Intervista di Cinzia Ruozzi
Semplici svolte del destino è una sorprendente raccolta di racconti, merce rara nella letteratura italiana contemporanea, dove domina incontrastato il romanzo. Non solo, ma in questi ultimi anni si è affermato un tipo di romanzo che sembra già costruito per la trasposizione cinematografica, con forti componenti visive, una struttura che sembra la sceneggiatura di un film e un uso del linguaggio estremamente semplificato. Al contrario nel tuo lavoro si vede la ricerca dell’esattezza, della precisione lessicale di cui parlava Calvino nelle Lezioni Americane. Ciò testimonia una fede nella scrittura e la ricerca di uno stile misurato. Perché hai scelto la forma breve del racconto e come hai lavorato sul registro stilistico della pagina?
In passato trattavo la lingua come un guardaroba da cui estrarre a seconda delle necessità: stile elegante se l’occasione lo richiedeva, una battutaccia per rompere il ghiaccio, una frase leggera per sdrammatizzare. Discorsi come camicie o pantaloni, che si scelgono in base alle circostanze. In certi casi è così che succede, ma la lingua è anche qualcosa di più vasto e profondo. Direi che la lingua è come uno strato di pelle: ci identifica separandoci dall’esterno e nel contempo ci mette in contatto con questo esterno. La lingua respira, vive, si tende e distende con noi, è parte di noi: curarsi della lingua è come curarsi di un organo sensoriale. E siccome impariamo a parlare dagli altri e con gli altri, non bisogna dimenticare che parole e discorsi non hanno niente a che fare con la proprietà privata. Insomma, o che la intendiamo come strato che avvolge l’individuo, o che la intendiamo come ambiente che accomuna e permette di condurre i giochi linguistici di cui parla Wittgenstein, in un caso o nell’altro viviamo nella lingua. Immaginiamo, conosciamo, ci divertiamo, ci consoliamo attraverso la lingua, perciò dire “fatti e non parole”, come se le parole non producessero fatti, ha poco senso.
Riguardo alla forma breve, la novella ha una lunga tradizione in Italia, che Gianni Celati ha analizzato mostrando perché il genere della novella permetta uno scatenamento immaginativo di grande efficacia. Ma a parte questo, io non credo di aver scelto niente. Quando inizio a scrivere, sono le frasi a produrre un effetto di trascinamento, frasi sentite nei racconti di qualcun altro o frasi che vengono in mente a me, ma chissà come. A volte è un nome proprio a guidarmi, o un soprannome. Poi subentra qualcosa di visivo, una scena che comincio a descrivere senza un’idea di dove andrò a parare. Può essere un racconto breve, come succede in alcune di queste storie. Ma possono anche essere testi con un andamento diverso, da racconto lungo, con una maggior quantità di personaggi, come succede nel racconto dal titolo Il Gran Pino. Se poi il fiato narrativo mi spingesse più in là potrebbe venir fuor qualcosa di assimilabile al romanzo.
Per presentare il libro vorrei partire dal titolo, Semplici svolte del destino, perché mi sembra che nei tre termini che lo compongono sia racchiusa la tua poetica. “Semplice” è un aggettivo ormai desueto, una parola di altri tempi, “uomini semplici”, “vite semplici”. Oggi prevale l’esatto opposto, cioè “complesso”. Le tue sono storie che parlano dei casi della vita: c’è l’infanzia nel paesaggio della pianura padana, ci sono alcune figure memorabili come il nonno Carlomagno e lo zio Orlando, o luoghi dell’anima come il bar Stalingrado; c’è l’amore in tutta la sua infinita casistica: innamoramento giovanile, amore passione, amore senile, iniziazione sessuale da parte di un personaggio che ricorda la Marfisa di Fellini, ma anche la maga Alcina del Furioso. In questi racconti si parte dai semplici fatti della vita per arrivare a un significato universale che può appartenere a tutti. Si tratta di piccole storie che diventano metafora del mondo. Mi ha colpito il valore che attribuisci al dato quotidiano, che a mio avviso presuppone la capacità di sapersi fermare e guardare: facoltà che sempre Calvino definiva il pensare-immaginare. I tuoi racconti mi hanno anche ricordato certa narrativa russa, ad esempio Il cappotto di Gogol’.)
Sul fatto di fermarsi a osservare, qualche tempo fa raccontavo a un’amica di quando il piccolo Kant, il futuro gigante del pensiero moderno, camminava in una strada di campagna tenendo per mano la madre, una donna non molto istruita ma di profonda sensibilità. Mentre camminavano lei gli insegnava a osservare quello che avevano attorno, ad apprezzare le meraviglie che si nascondevano dietro le cose più semplici. E Kant racconta che una volta lei si era fermata per fargli notare l'ordito di una ragnatela. Io m’immagino la scena: la madre che gli dice di avvicinarsi esortandolo ad ammirare la tela costruita per impulso naturale, e lui che guarda, e magari, guardando attentamente, scopre com’è fatta la ragnatela, ad esempio si accorge del suo andamento a spirale, e che le spire mantengono la stessa distanza l’una dall’altra. A me piace fare così, soffermarmi, e poi lasciar correre l'immaginazione per sentire quello che ho attorno in tutte le risonanze possibili. Cerco di non guardare con l'occhio frettoloso di chi, le cose, si limita a usarle. Che poi quello che abbiamo attorno sembra semplice ma racchiude la più grande complessità, basta pensare alla chiocciola, per rimanere all’idea di spirale, il cui guscio ha un andamento a spirale logaritmica, cioè si allarga mano a mano che si allontana dal centro, permettendo di ospitare l’aumento di massa corporea che la lumaca ha durante la crescita: il guscio è una specie di casa a geometria variabile, si allarga adattandosi alle modificazioni del suo abitante. Se invece il guscio crescesse al ritmo di una ragnatela, secondo una spirale ad andamento costante e non crescente, la lumaca ci scoppierebbe dentro.
Quanto al fatto che i miei racconti ti facciano venire in mente Gogol’, sono lusingato anche se so bene che una mia pagina non vale una sua riga. Eppure Gogol’ fa proprio così: da un episodio da poco ricava un valore universale, cerca lo straordinario che è racchiuso nell’ordinario.
Veniamo alla parola “Svolte”, un termine nel quale, da italianista, sento vibrare il pensiero umanistico-rinascimentale, nel senso che in quella straordinaria stagione di pensiero molte opere hanno al centro la dignità dell’uomo e il valore del libero arbitrio. I tuoi personaggi sono costantemente posti di fronte a dei bivi che il destino (terzo termine del titolo) mette loro davanti. Destino inteso in senso laico, come caso, fortuna. Essi devono “scegliere”, se così si può dire, davanti alla sorte, e scegliendo di “svoltare” da una parte o dall’altra vanno incontro al loro destino. Non so quanto consapevolmente, ma in questa raccolta ci sono molti riferimenti all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto che è materia della nostra terra.
Tocchi dei temi delicati: il libero arbitrio, la scelta, e poi il destino. Temi che imbarazzano perché hanno una lunga tradizione, in filosofia. Io però direi così, che nella vita quotidiana molti aspetti appaiono come dovuti a un destino, il quale può essere benevolo o cieco, se non addirittura cinico e baro, quando ci frega mandando in frantumi i castelli che costruiamo per aria. C’è un detto popolare in uso dalle nostre parti: ha lavorato così tanto, poveretto! Poi s’è fatto la casa ed è morto. Un destino? Qualcuno potrebbe pensare che esista una logica, o addirittura una provvidenza. Altri parlerebbero di casualità. Anche per un narratore è difficile sfuggire ai discorsi sui massimi sistemi; lo stesso Gadda diceva che la Poetica è un capitolo dell’Etica, e che questa deriva dalla Metafisica. Comunque, direi che anche per me è finita l’epoca in cui si credeva a un fine universale, ad esempio teologico, o razionale, o storico. Però, di fronte a ciò che comunemente chiamiamo destino, bisognerebbe ispirarsi agli stoici, soprattutto quando è avverso, cioè fare tutto quello che è nelle nostre possibilità senza dare importanza al resto. Un atteggiamento che permette di non soffrire per il crollo delle illusioni. Alcuni dei miei personaggi sembrano ispirarsi a questo principio, anche se naturalmente non sono nati in funzione di un principio. Non credo che debba essere un principio a generare un personaggio.
Per venire ai riferimenti all’Orlando Furioso, me li fai notare tu, ma non sono stupito perché si tratta di un’opera che ho letto e studiato per un anno intero, quando facevo il militare; forse anche perché mi permetteva di evadere dagli spazi angusti della caserma. Era come il guscio stretto della lumaca.
Nel racconto Il sordastro, il personaggio principale, dopo il vano inseguimento di una donna, si convince che il mondo è un miraggio dove ognuno vede quello che vuole. E’ la stessa tensione-desiderante che muove i personaggi del Furioso a inseguire qualcuno nella selva, che altri non è se non la proiezione del proprio desiderio. In un altro racconto, Il Gran Pino, il personaggio dello zio Orlando rappresenta l’eroe che sa accettare le svolte del destino rimettendosi sempre in piedi, “come un gladiatore”, e da lui cerca aiuto il giovane innamorato dopo aver perso la sua Angelica, e con lei il senno. Ancora nel primo racconto, Ferramenta, viene contemplata la possibilità di sbagliare. Si tratta di errori che non sono mai irrimediabili, e quello che accade non è elemento di giudizio o di condanna. Anche questo mi è piaciuto, cioè il tuo messaggio di libertà: per i tuoi personaggi fare esperienza ha un valore positivo, l’errare rappresenta il movimento errabondo del pensiero e della vita, e nella sua doppia accezione semantica, anche la possibilità dell’errore. Inoltre ho letto in una tua intervista che il titolo è ispirato a una canzone di Bob Dylan, ma vorrei sapere perché lo hai scelto?
Quando ho iniziato a ascoltare Bob Dylan, da ragazzo, ero interessato alle canzoni come insieme di melodia, ritmo e arrangiamenti, mi piaceva la sua voce sporca, raschiata, mi piacevano i temi che toccava, ma non davo particolare attenzione ai testi. Invece col tempo ho imparato ad apprezzare proprio questo, l’aspetto testuale. Le sue canzoni contengono una forza visionaria che a volte prende una strada più poetica, altre volte imbocca una via più narrativa, e il titolo della canzone Simple Twist of Fate esprime bene qualcosa che è racchiuso in tutti i racconti del mio libro.
Quanto al resto, ai personaggi che si muovono per effetto di una tensione desiderante, direi che senza una spinta di natura emotiva si rischia la paralisi. Hai presente l’asino di Buridano? Aveva due mucchi di paglia esattamente uguali, posti alla stessa distanza, e pur avendo fame non sapeva decidersi. Non aveva una buona ragione per scegliere. E siccome credeva che per agire fosse necessaria una motivazione razionale, alla fine è morto di fame: un asino un po’ troppo filosofico. Ma la vita non va così. Siamo mossi da un impulso, desideriamo cose e persone, soprattutto essere riconosciuti dagli altri. Anche le neuroscienze sono giunte alla conclusione che la nostra capacità di calcolo, quella che contraddistingue la facoltà razionale e ha sede nella corteccia, non è per niente dominante nella vita dell’uomo. Con tutto l’affetto che ho per lui, direi che Cartesio se ne sta in un angolino rosso di vergogna mentre Shakespeare se la ride. Ormai è chiaro che siamo in tutto e per tutto animali come gli altri, altro che res cogitans. La ragione umana svolge un ruolo ancillare nei confronti del cervello emotivo, e questo non consente di salire in orgoglio. Quello che dico può contrastare con l’ammirazione per gli stoici, ma con un po’ di sforzo – e di esercizio, direbbe Epitteto – si evita il contrasto.
Riguardo al giudizio e alla condanna nei confronti dell’errore, a me piace poco giudicare, m’imbarazza, proprio perché do un valore positivo all’errore. Senza errori e senza fallimenti non si procede. In questo l’umanesimo ha molto da insegnare, da Erasmo a Montaigne.
Ci sono altri aspetti interessanti in questa raccolta. Ad esempio fai ricorso a personaggi o situazioni di tipo fantastico, c’è una qualità dell’immaginazione che si discosta da molti dei romanzi di fantasy che sono sul mercato, dove il fantastico ha a che fare con qualcosa di torbido, di mostruoso, di orrorifico, come se la fantasia fosse una zona d’ombra della psiche, sentita come minacciosa per l’equilibrio razionale. Invece in alcuni dei tuoi racconti sembra non esista una netta distinzione tra il mondo così com’è realmente e il mondo immaginato. Penso ad esempio al contadino di Pieve Rossa che scopre le porte dell’Inferno sotto il suo podere, oppure all’uomo del cappello che lancia un pallone che sale in cielo come un bolide senza seguire la legge di gravità. Per te che hai una formazione filosofica qual è il rapporto tra realtà e immaginazione?
E’ difficile tracciare una netta linea di confine, anzi impossibile, per varie ragioni. Icaro, il figlio di Dedalo, quello che vola con le ali di piume incollate, è un prodotto dell’immaginazione, ma certi spericolati che volano col deltaplano non sono personaggi immaginari. Direi che l’immaginazione ha sempre avuto il compito di elaborare una sorta di potenziamento della realtà, produce una realtà di secondo grado, e il corso del tempo s’incarica di scegliere cosa realizzare. Ad esempio Madame Bovary, al tempo di Flaubert, poteva essere solo un’immagine letteraria, ma in poco più di un secolo le Madame Bovary le incontriamo al supermercato che spingono il carrello della spesa. Un’altra ragione che rende difficile tracciare un confine netto è spiegato da Schopenhauer, quando dice che non si conosce tanto un sole quanto un occhio che vede il sole. Qui è racchiuso qualcosa d’importante per il narratore. Come uscire da sé? Come immedesimarsi con qualcosa d’altro e vedere le cose diversamente dalle proprie abitudini? Si può raccontare il mondo alla maniera in cui lo vede una mosca? Kafka c’è andato vicino raccontando che un bel giorno un tipo s’è svegliato e non era più quello di prima, era diventato uno scarafaggio. Il filosofo Thomas Nagel in un saggio dal titolo Che effetto fa essere un pipistrello? conclude che un essere umano non può scambiarsi di posto col pipistrello; figurarsi lo scarafaggio, che nella filogenesi è ancora più lontano dall’uomo. Nagel si basa su buone ragioni. I pipistrelli dispongono di un ecogoniometro, percepiscono il mondo emettendo brevi strida ad alta frequenza e i loro cervelli sono in grado di connettere gli impulsi emessi al riflesso dell’eco, così l'informazione ricevuta consente di elaborare giudizi precisi su distanza, forma, movimento e struttura del mondo; giudizi compatibili con quelli che noi ci facciamo attraverso la vista. Ma l'ecogoniometro di un pipistrello, anche se è uno strumento di percezione, non è simile a nessuno dei nostri sensi, dunque, dice Nagel, è impossibile mettersi nei panni di un pipistrello. Eppure la prospettiva di un narratore dovrebbe essere proprio questa: mettersi nei panni di un altro, anche un marziano, ad esempio. Usare l’immaginazione in questo modo non porta a effetti orrorifici, che semmai rispondono allo scopo di eccitare. Ad esempio, una certa cinematografia, per colpire lo spettatore, lo prende a pugni in faccia, e anche molta narrativa gronda sangue non per ragioni intrinseche a una storia. Che poi, tra l’altro, bisognerebbe sapere cosa succede quando si prende un pugno in faccia: si rimane storditi, e non è che si veda il mondo in modo diverso, non si vede più niente.
Ne parli come se ne avessi avuto esperienza.
Da ragazzi, negli anni Sessanta, era normale prenderle e darle. Non era neanche una cattiva esperienza. Prendere un pugno in faccia serviva a imparare cosa si prova quando si fa del male. Secondo me insegna a non infierire sugli altri, per lo meno a non colpire in modo gratuito, come sembra accadere spesso, almeno stando a molti fatti di cronaca. Se uno sapesse bene cosa succede quando si patisce una ferita, sarebbe meno incline alla violenza.
Un’altra caratteristica del tuo modo di raccontare è che utilizzi una tecnica a incastro, per cui come in Ariosto una storia si infila dentro l’altra. Spesso avviene perché qualcuno si mette a raccontare una vicenda ascoltata che gli torna in mente per qualche strano collegamento. Ad esempio i racconti delle zie che nel Gran Pino favoleggiano del lontano fratello Orlando, o Artibano, che in Relazioni internazionali racconta della calata dei tedeschi che venivano in villeggiatura sulla Riviera romagnola. Questo proliferare di voci e di storie mi fa pensare alla tradizione orale della nostra cultura contadina.
Ecco, questo è un tipico aspetto della novella. Devo richiamare di nuovo Gianni Celati: succede normalmente quando si è in un gruppo di amici. Uno racconta una storia che ne fa venire in mente chissà quante, poi un altro inizia a raccontare la sua, anche brevi aneddoti, per ridere, e si va avanti così, senza neanche rendersi conto del tempo che passa. E’ il tranquillo conversare senza fretta, senza gerarchie, senza paure. La novella italiana contiene tutto questo. Anche l’Orlando Furioso è pieno di narrazioni che si interpongono lungo il poema, rendendo difficile individuare la narrazione principale, considerate le tante storie che si accavallano. Questo modo di raccontare l’ho visto in uso quando ero bambino. Andavo a casa di certi nostri parenti mezzadri, cioè contadini poveri, e a tavola era tutto un fiorire di storie. Me n’è tornata in mente una mentre leggevo l’ultimo libro di Ermanno Cavazzoni, la sua Guida agli animali fantastici, perché anche gli animali sono appassionati di vino. Angiòlo, uno di questi miei parenti, diceva che una volta era andato in cantina a prendere una bottiglia di malvasia e nell’allungare la mano al buio si era ritrovato a stringere un collo di bottiglia più spesso del solito, più tenero, che per di più si muoveva. Poi ha acceso la luce e ha trovato una biscia che aveva ancora la testa dentro la bottiglia. Angiòlo giurava di averle tappate tutte a modo, le bottiglie di malvasia, tappi di sughero conficcati fino in fondo, perciò era sicuro che la biscia era riuscita a stapparne una da sola. Ma come? Era vero oppure Angiòlo doveva nascondere che ci andava lui in cantina, a bere di nascosto dalla moglie, che gli dava del vagabondo ubriacone? E quante altre stranezze verrebbero in mente. Una sera ho trovato la porta del bagno di casa mia chiusa a chiave, con la chiave dentro, e dentro non c’era nessuno. Ho perfino dei testimoni.
Nella raccolta è presente anche il lato comico, in tutte le sue forme: il rovesciamento, l’esagerazione, il realismo della corporeità, col risultato che la lettura è molto divertente, quando non decisamente esilarante. Perché hai cercato di costruire personaggi e situazioni comiche?
Qui devo dichiarare la mia filiazione. Uno viene tirato su non soltanto dal padre e dalla madre, ma anche da un ambiente. Ci sono gli amici, spesso c’è un allenatore, anche un bottegaio o un meccanico, e poi certi maestri che si ammirano. Degli altri, quelli che si disprezzano, per fortuna ci si dimentica presto, come ho fatto io con la mia maestra. Poi si è figli delle letture che si fanno. Ecco, da un lato io sono cresciuto in un ambiente famigliare pieno di problemi, ma dall’altro ho imparato fin da ragazzo ad apprezzare il modo comico di guardare i lati dolorosi della vita. Aiuta molto, e forse è un tratto distintivo del nostro carattere emiliano, ammesso che esista una cosa come lo spirito di una popolazione. Non è un caso che da noi siano saltati fuori autori come Zavattini o Malerba, o Baldini, anche se romagnolo; e un po’ più in là è nato Volponi. E per rimanere a scrittori di oggi, ho avuto la fortuna di conoscerne alcuni con cui ho poi fatto amicizia e dai quali ho imparato molto, un po’ come succede quando si va a bottega da un artigiano. Ad esempio Daniele Benati, poi Ermanno Cavazzoni e Gianni Celati, tutti inclini al gusto del divagare, e capaci di vedere il mondo dal basso, cosa che favorisce il senso comico.
Nel libro c’è una voce narrante che tiene insieme le storie, una specie di filo conduttore, così che alla fine più che di una raccolta di racconti si può parlare di un romanzo in forma di racconti. Cosa ne pensi?
Secondo me, se c’è qualcosa che tiene insieme i racconti, questo qualcosa è la voce narrante. Nietzsche ha parlato del terzo orecchio; sarebbe quell’orecchio che riesce a sentire la musicalità, il ritmo di una frase, una specie di orecchio interiore. E’ difficile da dire. Capita di leggere delle frasi che sono perfette, un’opera di equilibrio. Togliere o aggiungere le manderebbe in frantumi. Ma in cosa consiste la perfezione? Nella correttezza sintattica? Nella ricchezza di contenuto? Queste sono categorie scolastiche che non permettono di affinare l’orecchio. Forse si potrebbe dire che sta nella moltiplicazione degli effetti di senso che la forma produce, e qui dovremmo tornare a parlare dell’immaginazione, perché è lì che si moltiplicano gli effetti di senso prodotti dalla forma. Eppure anche dir così è deludente. Comunque, questo terzo orecchio lo si affina con un esercizio artigianale di paziente ascolto, ma prima occorre liberarsi dalla lingua scolastica, quella che serve a prendere un bel voto. E’ normale che la si debba imparare, e in effetti torna utile a scrivere un curriculum, una relazione, o una tesi di laurea; ma è una non-lingua, o meglio un linguaggio settoriale con un valore strumentale, che ha il difetto di azzerare l’immaginazione. Abitua a gettare un’occhiata più che a guardare. Questa lingua scolastica è stata una dura conquista, per me, e non è stato facile superarla. Ma l’idea che per scrivere bisogna fare il bel componimento porta fuori strada.
Nei tuoi testi un autore che viene citato più volte è Franz Kafka. Ne parla un personaggio che di mestiere fa l’insegnante e legge in classe uno dei racconti più belli di Kafka, Il digiunatore; ne parla un altro personaggio che rivela di aver visitato la casa dello scrittore a Praga; e in modo implicito, nel racconto Relazioni internazionali, l’affinità tra il narratore e lo scrittore emerge in riferimento al difficile rapporto col padre. Quanto è stato importante per te Kafka e quali altri scrittori classici riconosci come maestri?
Ogni due tre anni rileggo Il Castello. Non riuscirei a dire quante volte ho letto Il processo. Spesso apro a caso le lettere di Kafka. Lo stesso vale per i suoi diari. Kafka è gigantesco. Riesce in quello che dicevo prima, cioè vede il mondo, anche il suo lato più tragico, da una prospettiva rasoterra, nella luce del comico. Un altro autore che non smetto di leggere è Thomas Bernahard, nel quale il senso ritmico della frase raggiunge una perfezione assoluta, a volte scrive frasi lunghe più di una pagina, senza punto di sospensione, che però si seguono senza fatica perché sembrano delle scale musicali. Poi, oltre agli autori che ho già citato prima, anche Tolstoj lo rileggo spesso, e Padre Sergio è davvero esemplare, per me.
Per concludere l’intervista vorrei farti un’ultima domanda. I tuoi personaggi hanno in comune una caratteristica: posti di fronte alle “svolte” della vita scelgono la via del cuore, della passione, per esempio nel primo e nell’ultimo racconto, due storie che per la loro collocazione rappresentano una sorta di ideale parabola. Il protagonista del primo segue la vocazione al lavoro manuale, buttando a mare soldi e moglie, e l’altro insegue un sentimento anarchico di libertà, andando in esilio per una bravata alla Guareschi. Ti riconosci in questi personaggi, se si può chiedere?
Sì, un po’ mi riconosco, ma loro sono più coraggiosi di me, hanno la forza di andare fino in fondo senza paura delle conseguenze. Hanno il coraggio di perdere i loro piccoli vantaggi lasciandosi andare al bisogno di una coerenza interna. Non riescono a vivere nel falso, e con falso non intendo qualcosa di oggettivamente falso, ma qualcosa che è sentito come falso. Se uno ha coscienza del fatto che sta ingannando se stesso, ad esempio la propria vocazione, cadrà poi nel rimpianto, ed è un brutto modo di vivere. Per tornare agli stoici, conviene fare tutto quello che si può, e se le cose vanno male non prendersela né con se stessi né con gli altri. Secondo me capita a tutti di trovarsi davanti a situazioni come quelle dei miei personaggi. Tempo fa mi era stato offerto un lavoro con prospettiva di carriera e molti soldi. Ero giovane, attirava, ma in cambio avrei dovuto cedere parecchio del mio tempo, tanto di quel tempo che alla fine m’è sembrato troppo, e così ho lasciato perdere. Devo ammettere che all’epoca ero un patito di quel librino sulla brevità della vita dove Seneca ammonisce a non lamentarsi della scarsità del tempo: non è il tempo che ci manca ma la capacità di usarlo bene. Per la verità ho poi scoperto che il tempo in effetti scarseggia, e che per apprezzarne il valore bisogna passare attraverso l’esperienza della penuria. Comunque il tempo non andrebbe mai sciupato. E poi all’epoca ero già attirato dal piacere di abbandonarmi alle fantasticazioni, un lusso che non ha prezzo. Da lì in poi ho fatto lavori più incerti o scalcinati, ma non ho rimpianti. E adesso che ci penso, i miei amici hanno tutti in comune questo modo di orientarsi nella vita.