Giuseppe Giorgio Tranchida - Nominare la catastrofe

Strutture della testimonianza nel Tiresia di Giuliano Mesa

 

«Un legame che rendeva coessenziali il modo di esprimere un certo contenuto e la verità di quel contenuto sembra essersi spezzato».[1] Con questa formula Giuliano Mesa sintetizza la rottura occorsa alla fine del secolo scorso fra i presupposti comunicativi tradizionali e la nuova natura del discorso comune. In risposta a tale rottura, Mesa ha perseguito con radicalità e costanza l’obiettivo di dire il vero in poesia, ossia di giungere ad una riconnotazione delle cose e degli eventi attraverso una forma che li renda elementi significativi ai quali il lettore sia eticamente costretto a reagire: dall’esordio di Schedario[2] del 1978 all’incompiuto Nun (2002-2008)[3], ogni tappa della sua scrittura può essere interpretata come una declinazione nuova e provvisoria di un unico tentativo di riconnotazione del reale. Tuttavia è negli anni intorno al 2000 che la riflessione sulla mancanza di un presupposto veritativo che garantisse a priori la legittimità della scrittura e, di conseguenza, sulla necessità di superare tale condizione diviene preminente nella produzione critico-poetica dell’autore, con la pubblicazione di Tiresia[4] e dei saggi Frasi dal finimondo[5] e Dire il vero, scelti proprio per questo come oggetto del presente studio.

 

Scrivere nel finimondo

 

Nel tentativo di definire i termini della riflessione mesiana sulla necessità di dire il vero, l’analisi della condizione del mondo contemporaneo offerta dall’autore in Frasi dal finimondo appare quale punto di partenza ineludibile. Il saggio, pubblicato nel 2000 all’interno di Akùsma, denuncia la scissione e la neutralizzazione che il linguaggio ha subito a causa della scomparsa di «due esperienze fondamentali dell’esistere […]: la verità, la sua percezione»,[6] avvenuta a seguito della riduzione dell’imperativo etico di «agire secondo verità» ad una questione puramente individuale, estranea al confronto con qualsiasi possibile criterio oggettivo o intersoggettivo. La privazione di tali esperienze condanna la contemporaneità ad una condizione letteralmente catastrofica in quanto, per sua natura, ne determina l’ultima «mutazione di stato»[7] possibile. Se ogni affermazione può essere fatta come se fosse vera e creduta tale indipendentemente dal suo essere o meno verità, allora nessuna crisi e nessun disvelamento sono più pensabili:

 

Ripensamenti radicali, di sé e del mondo, sono diventati, letteralmente, impensabili. Sono consentiti adattamenti, “correzioni di tiro”, affinché il bersaglio rimanga sotto mira, e il bersaglio è sempre più e soltanto il mantenimento o il consolidamento dell’identità ricevuta. Il ripensare è inscindibile dal reinterrogare le parole. Le parole sono sempre più scisse. Nessun avvenimento è più disvelante poiché se ne rifiuta a priori la possibile minaccia a un equilibrio mitomaniacale, speculare alle attuali forme del dominio: si è ciò che si dice di essere, anche se non è vero, soprattutto se non è vero.[8]

 

Parlare di finimondo vuol dire allora, per Mesa, parlare del mondo piombato nella sua forma residuale e catastrofica, giunto cioè alla «conclusione tragica del [proprio] intreccio»[9]. In condizioni simili versa anche il linguaggio, il quale, non essendo più sorretto da alcun rapporto con la verità, finisce per perdere intensità e ridursi ad un insieme di parole indistinte e intercambiabili, scisse da ogni senso che si trovi all’esterno del sistema linguistico stesso.[10] Il linguaggio del finimondo è dunque totalmente ineffettuale, incapace di veicolare informazioni veramente comprensibili, se non sottoponendosi a «complicatissime torsioni sintattiche e semantiche» o facendosi sostenere da «apparati filologici ed ermeneutici, estenuanti glosse orali»:[11] è, di fatto, uno strumento precario e inutilizzabile, che può significare solo quando prende come referente se stesso, divenendo discorso di secondo grado. La diretta rappresentazione del reale non può quindi passare attraverso un linguaggio di questo tipo senza subire un depotenziamento che ne neutralizzi anche gli elementi prima considerati eticamente inaccettabili e che, in quanto tali, richiedevano un’azione da parte dei singoli e della società. Posto davanti a questo scacco della parola, chi scrive non può che chiedersi quale «balbettio» e quale «silenzio»[12] restino praticabili per far sì che il reale, con tutta la sua carica di orrore, possa essere ancora verbalizzato in maniera significativa – vera – e si possa tentare un disvelamento più che mai necessario. La verità di cui Mesa denuncia la scomparsa non è, dunque, la verità come concetto assoluto, ma piuttosto la «funzione necessitante, reciproca, tra il modo e il senso del dire» che fungeva da cardine dei «legami sociali di finzione, di superficie, che “regolano i rapporti” tra i poteri e i sudditi».[13] A rendere urgente la diretta nominazione del male e dell’orrore del reale è proprio il mutamento di questi legami nella società tardocapitalista: in quanto nessun elemento può avere altra identità che quella di merce, che anche l’orrore diviene fruibile come tale, e si può per fino «trovar[lo] buono»[14] quando localizzato altrove. La distanza permette, infatti, di godere solamente della forma estetizzata dell’orrore – l’horror –, vissuta senza ansie e con la certezza di assistere ad uno spettacolo commovente e inevitabile, rimuovendo persino la morte, forma più immediata dell’orrore, dal novero delle esperienze esistenziali, perché anche l’uomo è destinato a scadere e non essere più fruibile al pari di ogni altra merce:

 

La rimozione della morte è anche rimozione della necessità, separazione della libertà dalla necessità, del desiderio dal bisogno, rimozione indispensabile in un mondo dove le necessità elementari del vivere potrebbero essere tutte soddisfatte e dove, invece, sempre meno lo sono, dove la sublimazione virtuale del desiderio è lo specchio necrotizzato di una libertà che si nutre di oppressione. A morire sono sempre gli altri. Non muore mai nessuno. Si esiste nella doppia rimozione della propria morte e di quella altrui: ogni esperire viene così annientato, tutto si annienta nella finzione di eternità che rende ogni esperienza irrilevante. L’horror rimuove costantemente l’orrore. Le merci, propriamente, non muoiono: scadono, diventano obsolete.[15] 

 

Il poeta dovrà quindi fare i conti con questa rimozione e trovare la giusta postura da cui parlare per rendere di nuovo evidente la «necessità» rimossa e reintegrare l’orrore e la morte tra le esperienze possibili. Mesa prova a farlo mediante un ripensamento continuo del presente, che, come afferma nel saggio Dire il vero, non può che passare per la ricerca di forme, in quanto «l’agnizione, il ri-conoscere, riguarda il rapporto tra verità e linguaggio. Riguarda le forme».[16] Alla luce di tali premesse, dire il vero appare come un tentativo di diretta nominazione del reale e del male che è in esso, declinato ogni volta con strumenti formali diversi e mai pacificati, che permettano di pronunciare ogni parola «come se la necessità di conoscere attraverso le parole, e attraverso le parole delle poesie, fosse ancora vera». La questione della verità in poesia è, dunque, un problema di forma, e ogni opera poetica che vuole essere vera può darsi solo come risposta provvisoria a tale problema.

 

Tiresia

 

Tiresia. Oracoli, riflessi, nasce nella primavera del 2000 come progetto poetico e musicale, in collaborazione con Agostino Di Scipio, in cui poesia e musica vengono composte parallelamente e «in mutuo contatto», pur mantenendo «una certa autonomia espressiva dell’una rispetto all’altra».[17] A riprova di tale autonomia, Mesa sceglie di includerne i versi nel volume collettaneo della sua opera senza allegarvi alcun supporto audio. In questa sede la raccolta riporta nel sottotitolo l’indicazione delle date esatte di composizione (22 luglio 2000 - 24 gennaio 2001) collocando esplicitamente Tiresia prima dell’attacco terroristico dell’11 settembre, evento assurto immediatamente a emblema di una nuova era di violenza.[18] Se questa specifica può essere sembrata necessaria all’autore è proprio perché al centro dell’opera sta la sfida alla possibilità di testimoniare l’orrore quotidiano, eludendo lo scacco sotto cui la catastrofe contemporanea ha posto il linguaggio. Per farlo, il poeta non tenta più un resoconto di come la tragedia sia, ma prova a testimoniare che questa è e continua ad essere reale, attraverso un sistema di tensioni che sorregge sia la dimensione macrotestuale che quella microtestuale, provando a far coesistere la perfetta organizzazione della forma da un lato e la coazione alla sua dissoluzione dall’altro.

I testi della raccolta vengono suddivisi, fin dal sottotitolo dell’opera, in due tipologie: oracoli e riflessi. I primi sono individuati da un titolo e un numero romano e hanno una struttura regolare di 22 versi, di lunghezza variabile tra le nove e le sedici sillabe, ai quali si aggiunge un verso di chiusura in corsivo. I riflessi, invece, seguono una numerazione in cifre arabe, sono privi di titolo e hanno una struttura più irregolare,[19] con versi tendenzialmente più brevi. Le due tipologie sono organizzate secondo una successione di blocchi di due oracoli intervallati da tre riflessi. L’ordine che ne risulta è il seguente: Epigrafe; Oracolo I – Ornitomanzia. la discarica. Sitio Pangako.; Oracolo II – Piromanzia. le bambole di Bangkok; Riflesso 1; Riflesso 2; Riflesso 3; Oracolo III – Iatromanzia. Manhattan Project; Oracolo 4 – Oniromanzia. παιδός δ' όμματα νυξ έβαλεν; Riflesso 4; Riflesso 5; Riflesso 6; Oracolo 5 – Necromanzia. οι αταιροι. Massengräber; Epilogo. Come suggerito dai sottotitoli, gli oracoli fanno riferimento a specifici eventi, che vanno dal crollo di una discarica nelle Filippine nel 2000 alle fosse comuni europee, nelle quali le vittime dei conflitti di inizio secolo si uniscono a quelle delle guerre dell’ex-Jugoslavia.[20] È facilmente individuabile uno schema sintattico comune a tutti gli oracoli, all’interno del quale si registrano variazioni minime affidate alla diversa disposizione dei singoli blocchi. Nella sua analisi del poemetto, Florinda Fusco propone di suddividere i testi in «zone sonore di differente misura», costituite da un’unica emissione sintattica «che coincide con un flusso sonoro ininterrotto»[21] e demarcate da un punto fermo. Queste zone corrisponderebbero ad un unico flusso di pensiero, in rapporto al quale «la pausa sonora viene a coincidere con una pausa di pensiero».[22] L’individuazione di queste zone mostra, in effetti, una fortissima simmetria tra gli oracoli, specie tra i primi tre, strutturati secondo un’identica progressione che dal bisillabo di apertura arriva a due sequenze di otto versi ciascuna. Si veda come esempio la suddivisione interna dei primi due:[23]

 

vedi. || vento col volo, dentro, delle folaghe. ||

vedi che vengono dal mare e non vi tornano,

che fanno stormo con gli storni neri, lungo il fiume. ||

guarda come si avventano sul cibo,

come lo sbranano, sbranandosi,

piroettando in aria. ||

senti come gli stride il becco, gli speroni,

che gridano, artigliando, facendo scaravento, in muta,

ascoltane la lunga parata di conquista, il tanfo,

senti che vola su dalla discarica, l’alveo,

dove c’è il rigagnolo del fiume,

l’impasto di macerie,

dove c’è la casa dei dormienti

che sognano di fare muta in ali ||[24]

fumo. || nugoli, sciami di gusci neri. ||

bruciano le mandorle degli occhi, le falene,

le dita piccole e incallite, le mani stanche, stanche. ||

bruciano, scarnite, a levigare guance,

i gusci gonfi delle palpebre

che si richiuderanno. ||

fumo portato via, che trascolora,

che porta via le guance, paffute, delle bambole,

le anche dondolanti, a fare il movimento di ripetere,

in altalena, in bilico di piede, che lenisce,

gioco che non finisce, mai,

che non arriva, mai,

tempo di ricordare, dopo,

di ritornare dove si era stati ||[25]

 

Lo schema di questi primi testi viene variato negli ultimi due oracoli, suddivisi in cinque zone (un bisillabo, una zona da un verso, una da cinque e due da otto), ma ordinati secondo due disposizioni diverse. Tuttavia, la pausa tra i versi 9 e 10 dell’oracolo IV viene quasi annullata nell’esecuzione registrata di Mesa, in cui la vocalizzazione rimodula la suddivisione grafica dell’oracolo: vengono, di fatto, percepite due unità da otto versi intervallate da una centrale di sei, che non trova corrispondenza nell’oracolo successivo. Il verso 22 di quest’ultimo, infine, ritorna alla partizione in due zone vista nell’incipit dei primi tre testi, creando una circolarità tra primo ed ultimo oracolo: «taci. || porta le mani al viso, riannoda i tuoi capelli. ||».[26]La ricerca di regolarità caratterizza tutto l’ambito ritmico-sonoro e sembra approdare ad un metro basato sul tempo di emissione delle unità, che rimanda alle proposte metriche di autori quali Amelia Rosselli e Alfredo Giuliani.[27]

Nessuna regolarità sembra, invece, legare i testi dei riflessi: posti in serie da tre dopo gli oracoli II e IV, essi interagiscono piuttosto con i testi dell’altra tipologia, riprendendo i loro lessemi finali[28] e sviluppandoli come discorso di una voce che interroga il senso di questa scrittura oracolare: «[…] dillo, dillo a qualcuno» (oracolo II)| «a ridirti che cosa?»(riflesso 1);[29] «la luce, questa luce[…]» (oracolo IV)| «c’è questa oscurità»(riflesso 4);[30] «e dove?» (riflesso 6)| «dov’è […]» (Oracolo V).[31]Il rigore formale del poemetto sembra cedere nei riflessi, rendendo più evidente l’opacità degli altri livelli testuali, primo tra tutti quello dello statuto enunciativo delle singole parti: non viene mai esplicitato, infatti, a chi sia riconducibile la voce che pronuncia i singoli versi. Nel tentativo di distinguere le singole voci, però, risulta chiaro come lo statuto enunciativo dei diversi luoghi del poemetto risulti sempre adombrata di ambiguità. «Da dove parla[re]?»[32] è una domanda fondamentale per l’autore, consapevole dell’impossibilità di assumere acriticamente tanto uno sguardo esterno all’evento, quanto la voce delle vittime: chi scrive parla sempre da una posizione privilegiata rispetto alla vittima e può assumerne il punto di vista solo in maniera superficiale e falsa ma, allo stesso tempo, il suo essere costantemente spettatore del naufragio, sovraesposto all’orrore, lo rende vulnerabile alle «devastazioni psicologiche [che] può causare l’assistere costantemente, e con quasi costante indifferenza, alle devastazioni in atto».[33]La problematizzazione dei «punti di vista» e delle voci attraverso cui parlare è da leggere, quindi, alla luce della sfida alla possibilità di nominazione dell’orrore affrontata da Mesa e non può essere compresa se non analizzando i diversi elementi formali dell’opera. Partendo dagli aspetti macrostrutturali, il titolo e la presenza di visioni oracolari sembrerebbero indicare l’indovino tebano come locutore e porre il lettore come destinatario davanti al quale avvengono i vaticini. Tuttavia, già dall’epigrafe notiamo che anche il tu dell’enunciazione è, in alcuni casi, riferito a Tiresia: «Devi tenerti in vita Tiresia, | è il tuo discapito». Nei riflessi, al contrario, il dispositivo di enunciazione tende a trasformarsi in un istituto «spersonalizzato e plurale» attraverso «un continuo passaggio di verbi da una seconda persona a infiniti nominali a terze persone singolari impersonali».[34] Per provare a seguire queste variazioni è utile analizzare l’uso dei corsivi, attraverso cui l’autore segnala una diversa collocazione degli enunciati e li pone al di fuori della situazione comunicativa precedente. A differenza dell’epigrafe, in cui Tiresia è chiaramente indicato come destinatario, i versi corsivi dei cinque oracoli e l’epilogo della raccolta non recano simili indicazioni, e per giungere all’identificazione del tu è necessario partire dalla situazione comunicativa messa in scena nei singoli testi. Nell’oracolo I, siamo dapprima invitati ad osservare («vedi»; «senti») il volo degli uccelli, «che vengono dal mare e non vi tornano» e «si avventano sul cibo | […] sbranandolo, sbranandosi | piroettando in aria».[35] Compaiono subito dopo i rifiuti, la discarica e l’insieme delle vittime («dormienti») e dei sopravvissuti, «repellenti» nel loro scavare e nutrirsi di rifiuti. Il verso corsivo si colloca all’esterno del corpo del vaticino e chiama in causa chi ha ascoltato, con l’intenzione di sfidarlo: «prova a guardare, prova a coprirti gli occhi». Sembra quindi l’indovino stesso a parlare, invitando il lettore ad accedere alla sua stessa condizione: farsi cieco per guardare davvero la crudeltà della tragedia. Nel secondo oracolo l’individuazione delle voci del testo appare meno univoca. All’inizio troviamo la descrizione appena scorciata dei corpi bruciati delle bambole, gradualmente sovrapposti a quelli delle bambine-operaie. A questa descrizione fa seguito il ritorno delle sopravvissute al lavoro sempre uguale («gioco che non finisce, mai, | che non arriva, mai, | tempo di ricordare, dopo, | di ritornare dove si era stati»), mentre incombe ancora il pericolo della morte per fuoco («[…] gli occhi stanchi | tenerli aperti, sempre | e quando arriva il fuoco che sfavilla, | ecco, giocare a correr via»).[36] Il racconto è sicuramente riportato dall’indovino, ma a parlare sembra qualcuno che ha vissuto in prima persona la tragedia. Questa lettura trova conferma nel commento dell’autore stesso, pronunciato durante una lezione tenuta presso una scuola media genovese nel 2002. In quell’occasione Mesa, identificandosi con l’indovino, afferma:  

 

ho pensato d’immaginare che cosa succedeva nella mente di questa bambina costretta a lavorare per costruire bambole, desiderando magari di giocare con le bambole, e trovarsi d’improvviso dentro questo rogo e … per me non è stato facile cercare di…  […] sarebbe stato facile descrivere il fatto così come lo avevano raccontato, molto più difficile cercare di immedesimarsi in una persona concreta.[37]

 

Tutto l’oracolo II sovrappone livelli diversi, operando continui scarti di significati: a parlare è Tiresia, ma solo come medium di una delle vittime, vera voce testimoniale; mentre il ruolo del lettore e dell’indovino diventa unicamente quello di riferire quanto ascoltato. Alla stessa deliberata plurivocità sono soggetti i corsivi degli oracoli III e IV, il primo dei quali potrebbe far appello tanto al lettore, quanto agli abitanti delle zone dei test nucleari, ai quali sembra rivolgersi l’indovino nel corpo dell’oracolo, perché adesso sono entrambi in grado di fuggire dal male denunciato («prendi questo regalo e vattene, ora, ora che sai.» [38]). L’oracolo IV, dedicato ai bambini vittime della tratta di organi di metà anni ’90, sembra passare dalla descrizione dell’asportazione (vv.1-8), ad una serie di versi in cui chi parla si rivolge al bambino (vv.9-14), terminando poi con l’indovino condotto – forse dallo stesso bambino – ad assistere ad un altro tragico intervento (vv.15-22). La sovrapposizione tra Tiresia e le vittime inizia già dal verso di Callimaco usato come sottotitolo: «e la notte prese gli occhi del fanciullo»[39]. Nel testo greco il verso è riferito proprio all’indovino tebano, ma, riconnotato nel contesto del poemetto di Mesa, può essere contemporaneamente riferito sia a Tiresia che alle vittime dell’orribile tratta, entrambi privati della «luce» dello sguardo. A questa ambivalenza fa eco il verso finale in corsivo «la luce, questa luce, non sarà mai la tua», [40] che potrebbe essere rivolto sia dall’indovino alla vittima del trapianto, sia da un’altra voce – presumibilmente del poeta – a Tiresia. Il corsivo dell’ultimo oracolo («ancora non hai colto il tuo narciso, e il croco già fiorisce»[41]) sembra, invece, rivolto dall’indovino ai morti delle fosse comuni, richiamando attraverso i due fiori scelti il mito di Persefone e l’inno omerico a Demetra, nel quale la dea accoglie con narciso e croco il ciclico ritorno della figlia dall’Ade.[42] Questo ciclo di profezie si chiude con l’immagine di una rinascita, che però, proprio perché l’oggetto unico di questo itinerario è stato l’orrore tragico del reale, finisce per portare con sé l’ombra sinistra di tragedie destinate a ripetersi.

Diverso appare, invece il soggetto parlante dei riflessi, nei quali il tono si fa meditativo e il continuo appello al tu è indirizzato ad un interlocutore che a sua volta «ne dar[à] conto».[43] Se tale ruolo è plausibilmente riconducibile a Tiresia, in realtà, altri elementi consentono di attribuire all’indovino anche la voce che dice io in questi testi. Nel riflesso 3, infatti, il soggetto sembra sperimentare in prima persona l’inizio di un’esperienza medianica:

 

e lentamente si riavvolge,

e si fa nodo,

groppo di gola,

giro di vortice

e vertigine,

sentendo tutto Insieme

che tutto è un solo tempo

che non c’è,

che non c’è tempo

 

e dopo,

che si placa,

quando puoi riascoltare

il fiato che respira,

la palpebra che batte,

senti salire su

fino alla nuca,

che come guaina,

come vagito,

Ripete andare, fare,

Fare parte[44]

 

Chi parla sente riformarsi il nodo, percepisce il collasso della temporalità in «un solo» tempo ed è pronto a «ripetere» l’azione a cui sembra condannato; non a caso il testo successivo è un oracolo. Questi elementi suggeriscono che, anche nei riflessi, a parlare sia proprio l’indovino, sebbene cambi il tono e rivolga a se stesso tragici quesiti sul senso del suo vaticinare, sulla possibilità di parlare a qualcuno («a chi ne darai conto? | per chi | sarai misura d’ore […]?»)[45] e di rendere conto di quanto visto («a ridirti che cosa?») [46]. In questa cornice trovano spazio anche i tre riflessi finali, nei quali l’indovino, cessato l’esercizio delle proprie doti mantiche, si ritrova immerso in quella stessa tenebra che avvolge i bambini mutilati dell’oracolo precedente («c’è questa oscurità| questo livore»).[47] Adesso, prima di compiere la sua ultima necromanzia, si chiede:

 

e dire le ultime parole?

e quali?

portarle via con sé?

e dove?[48]

 

L’epilogo, interamente in corsivo, pone, infine, la questione sull’identificazione tra poeta e indovino. L’identificazione tra Mesa e Tiresia, suggerita dallo stesso autore, è semplicistica e contraddetta dall’insieme degli elementi finzionali dell’opera.[49] Il poemetto esplora, piuttosto, la possibile identità tra la figura del Poeta (inteso come ruolo di colui che scrive versi, a cui è riferibile l’atto poetico, non come soggetto empirico) e quella di Tiresia, per sondarne la capacità di assolvere alla funzione testimoniale che Mesa vuole riguadagnare alla poesia. L’indovino di quest’opera non profetizza eventi futuri, ma è testimone di quanto è già avvenuto o continua ad avvenire; la sua parola permette di vedere quella sofferenza che il discorso del potere occulta con il silenzio. La sua figura è quasi quella di un profeta veterotestamentario. Scrive Mascitelli a tal proposito:  

 

È evidente che è presente nel Tiresia un aspetto profetico, comune alla grande poesia moderna, a patto di ricordarsi che nell’accezione biblica il profeta non è colui che prevede il futuro, ma che constata il male del presente o, per essere più precisi, “La profezia nell’Antico Testamento rappresenta sostanzialmente la contestazione del potere politico e sacerdotale dominante da parte di un personaggio escluso o - diremmo oggi - esterno al sistema, che sa leggere i segni dei tempi al di là degli interessi consolidati e rappresenta la voce di Dio per la condanna dell’ingiustizia e la proclamazione di un cammino di redenzione”.[50]

 

Al cuore del rapporto tra poeta e indovino sta quello tra testo poetico e verità etica: la testimonianza è l’unica possibilità di impegno a disposizione di chi scrive e il poeta, perso il ruolo di vate, non può che opporsi al silenzio accogliendo nella sua voce quella delle vittime.

Tuttavia, la posizione di Tiresia è diversa da quella del poeta: l’indovino non è semplicemente testimone del dolore altrui ma condivide con i suoi interlocutori la condizione di vittima. Come nelle fonti classiche, la colpa di Tiresia è involontaria – vede Atena nuda «senza volere», scrive Callimaco[51]– ma ne paga ugualmente le conseguenze. Egli è vittima sia quando, appena ragazzo, viene privato della vista oculare, sia da anziano profeta, quando i suoi vaticini ne fanno oggetto di scherno. In virtù di questo status, Tiresia può associarsi alla sofferenza di coloro ai quali dà voce, dei bambini privati della luce e di chi, involontariamente al centro di esperimenti nucleari, è costretto a vedere frustrato il valore della propria testimonianza. Il poeta ricorre alla mediazione del veggente tebano, insieme indovino e profeta veterotestamentario, ma non confonde con questi la propria posizione: resta cosciente dell’insufficienza inaggirabile della parola poetica nei confronti dell’oggetto che vuole verbalizzare. Le visioni si arrestano sempre davanti ad un impedimento che non permette di andare oltre una rotazione «accanto»[52] al nucleo del tragico. La legittimità di questa parola oracolare viene costantemente messa in discussione dai corsivi e dai riflessi, mentre la testimonianza di cui è portatrice si muove sull’orlo del fallimento. Mesa non nasconde il pudore di non tacere – wittgensteinianamente – «di ciò di cui non si può parlare»: l’oggetto di questa scrittura e il suo spazio di ricezione non sono più istanze garantite a priori. Tuttavia, la poesia resta eticamente necessaria in quanto, come scrive Inglese, «risposta al “che il mondo esiste”, non descrizione del suo come. […] Questo orizzonte è quello dell’estetica e dell’etica[53], ossia di ciò che non può essere espresso nel discorso comune, inteso come discorso che dice-descrive i fatti del mondo».[54] Per questo Mesa non sceglie una resa oggettiva e fotografica del male, ma tenta di codificarlo, rimodulandone «la natura ostilmente asemantica»[55] attraverso gli echi e gli scarti della lingua poetica: compito del poeta è rendere manifesto questo enigma, senza neutralizzarlo in spiegazioni o abbassarlo ad evocazione spettacolarizzata. La poesia viene definita dall’autore stesso «oggetto analogico»:

 

Ad esempio, se la poesia è oggetto analogico che si pone in relazione col mondo – non mimesi, non descrizione realistica -, è un come se, similitudine senza termine di paragone, termine di paragone che essa cerca di individuare, di nominare, nominandosi. Poiché la poesia non parla di parole ma di qualcosa che alle parole preesiste: il referente – mondo, il referente – vita.

Ad esempio, qui, non si può che limitarsi al come, all’approssimazione dell’exemplum non probante. Oggi, già addentrati nel secondo millennio, viviamo un conflitto sempre più aspro, e sempre più sanguinoso, tra conoscenza ed esistenza (ed esistenze, degli uomini, tutti). Le cose visibili occultano, i segni occultano. Così, ancora, è ancora tutto da dire.[56]

 

La poesia è manifestazione di un non-manifesto, che da essa non viene compiutamente nominato ma figurato: la poesia risponde a ciò che vede costruendo un evento complesso, formato dall’insieme dei suoi elementi retorici, ritmici e lessicali, ossia un «atto di dizione».[57] Il personaggio di Tiresia serve a Mesa per la costruzione di questo evento, nel quale la figura del protagonista diviene l’elemento strutturale che consente una dimostrazione ostensiva dello statuto altro del discorso poetico, pur mostrandone al contempo tutti i limiti. Appare inevitabile che lo scarto tra poeta e personaggio conduca, infine, ad una separazione dei due, necessariamente consumata dentro lo spazio del poema. L’epilogo della raccolta segna, infatti, il congedo del poeta da Tiresia, lasciato «qui», entro i confini dell’opera:

 

Ti lascio qui

con queste nubi cariche di pioggia

striate da un bagliore

che ti risveglierà, anche domani,

quando avrai più ricordi

da pensare

 

vado

nella penombra che rimane,

dove ritorno, adesso,

adesso che potrà ricominciare,

che potrei,

adesso c’è soltanto il desiderio:

lasciare, lasciare intatto

questo momento prima del dolore,

quando il dolore

è diventato nenia di conforto

e poi silenzio,

questo silenzio che sentiamo insieme,

adesso – è adesso che sappiamo,

in questo momento che divide

 

ti lascio qui[58]

 

Ad attendere chi scrive c’è una «penombra che rimane», che nega la possibilità di ogni chiarezza – di sguardo e parola – definitivamente acquisita: pur avendo smessi i panni dell’indovino, il poeta è chiamato ancora ad essere «qualcuno [che] vede male e dice male affinché altri, a partire da questa consapevolezza dolorosa, possano dire meglio e vedere meglio».[59]

 

Bibliografia

 

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- Poesie 1973-2008, Roma, La Camera verde, 2010.

- Interazioni. Poesia e didattica. un incontro con gli studenti della scuola media “centurione” (Genova, 2002), «Cantarena», n. 22, VI, giugno 2003.

Picconi G. L., "Non vorrà venirmi a dire che Tiresia è lei?". Tiresia, narratività e tragico, «Ulisse», n. 15, 2014, pp. 70-71.

Rosselli A., Spazi Metrici (1962), appendice a Variazione Belliche, Garzanti, Milano, 1964, ora in Id., L’opera poetica, S. Giovannuzzi (a cura di), Milano, Mondadori, 2012. pp. 181-189.

Walter F., Catastrofi. Una storia culturale, Costabissara, Angelo Colla Editore, 2009.

Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Nuova edizione, Torino, Einaudi, 1997.

 


[1] G. Mesa, “Dire il vero”. Appunti, in Scrivere sul fronte occidentale, A. Moresco e D. Voltolini (a cura di) Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 138-141.

[2] Id., Schedario, Torino, Geiger, 1978. L’opera è stata poi ripubblicata, ogni volta con piccole varianti d’autore, nel 2005 (Schedario, Poesia italiana E-book, 20052) e nel 2010 (Poesie 1973-2008, Roma, La Camera Verde, 2010; da ora in poi indicato come: P).

[3] P, pp. 359-417. Le sezioni erano già state pubblicate in volume nel 2007: 1,6,7, (I,II), Roma, La camera verde, 2007.

[4] Id., Tiresia, con traduzioni di A. Raos ed E. Houser (francese), A. F. Muller (tedesco), J. Flores Haboud (spagnolo), S. Zanotti (inglese). Immagini di M. Guerra. Con un cd contenente la lettura di Tiresia, chissà, e, da nunFuga tripla e 1,6,7 (I-II), Roma, La Camera Verde 2008; poi in P, pp. 343-358.

[5] Id., Frasi dal finimondo, in Ákusma. Forme della poesia contemporanea, Fossombrone, Metauro, 2000, pp. 169-172.

[6] Ibid. p.169.

[7] F. Walter, Catastrofi. Una storia culturale, Costabissara, Angelo Colla Editore, 2009. p.17.

[8] G. Mesa, Frasi dal finimondo, cit., p. 169.

[9] F. Walter, Catastrofi. Una storia culturale, cit., p.16.

[10] «Indistinzione, indifferenza, interscambiabilità. Le parole non hanno, davvero, più senso. Occorre esserne consapevoli, nell’interlocuzione, per non essere sottoposti a un permanente inganno nemmeno più considerato tale. Il linguaggio ci viene così inesorabilmente sottratto.», G. Mesa, Frasi dal finimondo, cit., p. 170.

[11] Ibid.

[12] Id., Frasi dal finimondo, cit., p. 169.

[13] Id., “Dire il vero”, cit., p.138.

[14] Id., Frasi dal finimondo, cit., p. 170.

[15] Ibid., p. 172.

[16] Id., “Dire il vero”, cit., p.140.

[17] A. Di Scipio, Appunti su Tiresia, diario di lavoro (inedito), 2001, parte I, p. 1.

[18] cfr. G.L. Picconi, “Non vorrà venirmi a dire che Tiresia è lei?”. Tiresia, narratività e tragico. «Ulisse», n°15, 2014. pp. 69-81. Cit., pp. 70-71.

[19] Troviamo soli quattro versi nel riflesso 6, ma si giunge fino ai ventuno del riflesso 3.

[20] I riferimenti puntuali suono forniti dall’autore stesso nella nota alla raccolta nell’edizione del 2010 (P, p. 358).

[21] F. Fusco, Tiresia: il viaggio negli inferi della contemporaneità, «Atelier», n°61, 2001, pp. 72-79. cit., p.76.

[22] Ibid.

[23] Si indica con la doppia barra la fine di ogni zona testuale.

[24] P, p. 346.

[25] Ibid., p. 347.

[26] Ibid., p. 356.

[27] Tra i diversi effetti di regolarità ravvisabili nei singoli testi si segnala la ripetizione in posizione tonica di medesime sillabe, o l’insistenza in più versi su gli stessi timbri vocali. (p. es. oracolo I, P, p. 345. Qui la sillaba ve- ritorna cinque volte in posizione tonica, prima di essere ripresa in posizione atona in «alveo», al decimo verso). Quanto all’analisi del lavoro sui tempi di emissione delle singole unità si rimanda a S.F. Lilly, Agostino Di Scipio’s and Giuliano Mesa’s Tiresia: the Structure of Collaboration, p. 11. La relazione è stata presentata alla Music Theory Society of Mid-Atlantic’s Third Annual Conference, Wilkes University, Wilkes-Barre, Pennsylvania, tenutasi in data 1 e 2 aprile 2005. Il testo completo è rimasto inedito ma mi è stato gentilmente fornito da Agostino Di Scipio. Riguardo alle teorizzazioni metriche di Rosselli e Giuliani si rimanda rispettivamente a: A. Rosselli, Spazi Metrici (1962), appendice a Variazione Belliche, Milano, Garzanti, 1964, ora in Id., L’opera poetica, a cura di S. Giovannuzzi, Milano, Mondadori, 2012. p. 186-187; A. Giuliani, «La restituzione» di Edoardo Cacciatore, in Immagini e maniere, Milano, Feltrinelli, 1965. p. 77-78; S.Colangelo, Metrica come composizione. (in appendice una conversazione con Edoardo Sanguineti), Bologna, Gedit, 2002, p. 94-96.

[28] Il riflesso 6, al contrario, anticipa la prima parole dell’oracolo V (P, pp. 355-356).

[29] Ibid., pp. 347-348.

[30] Ibid., pp. 352-353.

[31] Ibid., pp. 355-356.

[32] Id., Frasi dal finimondo, cit., p. 171.

[33] Ibid.

[34] G. L. Picconi, Non mi venga a dire che Tiresia è lei, cit., p. 72.

[35] Ibid., p. 346.

[36] Ibid., p. 347. Il riferimento è alla morte per acqua della Terra Desolata di Eliot (T.S. Eliot, La terra desolata, Milano, BUR Biblioteca universale Rizzoli, 2013)

[37] G. Mesa, Interazioni. Poesia e didattica. un incontro con gli studenti della scuola media “centurione” (Genova, 2002), «Cantarena», VI, 22, giugno 2003, p. 15.  L’intervento si tenne il 1° giugno 2002 presso la classe 1°A della Scuola Media “Centurione” di Genova, a Tiresia ancora inedito. La trascrizione dell’intervento con corredo di foto è disponibile qui.

[38] P, p. 351.

[39] Ibid., p.352. La citazione è tratta dall’inno V di Callimaco, v. 83 (Aa. Vv., Miti greci, G. Zanetto (a cura di), Milano, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 20192, pp. 34-35).

[40] Ibid., p. 352.

[41] Ibid., p. 356.

[42] F. Fusco, Tiresia: viaggio negli inferi della contemporaneità, cit., p. 75.

[43] P, p. 349.

[44] P, p. 350.

[45] Ibid., p. 349.

[46] Ibid., p. 348.

[47] Ibid., p. 353.

[48] Ibid., p. 355.

[49] Cfr. G. L. Picconi, Non vorrà dirmi che Tiresia è lei, cit., p. 73.

[50] G. Mascitelli, Il posto di Tiresia (leggendo il Tiresia di Giuliano Mesa), «Nazione indiana», consultato il 14/04/2021.

[51] «[Tiresia] giunse alle acque della fonte, / sciagurato, e, senza volerlo, vide la proibita visione» (Callimaco, Opere, G.B. D’Alessio (a cura di), Milano, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 20167, p. 183).

[52] Non a caso, L’orbita accanto è il titolo della prima sezione di Schedario, opera di esordio di Mesa. Il movimento di rotazione attorno ad un impronunciabile nucleo tragico rimarrà, come testimoniato dal Tiresia stesso, cifra della sua scrittura.

[53] Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Nuova edizione, Torino, Einaudi 1997, p. 79 e ss.

[54] A. Inglese, Il canto dell’orrore: sul Tiresia di Giuliano Mesa, «Per una critica futura», n.5/6., febbraio 2010, p. 42.

[55] M. Giovenale, Visione, Voce, Dovere. Il “Tiresia” di Giuliano Mesa, in Ibid., p. 33.

[56] G. Mesa, Ad esempio. La scoperta della poesia, in La scoperta della poesia, a cura di M. Rizzante e C. Gubert, Metauro, Fossombrone 2008, pp. 17-25.

[57] Cfr. A. Inglese, Il canto dell’orrore: sul “Tiresia” di Giuliano Mesa, cit., p. 45.

[58] P, p. 357.

[59] A. Inglese, Il canto dell’orrore: sul “Tiresia” di Giuliano Mesa, cit., p. 47.

 

21 settembre 2021