante ne combina Balestrini, in N. Balestrini, Tristano, Roma, DeriveApprodi, 2007, pp. V-XI. La figura dell’oscuro brigadiere cui fa riferimento Eco si trova in I. Calvino, L’antilingua, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, pp. 122-126.
[5] Provocatoria la definizione di letteratura formulata da Giorgio Manganelli: «Asociale, vagamente losca, cinica, da sempre la letteratura rilutta alla storia, alla patria, alla famiglia; a quelle anime oneste che tentano di mettere assieme il bello ed il buono, risponde con sconce empietà. Un fondamentale elemento di disubbidienza governa gli impulsi della letteratura. Vedete come rilutta, come accetta anche di morire, quando la si vuole fabbricare onesta. È ascetica e puttana. Possiamo forse vedere la letteratura come una satira totale, una pura irrisione, anarchica e felicemente deforme; una modulazione del blasfemo. Nel cuore della letteratura sta chiuso un riso tra olimpico e demente, qualcosa di cui molti hanno paura. È uno scandalo, lo scandalo irreparabile, da sempre» (G. Manganelli, È ascetica e puttana, in Il rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi, 1994, pp. 60-61).
[6] A. Bausani, Le lingue inventate. Linguaggi artificiali, linguaggi segreti, linguaggi universali, Roma, Ubaldini, 1974; A. Pozzo, Grr... Grammelot. Parlare senza parole dai primi balbettii al Grammelot di Dario Fo, Bologna, Clueb, 1998.
[7] J. Swift, I viaggi di Gulliver, traduzione di C. Formichi, a cura di M. d’Amico, Milano, Mondadori, 1982, p. 393.
[8] R.J. Wilcock, Absalon Amet, in La sinagoga degli iconoclasti, Milano, Adelphi, 1972, pp. 67-70.
[9] N. Balestrini, Poesie pratiche. 1954-1969, Torino, Einaudi, 1976.
[10] N. Balestrini (a cura di), Tape Mark I, «Almanacco Letterario Bompiani 1962» dedicato a «Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura», a cura di S. Morando, Milano, Bompiani, 1961, pp. 145-151.
[11] P. Levi, Il Versificatore, in I racconti. Storie naturali. Vizio di forma. Lilít, introduzione di E. Ferrero, Torino, Einaudi, 1996, pp. 19-41.
[12] E. Ferrero, Introduzione a Primo Levi, I racconti, cit., p. XX.
[13] T. Landolfi, La dea cieca o veggente, in In società, Milano, Adelphi, 2006, pp. 110-132.
[14] R. Dahl, Lo scrittore automatico, in Il libraio che imbrogliò l’Inghilterra, traduzione di M. Bocchiola, Parma, Guanda, 1996, pp. 42-78.
[15] R.J. Wilcock, Yves de Lalande, in La sinagoga degli iconoclasti, cit., pp. 143-149.
[16] L. Malerba, Lo scrittore robot, in Testa d’argento, Milano, Mondadori, 1988, pp. 137-141.
[17] Queste riflessioni di Attilio Bertolucci sono citate nel libro di M. Santagostini, Il manuale del poeta, Milano, Mondadori, 1988, p. 1.
[18] I. Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, cit., pp. 164-181. Generalmente questo articolo viene indicato come quello che segna il passaggio dal Calvino neorealista e da quello vicino allo sperimentalismo di «Officina» e del «Menabò» al Calvino che aderisce a una nuova idea di letteratura intesa come artificio e gioco combinatorio.
[19] Entrambi i testi sono ora raccolti in I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Milano, Mondadori, 1994. Calvino aveva pensato di scrivere un terzo testo usando i fumetti, considerati l’equivalente contemporaneo dei tarocchi come rappresentazione dell’inconscio collettivo, per raccontare delle storie; questo terzo testo, mai realizzato, avrebbe dovuto chiamarsi Il motel dei destini incrociati.
[20] I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972.
[21] Id., Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), cit., p. 173.
[22] Ora in R. Queneau, Un racconto a modo vostro, in Segni, cifre e lettere e altri saggi, introduzione di I. Calvino, traduzione di G. Bogliolo, Torino, Einaudi, 1981, pp. 52-55. Una curiosità. In un articolo del 1984 Calvino accosta il procedimento di Queneau a Jacques le fataliste di Diderot: «Va detto che col lettore Diderot gioca un po’ come il gatto col topo, a ogni nodo della storia aprendogli davanti il ventaglio delle varie possibilità, quasi a lasciarlo libero di scegliere il seguito che più gli aggrada, per poi deluderlo scartandole tutte tranne una che è sempre la meno “romanzesca”. Qui Diderot percorre l’idea di “letteratura potenziale” cara a Queneau, ma anche un po’ la smentisce; infatti Queneau metterà a punto un modello di Racconto a modo vostro in cui sembrano echeggiare gli inviti di Diderot al lettore perché scelga lui il seguito, ma in realtà Diderot voleva dimostrare che la storia non poteva essere che una» (I. Calvino, Denis Diderot, “Jacques le fataliste”, in Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1995, pp. 115-120).
[23] Su questo punto della struttura a grafo si veda P. Odifreddi, L’invidia della penna, in Penna, pennello e bacchetta. Le tre invidie del matematico, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 3-52, in particolare le pp. 22-23.
[24] Prendo in considerazione solo la forma romanzo sia per motivi di spazio sia perché è una struttura letteraria di ampio respiro, dove la regola combinatoria si decanta in modo esemplare.
[25] V. Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di B. Oddera, Parma, Guanda, 1988.
[26] I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, pp. 116-120. Fra gli esempi di «iper-romanzo», Calvino, oltre i suoi Se una notte d’inverno un viaggiatore e Il castello dei destini incrociati, cita La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec, non a caso sottotitolato Romanzi, cui accenno più avanti.
[27] J. Potocki, Manoscritto trovato a Saragozza, traduzione di A. Devoto, Milano, Adelphi, 1965.
[28] G. Perec, La vita istruzioni per l’uso, traduzione di D. Selvatico Estense, Milano, Rizzoli, 1984.
[29] Sui problemi matematici che presiedono alla struttura di La vita istruzioni per l’uso si veda P. Odifreddi, cit., pp. 16-18. Essenziale per scoprire il modo in cui Perec ha costruito il suo romanzo è il Cahier des charges de La Vie mode d’emploi Georges Perec, présentation, transcription et notes par Hans Hartje, Bernard Magné et Jacques Neefs, Paris-Cadeilhan, CNRS Edition-Zulma, 1993.
[30] C. Berge, Per un’analisi potenziale della letteratura combinatoria, in R. Campagnoli e Y. Hersant (a cura di), La letteratura potenziale (Creazioni Ricreazioni Ri-creazioni), Bologna, Clueb, 1985, pp. 49-65, si cita da p. 58. Il termine «telescopico», riferito a questo tipo di racconti che stanno l’uno dentro l’altro, nasce dal fatto che il telescopio è un dispositivo formato da due o più elementi tubolari atti a scorrere l'uno nell'altro.
[31] J. Cortázar, Il gioco del mondo. Rayuela, traduzione di F. Nicoletti Rossini, Torino, Einaudi, 2002.
[32] A. Spatola, L’oblò, Milano, Feltrinelli, 1964.
[33] N. Balestrini, Tristano, Milano, Feltrinelli, 1966, e DeriveApprodi, Roma, 2007 con prefazione di U. Eco.
[34] E. Sanguineti, Il Giuoco dell’Oca, Milano, Feltrinelli, 1967. Questa prima edizione ha all’inizio e alla fine, sul retro della copertina rigida, un disegno color fucsia con una serie di caselle al cui centro c’è la scritta: «Il giuoco dell’oca di Edoardo Sanguineti».
[35] In uno scritto intitolato Avanguardia letteraria (ne Il rumore sottile della prosa, cit., pp. 72-77), Giorgio Manganelli definisce gli scrittori d’avanguardia «puntigliosi escogitatori di artifici, un poco pedanti, intelligenze naturalmente inclini agli aspri e lucidi gaudi dell’acrostico, dei tecnopegnia, dei glifi, intenti agli austeri estri combinatori del linguaggio» (corsivo mio).
[36] La definizione è di R. Barilli, Spatola, in La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del «Verri» alla fine di «Quindici», Bologna, il Mulino, 1995, pp. 257-263.
[37] N. Balestrini, Nota dell’autore, in Tristano, DeriveApprodi, cit., pp. XIII-XIV.
[38] J. Risset, Prefazione all’edizione francese del 1972, in N. Balestrini, Tristano, DeriveApprodi, cit., pp. XVII-XX, si cita da p. XVII.
[39] W. Pedullà, A cavallo della contestazione, in La letteratura del benessere, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 514-526, si cita da pp. 514-515.
[40] M. Borelli, Prose dal dissesto. Antiromanzo e avanguardia negli anni sessanta, Modena, Mucchi, 2013.
[41] M. Saporta, composizione n. 1, traduzione dal francese di E. Capriolo, Milano, Lerici, 1961.
[42] B.S. Johnson, In balìa di una sorte avversa, prefazione di J. Coe, traduzione di E. Terrinoni, Milano, Rizzoli, 2011.
[43] Nella voce «Letteratura elettronica» di Wikipedia si legge: «La letteratura elettronica, anche conosciuta come letteratura digitale, e-Literature o eLiterature, è un particolare fenomeno intersettoriale, ascrivibile a diversi ambiti, in primo luogo letterario, che tramite l’uso di innovative metodologie creative e dei mezzi offerti dall’evoluzione tecnologica, ivi incluso il computer, il web e le TIC (tecnologie dell'informazione e della comunicazione), produce lavori letterari innovativi».
[44] M. Joyce, Afternoon, a story, Watertown, Eastgate Systems, 1990.
[45] L. Miglioli, RadIo, Elettrolibri, Human System, 1993.
[46] G. Dossena, Dizionario dei giochi con le parole, Milano, A. Vallardi, 1994, pp. 104-106 e p. 161. L’anagramma è il caso più semplice e evidente di «combinazione letterale»: le stesse lettere combinate in modo diverso producono parole o frasi con significati diversi: travaglio / giravolta / volgarità; «Arde l'astro maggior della natura — ed alto or manda raggi sulla terra» (Anacleto Bendazzi).
[47] R. Queneau, Cent mille milliards de poèmes, Paris, Gallimard, 1961.
[48] Id., 100 000 000 000 000 di poesie. Istruzioni per l’uso, in Segni, cifre e lettere e altri saggi, cit., p. 51.
[49] Ivi, p. 50.
[50] La prima edizione italiana di L’oracolo della Sibilla Cusiana esce a Napoli nel 1835 presso la tipografia Palma; successivamente il libro viene ristampato in altre città, fra cui Milano: un’ottava edizione a cura dell’editore e libraio milanese Angelo Monti porta la data del 1855 (io ho consultato un’edizione del 1982 stampata per conto della Libreria Il Punto di Omegna). Finazzi è autore anche di Le invenzioni del dottor Fisico Cusiano, che ha come sottotitolo: «Descrizione di un vegetabile anticonsultivo, di un trebbiatojo, di una barca innaufragabile e di un metodo di passeggiare sulle acque».
[51] L’oracolo della Sibilla Cusiana rientra nell’ampia categoria dei «libri di sorte», scritti nei quali vengono formulate domande e si ricevono responsi sul destino. Ciò che accomuna questi metodi divinatori è la frase con la sentenza finale. Gli strumenti usati di volta in volta per ottenere il responso possono variare: carte, monete, dadi, bastoncini, ruote allegate ai libri. Il prototipo italiano di questi libri è il Libro delle sorti scritto nel 1482 da Lorenzo Gualtieri detto Spirito (1426-1496), poeta, soldato e miniatore perugino, dove il gioco divinatorio, con l’ausilio di dadi, è basato su un sistema di quesiti e responsi legati ai principali aspetti della vita: la felicità, la riuscita del matrimonio, il successo negli affari, la nascita di un figlio, la salute, la malattia. Si pensi poi a I Ching, l’oracolo più antico a noi pervenuto dalla civiltà cinese, libro studiato, fra gli altri, da C. G. Jung.
[52] È quanto sostiene ad esempio G. Dossena nell’Enciclopedia dei giochi, 3 voll., Torino, Utet, 1999, vol. II, p. 512.
[53] F. Le Lionnais, A proposito della letteratura sperimentale, in R. Campagnoli e Y. Hersant, cit., p. 238.
[54] A. Martines, Letteratura combinatoria, Tesi di laurea in Storia della critica e della storiografia letteraria, discussa il 10 luglio 1997 nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Roma «Tor Vergata».
[55] M. Barenghi, Poesie e invenzioni oulipiennes, in I. Calvino, Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1994, pp. 1239-1245.
[56] I. Calvino, Perec, gnomo e cabalista, «la Repubblica», 6 marzo 1982, p. 18.
[57] Ibid.
[58] R. Queneau, L'Opificio di letteratura potenziale, in Segni, cifre e lettere e altri saggi, cit., pp. 56-73.
[59] Ibid.
[60] I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, cit., pp. 184-191.
[61] Id., Introduzione a Raymond Queneau, Segni, cifre e lettere e altri saggi, cit., pp. III-XXIII.
[62] G. Perec, Ulcérations, in Oulipo, La Bibliothèque Oulipienne, volume 1, préface di N. Arnaud, Paris, Seghers, 1990, pp. 1-15. Si tratta della prima pubblicazione della Biblioteca Oulipiana, datata 24 settembre 1974. Lo stesso procedimento, applicato a 176 poesie scritte utilizzando per ogni verso sempre le stesse lettere, Perec l’ha usato in Alphabets, Paris, Galilée, 1976.
[63] R. Campagnoli, Edulcoranti, Biblioteca Oplepiana N. 1, Napoli, Edizioni OPLEPO, 1990. Nato sul modello di Ulcérations di Perec, il componimento di Campagnoli è basato su un eterogramma, EDULCORANTI, che viene anagrammato cento volte in altrettante stringhe per dare vita a un testo poetico.
[64] Oplepo, La Biblioteca Oplepiana, Bologna, Zanichelli, 2005.
[65] S. Kierkia (a cura di), L’isola teletrasportata. Anagrafie, Biblioteca Oplepiana N. 11, Napoli, Edizioni OPLEPO, 1996, ora anche in Oplepo, La Biblioteca Oplepiana, cit., pp. 151-163.
[66] U. Eco, L’isola del giorno prima, Milano, Bompiani, 1994.
[67] Sulle varie tipologie di permutazioni di un testo si veda J. Lescure, Sulle permutazioni in particolare e in generale sulle poesie quadrate, in R. Campagnoli e Y. Hersant,cit., pp. 154-164.
[68] G. Dossena, Centone, in Enciclopedia dei giochi, cit., vol. I, pp. 315-317.
[69] L. Chiti, Centunesimo canto. Philologica dantesca, Biblioteca Oplepiana N. 18, Napoli, Edizioni Oplepo, 1991, ora anche in Oplepo, La Biblioteca Oplepiana, cit., pp. 419-485.
[70] M. Longobardi, Vanvere. Parodie, giochi letterari, invenzioni di parole, Roma, Carocci, 2011, pp. 204-205.
[71] G. Dossena, [senza titolo], «Ventiquattro» il Magazine del Sole 24 ore, 12, 2001, p. 114.
[72] U. Eco, Ci mancava anche l’“Ulisse”, «Almanacco del Bibliofilo», Anno XIX, N. 19, 1 gennaio 2009, pp. 3-14.
[73] T. Scialoja, La mela di Amleto, Milano, Garzanti, 1984, e Poesie 1961-1998, Milano, Garzanti, 2002.
[74] Ivi, p. 51.
[75] G. Raboni, Prefazione, in Toti Scialoja, Poesie 1961-1998, cit., p. 9.