Da qualche tempo scrittori, critici, docenti, uomini di cultura si interrogano sulla letteratura e sulla critica che l’accompagna da sempre. Il disagio sta crescendo: la letteratura non sta forse perdendo i territori che da Omero, almeno nel mondo occidentale, in poi la ponevano per molti versi ai vertici dei saperi e delle pratiche di conoscenza? E la critica letteraria non è forse in crisi profonda, attanagliata da una autoreferenzialità disarmante e incapace di dibattere del suo ‘oggetto’ con nuove categorie e strumenti? In Italia la questione è ancor più paradossale perché qui più che in altri paesi lo strabismo concettuale diviene eclatante: in ogni ordine scolastico la materia ‘Italiano’ è solidamente presente eppure ciò non basta ad evitare che il numero di lettori stia calando ancora, che la padronanza della lingua madre (come da tanti denunciato) sia ai minimi storici e che la frattura tra giovani generazioni e ‘letture ben fatte’ (per dirla con un celebre saggio di Steiner) specie dei classici sia sanzionata in modo irreversibile, almeno in apparenza. Se pensiamo poi al latino e al greco credo che le percentuali siano impietose. Nel paese della cultura classica per eccellenza e ‘romano’ come l’Italia non solo la conoscenza delle lingue classiche è propria di una esigua minoranza ma minoritaria resta, di là dalla lingua, una conoscenza non banale di quella straordinaria fase storica e culturale da cui attingiamo le nostre antiche radici identitarie.
La questione in realtà riguarda tutti i paesi occidentali. I dati sulle competenze linguistiche sono drammatici persino nei paesi a lingua inglese, ad esempio: che in altri paesi si legga di più è poi un dato che andrebbe ‘disaggregato’. Si legge di più che in Italia perché vi è una maggiore tradizione di letteratura ‘popolare’ di buon livello che da noi ha sempre attecchito con fatica e che quando produce esempi riusciti amplia anche qui la platea dei lettori (cito a caso fra gli esempi degli ultimi anni: Lucarelli, Saviano, Manfredi, Ferrante, Camilleri…). Ma se ci volgiamo ai classici delle varie letterature il quadro è persino più grave che in Italia: negli Stati Uniti e in Inghilterra stessa riuscire a leggere Shakespeare ‘in originale’ è appannaggio di una minoranza di studenti e di cittadini e infatti fioriscono adattamenti, riassunti, ‘traduzioni’, serie Tv e film, persino fumetti per avvicinarlo. Allora torniamo alla domanda iniziale che ci eravamo posti: dov’è ‘finita’ la letteratura? Ha perso, come pare, la sua rilevanza sociale a scapito di altri saperi ritenuti ben più idonei a cogliere la realtà e a viverla? Ovvero, e qui torna l’eterna domanda che oggi però non può essere più evasa con snobistica insofferenza ‘alla Petrarca’, a che ‘serve’ ormai la letteratura? Fare spallucce a queste domande vuol dire da parte soprattutto di critici e docenti aver già perso la battaglia. Sarebbe più produttivo (se proprio si vuole ricorrere a una risposta non scontata di qualche classico) cominciare allora a rileggersi la Defence of poetry del grande Shelley dei primi anni dell’Ottocento in pieno Romanticismo o accedere ad alcune geniali dispute sul senso dello scrivere e dello stile accese dagli Illuministi (un libro fondamentale in proposito venne redatto dal nostro Cesare Beccaria) o ripercorrere con occhio non convenzionale il senso vero e profondo del dibattito fra Pasolini e Calvino, punto altissimo dell’ermeneutica non solo italiana del secondo dopoguerra, o finalmente riaprire con passione i Quaderni di Gramsci laddove si determinano con analisi lucidissime ed oggi più che mai pertinenti le linee di una modernissima ‘sociologia letteraria’ particolarmente attenta ai generi ‘popolari’ e al tempo stesso in rilettura non banale dei grandi classici moderni (Machiavelli, Manzoni). Per non parlare delle geniali risposte avanzate da alcuni filosofi, padri del pensiero contemporaneo, da Nietzsche in apprendistato sulla ‘gaia scienza’ dei trovatori ad Heidegger in esemplare esercizio ermeneutico attraverso la lettura di Hölderlin. Si badi, il problema coinvolge tutte le cosiddette humanities, non solo la letteratura: le pratiche tecnologiche e tecnocratiche, lo sviluppo del pensiero scientifico, il moltiplicarsi di professionalità specialistiche con le connesse dinamiche lavorative hanno come perimetrato in territori più angusti il dominio delle scienze umane tutte. Eppure nonostante ciò ogni risposta apocalittica o cinicamente scettica va rigettata. Innanzitutto il rimescolamento dei saperi e delle loro gerarchie è fatto ovvio nella storia umana: che la letteratura soffra oggi di una concorrenza formidabile ad esempio sul terreno dell’immaginario da parte di nuove forme narrative e poetiche veicolate da dispositivi altri rispetto al ‘libro’ (cinema, televisione, internet, social, musica pop) è incontestabile ed è fenomeno tanto crescente quanto inarrestabile. Il problema non è di rifugiarsi in una sorta di lode dei tempi passati e della ‘carta stampata’. Il problema è di capire se davvero la letteratura ha perso terreno o se invece, in un prorompente e inedito (almeno in queste dimensioni) ‘patto finzionale’ col pubblico (quello che potremmo nominare, traendo i termini da una popolarissima serie Tv, il ‘gioco della letteratura’) ne ha paradossalmente guadagnato di nuovo laddove a prima vista (tutti presi come siamo dai nostri microstudi narcisistici e sovente inutilmente eruditi) a noi ‘specialisti’ non pare. La letteratura in realtà si è insinuata nel territorio ‘barbaro’ (la terminologia cara a Baricco) e lo ha praticamente ‘reinventato’: ad esempio nessuna delle migliori serie televisive prodotte negli ultimi anni e di grande presa popolare potrebbe essere compresa né se ne spiegherebbe il successo globale se non si tenesse conto che la loro struttura portante decisiva è data dalle straordinarie ‘sceneggiature’ (opera di validissimi autori) ovvero dalla ‘scrittura’ drammaturgica che le caratterizza in modo peculiare e che deriva integralmente dalla migliore tradizione dei grandi classici della letteratura (Dante, Machiavelli, Shakespeare, Stevenson, Dumas, Tolstoj e così via…). La letteratura vive in molte forme tradizionali (specie attraverso la pratica crescente di lunghi romanzi e la fortuna continua di generi sempre più perfezionati come il thriller o il romanzo fantasy o storico) ma vive molto anche nei territori altri che richiamavamo: la lirica o poesia che dir si voglia è protagonista nella colonna sonora che continuamente e in ogni dove ci avvolge; ovvero ha ‘conquistato’ territori di primo piano nelle migliori serie di canzoni pop, rock, melo, ecc. in cui il ‘testo’ è decisivo per la fortuna delle canzoni stesse ed è tanto più decisivo quanto più è ancorato a solidi radici e ad echi poetici/letterari. Ancora: sta affermandosi con passi da gigante in tutto il mondo per la formazione dei medici il nesso cruciale tra medicina e humanities con un ruolo decisivo dell’apprendistato letterario tanto che un ambito essenziale di questi studi non a caso viene definito ‘Medicina narrativa’! Per non parlare degli ambiti di Law and literature nati dalle brillanti riflessioni della Nussbaum ed oggi ritenuti imprescindibili per la formazione giuridica in senso lato… E questi sono solo alcuni dei tanti esempi che si potrebbero addurre.
Insomma, cari colleghe e colleghi, professori e critici: è ora di non piangersi addosso ma di rimboccarsi le maniche e lavorare alla ridefinizione del nostro oggetto di studio e delle sue vere, nuove articolazioni. Ma se questo appare indispensabile e urgente per capire il presente, non meno è decisivo reinventare nuove chiavi e temi per rileggere il passato che ci ha consegnato la tradizione letteraria di cui siamo eredi e che appunto determina e domina (come si diceva) sia le più nuove forme espressive di massa sia le dinamiche di sofisticati apprendistati professionali. Occorrerebbe che ci riavvicinassimo ad esempio alla lezione di un grande critico innovatore e inventore di inediti territori di ricerca come Piero Camporesi (le cui opere sta ristampando Il Saggiatore): letteratura, antropologia, cultura popolare, paesaggio, naturalismo, cibo e ‘materia’ furono nelle sue ricerche una miscela esplosiva che consentì di fare della critica letteraria il grimaldello per esplorare il mondo e la sua storia concreta. Dobbiamo coniugare senza timore con forza storia, filosofia e letteratura prendendo il meglio delle intuizioni desanctisiane e poi gramsciane. Dobbiamo reimpadronirci di ambiti decisivi che abbiamo trascurato nel nome di cronologie spesso fasulle e superficiali: come ho dimostrato già nel mio volume L’immaginario e la ragione (Roma, Carocci, 2017) il Settecento riformatore e l’Illuminismo devono tornare al centro della nostra riflessione storica e letteraria nonché didattica come nuclei imprescindibili per capire le radici del nostro tormentato presente. Allora con nettezza sapremo mostrare la centralità di un discorso letterario che si fa fondante di un’epoca decisiva per l’Occidente moderno.
E se humanities debbono essere lo siano sino in fondo: ovvero andiamo alle origini e allo sviluppo della grande stagione umanistica italiana. Indichiamo le tappe e le ‘stazioni’ imprescindibili per riappropriarci di quel lessico e di quei codici che ci hanno segnato e ci scopriremo alla fine forse tutti un po’ umanisti. L’Umanesimo ha un inizio con una data precisa che è data dalle Egloghe dantesche del 1320-1321 e si dipana in tappe e sentieri fondamentali: Dante appunto, un certo Petrarca, Boccaccio, i poemi dell’immaginario moderno con Boiardo e Ariosto, Machiavelli e la scrittura della politica come vita, il farsi innovativo del discorso letterario/metaforico nel Cinquecento, la straordinaria tensione storica e narrativa di Guicciardini, le istituzioni dirompenti dell’età barocca e via fino ai nostri giorni con le ‘nuove frontiere’ di cui parlavamo…Paradossalmente la letteratura inizia oggi laddove credevamo finisse e il suo inizio umanistico con Dante è strettamente connesso all’approdo cui ci portano i successivi sentieri letterari se li sappiamo percorrere e interrogare con prospettive altre, con dinamiche nuove e con un senso robusto e radicale della critica come discernimento del mondo.
(estratto da: Gian Mario Anselmi, L’approdo della letteratura. Percorsi della narrazione da Dante a Game of Thrones, appena edito da Carocci)
Pubblicato il 17/05/2018