Intervista di Riccardo Bonavita
Iniziamo con una domanda rivolta, prima che al poeta- saggista, al Sanguineti professore. Perché oggi i lettori di Dante, soprattutto gli studenti, preferiscono l'Inferno, perché questo spazio di pene e sofferenze ha affascinato e continua ad affascinare più che gli altri luoghi immaginari dell'universo dantesco?
Nel Novecento, se incominciamo dagli studiosi, sono stati fatti dei tentativi di rivalutazione del Purgatorio, e anche del Paradiso, che era la cantica meno "affabile" e più lontana dagli interessi del mondo moderno. Noi viviamo in un mondo sostanzialmente laico e anche chi è religioso non porta certo quella stessa quantità e qualità di interessi teologali che erano presenti in Dante. Quindi l'abbassamento di simpatia verso il Paradiso appartiene tipicamente al mondo moderno: non è un caso se appunto già nel Settecento, un'età ampiamente secolarizzata, si ravviva l'attenzione per i grandi episodi infernali. Finalmente, l'età romantica ha guardato alle figure infernali come figure drammatiche, appassionate e passionali, in tutto il senso vivo di questa parola; al paragone quelle purgatoriali, con qualche eccezione, e quelle paradisiache appaiono più fredde, congelate. Gli studenti rispecchiano questa tendenza più generale, e i professori stessi, anche se magari tentano di riequilibrare le cose, finiscono per spingere nella stessa direzione.
Poi forse c'è un effetto di eccessiva saturazione: studiare per tre anni Dante vuol dire accogliere con un certo interesse ed entusiasmo la prima fase, di incontro e di scoperta, dopo di che nasce una certa sazietà. Una sorte che peraltro, probabilmente, toccherebbe a qualunque testo se venisse distribuito in tre anni, orientato verso una lettura pressoché integrale e per di più tramato di una serie di elementi culturali che si fanno sempre più densi a mano a mano che si procede.
Il mondo moderno, infine, sembra particolarmente appassionato alle storie del male assai più che alla contemplazione del bene. Il romanzo è fondamentalmente colorito dal dolore, dalla sofferenza, da tormenti, da contraddizioni: la sottile felicità paradisiaca è molto lontana da noi.
Passiamo a un argomento più leggero: alla fine del "Baldus", Teofilo Folengo immagina un inferno speciale, destinato esclusivamente ai poeti, perché sono bugiardi e inventano favole. Chiusi in una zucca vuota, vengono sottoposti all'estirpazione di tanti denti quante sono le bugie che hanno scritto o cantato. E lei come immaginerebbe l'inferno dei poeti?
Mah, in fondo il Folengo era modesto, moderato: i poeti dicono più bugie di quanti denti abbiano in bocca, quando li hanno… E credo che la pena più terribile che si possa pensare in un inferno che abbia naturalmente la prevedibile durata dell'eternità sia quella di costringere i poeti a leggere ininterrottamente le loro opere per sempre, e a vedere che effetto produce su di sé la propria scrittura replicata, studiata e meditata sino in fondo. Ecco, credo che questa potrebbe essere la pena più terribile che si possa imporre loro.
E quello dei politici?
Per i politici è più difficile..... credo che «politico» sia una categoria troppo complicata per poterla esaurire. Pensiamo al modello dantesco da cui siamo partiti: bene o male i poeti vanno tra gli spiriti magni e quindi finiscono in un inferno poco "infernale", privilegiato. Invece non c'é una vera e propria categoria che comprenda gli uomini politici di per se stessi, mentre incontriamo i tiranni, o i violenti. E credo che sia giusto attenersi a questo criterio: probabilmente non è possibile pensare a un inferno politico in quanto tale. Credo sia da distinguere tra le forme diciamo di colpa, di peccato; e poi bisogna anche non essere indotti da una posizione di diffidenza preconcetta nei confronti dei politici -come nemmeno dei poeti, peraltro. Ci sono dei politici che meritano di andare, se non proprio in Paradiso -che mi pare cosa ormai ardua da raggiungersi- almeno almeno in Purgatorio…
Avevo pensato di sviluppare il nostro itinerario proprio in questa direzione: e quindi le chiedo di operare queste opportune distinzioni: dove situerebbe alcuni politici contemporanei nel sistema di pene e ricompense dell'aldilà dantesco? Partirei da Silvio Berlusconi, in parte perché è l'attuale capo del Governo, e in parte perché, a suo modo, è una figura che vi si presta in modo particolare, dato che, avendo costruito la sua politica soprattutto sulle fantasie e i fantasmi della cultura di massa, è entrato nell'immaginario collettivo del nostro paese.
Credo che ci sarebbero almeno due luoghi che potrebbero contenderselo. Da un lato il girone dei bugiardi, perché incarna precisamente una politica di propaganda, di miti, di sogni. Quindi lo vedrei tra i menzogneri per eccellenza, i propagandisti e i pubblicitari, per i suoi spot. E dall'altro lato lo collocherei tra gli avari, nel senso medievale della parola, cioè gli avidi di beni, coloro che sono orientati esclusivamente all'accumulazione delle ricchezze. Credo che potrebbe equamente dividersi per l'eternità: un anno in un girone, un anno nell'altro, così si renderebbe giustizia ai due aspetti che mi paiono fondamentali della sua personalità.
Più che per una vuota e rituale "par condicio", è per riservarle il gusto di condurre una critica interna al mondo della sinistra, a cui lei appartiene, che le chiederei dove porrebbe Massimo D'Alema…
D'Alema, anche se l'espressione è molto dura, potrebbe essere messo tra i traditori, nel senso che, uomo di sinistra -che avrebbe dovuto essere di sinistra- in realtà ha svolto una politica estremamente contraddittoria rispetto alle prospettive e alle esigenze attuali di un partito che voglia davvero collocarsi a sinistra. Quindi se a gestire l'inferno fossi io, uomo che pensa che per essere di sinistra sia necessario mantenere una posizione coerente con il materialismo storico, dunque richiamarsi in qualche modo alla tradizione marxiana, D'Alema finirebbe tra i traditori. Traditore però in questo caso non vorrebbe dire propriamente colui che agisce con intenzioni perfide, ma colui che si dimostra infedele a quei principi ai quali comunque avrebbe dovuto attenersi.
Traditore degli amici, quindi....
Sì, traditore degli amici, diciamo così.
E visto che anche Dante indicava la propria posizione all'interno del suo sistema, se Sanguineti dovesse entrare nel mondo di Dante, dove si collocherebbe?
Non so... Non è che abbia una così buona opinione di me da non sapere dove mettermi, ma sono ovviamente incerto nell'autodefinirmi. Alla fin fine penserei ai lussuriosi, non tanto perché la mia condotta di vita sia particolarmente scomposta ma perché l'erotismo è parte molto forte delle mie esperienze, del mio immaginario.
Quindi punirebbe l'«inibito pornografo»...
Sì, l'«inibito pornografo». D'altra parte quella è la definizione che ho dato del poeta in generale, con molta ironia, anche nei confronti di me stesso, perché mi mettevo in causa pure io.
Nell'epoca che -con un termine ormai comune- viene detta della «globalizzazione», predomina un solo modello universalmente riconosciuto per la produzione di beni e l'organizzazione della società, che tende ad avvicinare i luoghi, a renderli sempre più simili tra loro. Esiste ancora uno spazio reale che potremmo immaginare come il luogo dell'inferno per eccellenza?
Alla luce delle considerazioni sullo stato attuale delle cose, potrei dire che l'inferno è la terra. E' un inferno globalizzato. Per lo meno nel senso dei «dannati della terra», che oramai occupano la maggior parte dello spazio disponibile. Cosa evidentemente non del tutto nuova, perché gli squilibri di condizioni sociali, umane, culturali, materiali tra privilegiati ed emarginati hanno accompagnato tutta la storia. Però, mancando la globalizzazione, il nesso tra privilegiati e no era meno diretto, e in certe zone quasi inesistente. Voglio dire, naturalmente, che nelle "zone calde" della storia il conflitto fra sfruttatore e sfruttato era senz'altro forte ma che per secoli, per millenni probabilmente, coloro che vivevano nel Sud America, in Oceania, in Africa erano al di fuori del moderno rapporto di sfruttamento, le loro condizioni potevano essere -come si diceva- primitive. Certo, anche al loro interno esisteva spesso una dialettica sfruttatore-sfruttato ma questo rapporto non era così sistematico. I fenomeni di conquista, di colonizzazione, eccetera, hanno avviato il processo di globalizzazione. Oggi il problema del giorno è questo.
Detto questo, vorrei però precisare che ho un'opinione favorevole alla globalizzazione, nel senso che penso fosse un processo inevitabile, necessario e prevedibile, in quanto compimento e fase suprema (come si sarebbe detto una volta) dell'imperialismo, o impero del capitalismo. Adesso il vero problema è affrontarlo, e come si vede i privilegiati della terra non si curano delle sue contraddizioni: proprio in questi giorni si svolge a Roma la riunione della F.A.O., da cui tutte le grandi potenze si può dire che siano del tutto assenti, mentre ci sono solo i paesi poveri a esprimersi e protestare contro l'assoluto non mantenimento delle promesse, del resto già deboli e poco risolutive. Quindi direi che l'inferno ormai viene a coincidere con la terra, non per sempre -credo- ma certo -in questa fase- in modo pressoché totale.
A questo proposito ci si può ricollegare ad una sua celebre raccolta, «Purgatorio de l'Inferno». I critici ne parlano, con una formula che ormai è entrata -per così dire- nei manuali di storia letteraria, come di un testo dove lei esplora nel linguaggio, attraverso il linguaggio, la perdita di sé, la riduzione a cosa, ovvero a qualcosa di inconoscibile: l'alienazione. Nell'alienazione lei legge, o vi leggeva quando ha dato al suo libro questo titolo, la forma moderna della dannazione infernale?
Io avevo in mente un superamento dell'immagine di caos che era nel mio primo testo, cioè in Laborintus, che metteva in scena il disordine radicale del mondo e lo smarrimento in una condizione alienata. Nel Purgatorio de l'Inferno prospettavo invece una possibile via d'uscita, politicizzando sempre più le questioni, che prima erano eminentemente orientate in una condizione anarchica e rivoltosa. Cercavo di sviluppare la ribellione al caos in modo più politicamente concreto e specifico, storicamente determinato e quindi come necessità di rivoluzione. Il titolo -che ha sapore dantesco- era rubato a Giordano Bruno che accenna a un'opera da lui scritta che però o è perduta o era stata appena progettata, e di cui appunto non resta altro che il titolo. Quindi era possibile caricarlo di qualunque significato, anche perché il contesto non rende neppure possibile ricostruire con chiarezza i contenuti possibili di quell'ignota opera bruniana.