Gian Mario Anselmi - La paura del commissario Wallander

La paura fa da sempre parte della narrativa poliziesca in tutte le sue varianti e in tutte le letterature in cui si è sviluppata. L'effetto di paura è andato crescendo in parallelo con la crescita esponenziale di titoli e autori che questo genere ha conosciuto negli ultimi decenni : la variante "horror" innestata sul tradizionale filone dell'inchiesta poliziesca o giudiziaria è divenuta quasi indispensabile, certamente anche sotto l'influsso di molta cinematografia e di molte serie televisive di matrice statunitense. Non sempre è stato così: classici europei del filone giallo come Agata Christie, Conan Doyle, Simenon ad esempio lavoravano con ingredienti molto diversi, mai o raramente intrisi di "horror" e piuttosto fondati su altri effetti che tendevano a suscitare la curiosità del lettore per la soluzione finale senza creare effetti "speciali" e truci che lo mettessero in eccessiva apprensione. Negli USA invece e molto precocemente fin dagli anni a cavallo della seconda guerra mondiale il filone poliziesco in letteratura e poi nei film e in TV o nei fumetti o nel graphic novel ha incrociato rapidamente la strada del terrore, del nero cupo, del delitto seriale ed efferato (nasce credo negli USA come protagonista di tante narrazioni la figura del "serial killer"), mescidando il genere poliziesco con la grande tradizione anglosassone del "gotico horror" rinverdita dai capolavori assoluti di Stephen King e dai film che ne sono derivati. Persino in Italia, seppure in modi più limitati, tale filone si è andato via via rafforzando fin da un anticipatore geniale come Tommaso Sclavi (il creatore di Dylan Dog) per giungere a Lucarelli, Patrick Fogli e oltre. Il trionfo contemporaneo del giallo/horror si accompagna nei migliori autori con un forte lavoro sui personaggi e sugli ambienti, sulle "digressioni" psicologiche e sociali mirate, quasi a dare spessore e verosimiglianza al terrore che circonda il plot narrativo. Soprattutto la figura del poliziotto che indaga, del protagonista per eccellenza, è delineata secondo un approfondimento di quanto già era nato con Chandler o Ellroy: spesso chi conduce le indagini è persona lacerata, marginale, piena di dubbi e crisi esistenziali, con un fondo di morale che resiste ma passando per cedimenti, corruzioni o profondi drammi personali (si veda da ultimo la splendida serie TV americana True detective). Più che un eroe positivo chi indaga è sempre contiguo al male, sempre in bilico, contaminato dalla crescente paura e insicurezza che domina il mondo contemporaneo e di cui l'esplosione di questo filone narrativo è uno specchio esemplare. Ma oggi è soprattutto nelle pratiche narrative dei paesi scandinavi che tutto ciò è evidente al massimo livello: gli scrittori in particolare svedesi e norvegesi hanno raggiunto un successo planetario perseguendo con alte prove narrative (e senza il supporto di parallele produzioni televisive o filmiche neppure lontanamente paragonabili per mezzi e risorse con quelle americane) un filone "aggressivo" di polizieschi ad alto tasso di efferatezza (il cosiddetto "ice thriller") in netto contrasto coi luoghi comuni ideologici non meno che turistici sul presunto Eden dei paesi del Nord, il cui rovescio della medaglia è esibito senza pietà . Non c'è dubbio che, in questa "geografia" scandinava, un posto di assoluto rilievo spetti a Henning Mankell, creatore delle inchieste del Commissario Kurt Wallander, e scrittore tra i maggiori nella letteratura contemporanea. Ora sarebbero tantissime le analisi che si potrebbero condurre sulla straordinaria pratica narrativa di Mankell : la capacità quasi unica di orchestrare fin dai celebri "Prologhi" trame narrative complesse e imprevedibili; il gioco dei punti vista da cui osservare la scena che sia quello dell'assassino oppure del giovane lupo che scopre l'odore del sangue di una strage fatta dai "veri" lupi, ovvero gli uomini, nel Prologo straordinario de Il cinese; la finissima caratterizzazione dei suoi personaggi a cominciare appunto dal tormentato, non più giovane e "fragile" Wallander fino alla carica micidiale di critica sociale e politica della Svezia contemporanea (una delle angosce di Wallander di fronte alle esplosioni di male cui assiste e su cui deve indagare è appunto quella di smarrimento rispetto a un mondo che non sa più riconoscere e di cui non sa capire quale futuro lo attenda). Ma il personaggio Wallander è caratterizzato da Mankell con grandissima originalità per un aspetto decisivo: Wallander ha spesso paura. Si badi: non è semplicemente la paura, consueta in tanta produzione poliziesca, di chi sa che deve affrontare pericolosissimi assassini e situazioni border line, la naturale paura del poliziotto che non è Superman e ha paura come tutti quando è di fronte al pericolo e che i grandi narratori usano ovviamente per comunicarla ai lettori, catturandone l'attenzione spasmodica. È qualcosa di più e di diverso, di più "filosofico" quasi: è la paura del male come tale, è la paura di ciò che nasconde il mondo e non solo di quello che è connesso all'indagine specifica in corso, è in definitiva la paura di esistere in un mondo di cui non si hanno più chiavi razionali di comprensione e in cui Wallander sente un angoscioso spaesamento esistenziale, la sua paura appunto, che la banalità del male terribile ed efferata del mondo quotidiano porta alla luce senza redenzioni possibili. Si prenda uno dei romanzi più riusciti di Mankell, Delitto di mezza estate (1997; ed. italiana, Venezia, Marsilio, 2000): nell'Epilogo il figlio undicenne di Martinsson, uno dei più fidi collaboratori di Wallander, che vorrebbe da grande fare il poliziotto, vuole parlare, "intervistare" quasi, il suo mito, Wallander e Wallander accetta di buon grado. L'ultima domanda del bambino è : "Ti capita di avere paura?" "Per essere sinceri mi capita spesso" "Che cosa fai allora?" "Non so veramente. Dormo male. Cerco di pensare ad altro. Se ci riesco" (ed.it. pag.582). In precedenza, ad un punto difficile delle indagini su efferati e inspiegabili omicidi, Wallander confida ad un'altra sua stretta collaboratrice, Ann-Britt Hoglund: "Sono terrorizzato dal pensiero che quest'uomo possa uccidere nuovamente. Non passa un minuto che non tremi al pensiero di sentire il telefono suonare e che qualcuno mi dica che è successo ancora. Sto cercando disperatamente di vedere un segno, qualcosa che mi dica che questo incubo finirà presto. O almeno di non essere più costretto a chinarmi su esseri umani che sono stati assassinati freddamente. Ma non riesco a vedere alcun segno" (ed.it. pag.432). Ecco. La paura di Wallander non è tanto per sé, per i pericoli che può correre ma per il male che accadrà ad altri, per l'insensatezza del dolore (altro termine chiave in Mankell) che viene inflitto a innocenti, è una paura figlia della pietas ed in questo, come in tutti i suoi romanzi, il tono inventivo e solidale di Mankell, proprio attraverso il suo personaggio Wallander, è davvero straordinario e difficilmente paragonabile a quello di altri autori. Mankell non mira in prima istanza, in questo come in altri romanzi, a suscitare facili paure nel lettore, che pure è espediente principe di tanta narrativa poliziesca, quanto ad approfondire la paura come tale, come nasce vista dagli occhi del suo umanissimo e dolente Commissario. L'insensatezza della crudeltà genera in Wallander la paura che altre insensatezze seguiranno. Egli sente una paura indeterminata e quasi paralizzante di fronte al Male che sta per scatenarsi. Più che un ragionamento è questa irrazionale sensazione che gli fa premonire ciò che di terribile può accadere e che per certi versi poi lo aiuta nel dipanare la trama dell'orrore per giungere al colpevole o ai colpevoli. La paura diviene precisa consapevolezza del limite: il Commissario, pur abile e navigato, è un uomo come tanti, spesso fragile e confuso, talora rabbioso per l'impotenza di fronte al ripetersi delle efferatezze, è la paura che tutto sfugga dal controllo. Il Nord leggendario per efficienza e solidità del suo stato sociale è aggredito inerme dal Male né sembra, in certi momenti, riuscire a difendersene. Ne consegue uno straordinario effetto di straniamento: il lettore sente la paura di Wallander, la sua costante e irrisolta inquietudine (altro termine chiave caro a Mankell per tentare di descrivere l'atmosfera del mondo svedese e baltico), ne partecipa ansiosamente e, accanto all'ovvio appassionarsi per la trama del plot, in fondo è senza sosta e continuamente pervaso dalla paura di Wallander, al tempo stesso identificandosi con l'umanissima pietas che la sostanzia. In Mankell non ci sono, neppure quando il caso è risolto, aperture fiduciose. Tutto può ricominciare: il male coesiste col nostro esserci. La paura continua anche dopo l'ultima pagina.

 

Pubblicato il 30/07/2015