Introduzione di Giacomo Ventura
Giacomo Ventura
A margine di Letteratura e carcere. Esperienze a confronto
(Bologna, Dipartimento Ficlit, 22 ottobre 2024)
Quando, nel corso del 2024, come Circolo dei Lettori della Dozza abbiamo deciso di scrivere un libro per testimoniare la nostra storia (Il libro circondariale. Storie dal Circolo dei Lettori della Dozza, a cura di Simone Briano, Ilaria Burattini, Lucia Ruggieri, Ersilia Russo, Bologna, Persiani, 2025), non immaginavamo le difficoltà che avremmo incontrato nel trovare le giuste “risorse” per raccontare la nostra esperienza in carcere.
Fin dai primi tentativi di dare forma scritta al nostro vissuto, abbiamo capito che l’aiuto di cui avevamo bisogno poteva arrivare solo da chi aveva già affrontato il faticoso apprendistato necessario per “raccontare” il carcere, un luogo che, più di ogni altro, costituisce un mondo a sé, con le sue regole e un immaginario – se non una vera e propria “lingua” –, che necessitano di un percorso di comprensione e interpretazione tutt’altro che immediato.
Ancora una volta, è stata la lettura dei libri – ossia gli ingredienti fondamentali, o meglio i “reagenti”, del nostro Circolo – scritti da coloro che, prima di noi, avevano raccontato il mondo del carcere, a guidarci nel tentativo di dare voce alla nostra esperienza, cercando di restituire tanto la realtà, quanto l’umanità che abbiamo incontrato nei nostri incontri e che la “lettura circolare” ci ha rivelato.
Molti scrittori ci sono stati di aiuto, ma quattro di loro hanno fatto ancora di più, accettando il nostro invito a confrontarsi con noi il pomeriggio del 21 ottobre 2024, e sono: il regista, sceneggiatore e scrittore Aurelio Grimaldi, autore (tra le sue tante opere) di un classico della letteratura carceraria, Meri per sempre (La Luna, 1987), divenuto poi un film di culto (1989, con anche un sequel Ragazzi fuori, 1990) diretto da Marco Risi; l’artista Tommaso Spazzini Villa, ideatore del suggestivo progetto artistico ed editoriale Autoritratti (Quodlibet, 2024); la scrittrice e giornalista Serena Uccello, che insieme a Cosima Buccoliero ha scritto Senza sbarre. Storia di un carcere aperto (Einaudi, 2022), uno dei testi più utili per comprendere l’attuale realtà carceraria e in cui si descrive l’esperienza modello del carcere di Bollate; e infine la studiosa e insegnante di letteratura Sonia Trovato, che ha raccontato la sua esperienza di insegnamento in un carcere bresciano nel libro Come Pinocchio nella balena (Prospero, 2023).
Testimonianze, che troverete in queste pagine nella loro versione scritta, si sono rivelate per noi fondamentali per affrontare con maggiore consapevolezza almeno tre tra le molteplici difficoltà incontrate nella stesura del nostro libro.
La prima è stata senza dubbio quella di trovare le immagini giuste per descrivere “il carcere”, un luogo che, più di ogni altro, richiede il ricorso alla similitudine e alla metafora per poterne parlare. Come tutte le esperienze precluse ai più, anche quella del carcere richiede paragoni con altre realtà per essere compresa: è stato quindi prezioso attingere alle “risorse” descrittive offerte da scrittori e scrittrici che lo hanno variamente raccontato. In Ogni prigione è un’isola, ad esempio, Daria Bignardi paragona il carcere a diverse realtà “estreme”, capaci più di altre di rivelare la più profonda e autentica natura umana: «è come la giungla amazzonica, come un paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi […] un posto dove tutto è più chiaro». E ancora: «ogni carcere è un’isola, ogni isola è una prigione», perché «su una piccola isola, abbracciati al cielo e al mare, si è sempre impegnati a sopravvivere – alle mareggiate, al vento, all’isolamento quando i traghetti non arrivano – e a farsi bastare quel che c’è»[1]. Allo stesso modo, gli studenti-detenuti di Sonia Trovato hanno trovato nel Pinocchio di Collodi una potente metafora della loro condizione. Per loro, il carcere è la pancia della balena in cui si ritrovano Pinocchio e Geppetto alla fine del romanzo: un luogo di attesa e sospensione, dove il tempo sembra fermarsi, ma dove può anche maturare la possibilità di un cambiamento. La testimonianza di Sonia Trovato è stata particolarmente preziosa, non solo perché ha permesso di metterci in contatto con le pratiche educative e didattiche della scuola in carcere, ma anche perché ci ricorda con chiarezza lo straordinario potenziale didattico ed educativo della letteratura, che si realizza con maggiore evidenza proprio nei luoghi e nelle realtà marginali.
Un’altra difficoltà è stata quella di trovare le parole giuste per raccontare un mondo complesso, dotato di un suo lessico, ma anche di una sua grammatica e di sua una sintassi. È infatti esperienza comune a noi animatori del Circolo di lettura della Dozza che la nostra interazione con l’istituzione penitenziaria sia stata tutt’altro che semplice e che fosse necessario un lungo percorso di comprensione – non solo burocratico e organizzativo – simile a quello che si ritiene propedeutico per apprendere le materie più difficili. Se è vero che, come dice Cosima Buccoliero, il carcere risulta ai più un luogo incomprensibile e per certi aspetti indecifrabile, quando entriamo in relazione con esso, «ci troviamo nella condizione di dover comprendere una lingua di cui ignoriamo tutto, grammatica, sintassi, immaginario»[2]. Ciò comporta, come ci insegna Serena Uccello, che «chi non è mai entrato in carcere non può affermare di averne un'idea chiara. O meglio, può farlo, ma nel momento in cui sarà dentro si renderà conto di quanto questa idea sia imprecisa, di quante poche parole abbia a disposizione per definire ciò che osserva, di quanto la sua grammatica sia povera»[3]. Ciò è particolarmente importante, anche perché, in ragione di una straordinaria fortuna del “dispositivo carcere” nella letteratura e nel cinema, è frequente che il carcere venga rappresentato con connotati che sono, in larga misura, inverosimili, stereotipati e spesso molto lontani dalla realtà. Allo stesso tempo, però, è anche vero che chi, per varie ragioni, si trova o si è trovato a frequentare, a vario titolo, il carcere “reale” ha avuto la possibilità di costruirsi un vero e proprio vocabolario, al quale necessariamente si deve ricorrere per descriverlo, raccontarne, parlarne. In questo senso, Serena Uccello ha scelto di consegnarci una preziosa rassegna di libri, usciti recentemente, fondamentali per conoscere e comprendere il carcere “reale”. La rassegna è organizzata in due sezioni (“narrazioni del carcere” e “narrazioni sul carcere”) in cui troviamo sia libri di finzione in cui il carcere «è ambientazione, protagonista, motore delle storie» sia riflessioni che affrontano la realtà carceraria, e dunque, sostanzialmente, inchieste e saggi.
Infine, avvertivamo la necessità di restituire in qualche modo, attraverso la scrittura della nostra testimonianza, ciò che è emerso negli incontri del nostro Circolo, in cui ogni libro (qualsiasi esso sia) diventa sempre un facilitatore capace di fare emergere le storie delle persone e il loro vissuto. Abbiamo deciso dunque di creare, nel nostro libro, una sezione di “Letture”, in cui i partecipanti interni ed esterni del nostro circolo hanno composto una recensione-testimonianza frutto della loro personalissima lettura del libro e dell’esperienza collettiva della lettura. Un coro di voci, dunque, che vuole restituire al lettore il senso della condivisione del rapporto, unico e solitamente solitario, che si instaura tra lettore e libro. Le riflessioni su come raccontare le “voci” del carcere di Aurelio Grimaldi e di Tommaso Spazzini Villa ci hanno aiutato a riflettere su quale scelta compiere.
Ad esempio, Grimaldi, nel libro Meri per sempre, ha dovuto compiere una scelta narrativa precisa per dare voce ai suoi allievi. Inizialmente concepito come un resoconto autobiografico di anno scolastico, vissuto da un maestro nella scuola del carcere minorile Malaspina di Palermo, il libro si compone, in una prima parte, dei testi attribuiti agli alunni della sua classe: Grimaldi confessa che, per rendere credibile questa scelta narrativa, ha lavorato con grande attenzione al loro linguaggio, bilanciando la lingua “letteraria” da lui creata, con espressioni autentiche dei suoi studenti. Seguendo l’esempio di Verga, Grimaldi ha costruito una lingua ibrida tra italiano scritto e dialetto, creando così, non una semplice (e impossibile) trascrizione della realtà, ma un linguaggio letterario capace di restituire e trasmettere il vissuto dei suoi studenti.
Il suggestivo progetto Autoritratti di Spazzini Villa, che ha coinvolto complessivamente 361 detenuti italiani, si è poi rivelato, per certi aspetti, un corrispettivo di quello che, nel nostro piccolo, cerchiamo di fare come Circolo di lettura. Spazzini ha assegnato a ciascun detenuto che ha aderito al progetto una pagina dell’Odissea nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti e ha chiesto a ciascuno di sottolineare parole per comporre una frase di senso compiuto. Il testo omerico è così diventato un mezzo di espressione personale, rivelando il vissuto e, in alcuni casi, anche l’inconscio dei partecipanti. Spazzini Villa ha evitato un approccio per così dire “voyeuristico”, riservando agli autori delle pagine il totale anonimato, ha lasciato parlare solo le parole scelte dai detenuti, che hanno trasformato l’Odissea in una straordinaria opera collettiva: un coro di autentiche voci dal carcere che si esprimono riformulando le parole di un testo primigenio e fondativo per la cultura occidentale.
Le parole di questi quattro scrittori hanno ribadito come la letteratura, con le sue risorse interpretative e il suo potere espressivo, renda possibile un racconto del carcere che non si limiti alla semplice descrizione di una realtà immersa nelle sue criticità (si pensi, ad esempio, agli aggiornamenti settimanali – se non quotidiani – della stampa, spesso incentrati sulle emergenze: il sovraffollamento, il caldo soffocante nelle sezioni, il crescente numero di episodi di violenza e disordini): la letteratura, infatti, permette di far emergere, autenticamente, la straordinaria e spesso colpevolmente dimenticata umanità di chi vive e abita il carcere. Se è vero che la letteratura può costruire ponti tra vissuti ed esperienze individuali, allora ogni riga letta ha il potere di sospendere il tempo, di far riaffiorare dettagli dimenticati, di illuminare angoli nascosti dell’animo umano. E forse è proprio in questo incontro tra l’esperienza del carcere e la sua narrazione che risiede la vera forza della letteratura: non solo conoscere mondi e realtà lontani da noi, ma anche offrirci le parole per comprendere e raccontare ciò che siamo.
Aurelio Grimaldi
Meri per sempre – Letteratura o pedagogia?
Decine di volte mi è stato chiesto, da giornalisti ma anche studenti e studentesse, e chissà da quanti altri (amici e parenti ‘a tinchitè’), perché io, al primo anno di servizio di fresco vincitore di concorso scolastico, volessi a tutti i costi insegnare in una scuola carceraria; fino a riuscirci.
A quel tempo ero un giovinastro di qualche chilo più leggero e coi capelli, tanti ieri come per fortuna oggi, neri neri e non, come adesso, (per essere eufemistici) ‘argentati’.
Ma ancora oggi non ho la risposta pronta. Posso dire per certo che ero animato sin da ragazzotto da due ‘idee’ (chiamarle ‘ideali’, per quella giovane età, temo fosse troppo) adolescenzialmente potenti: libertà e giustizia sociale. La seconda era alimentata dalle mie precoci letture, quando si raccontava di bambini della mia età ingiustamente destinati a vita incresciosamente infelice (Oliver Twist, La capanna dello zio Tom, David Copperfield, Senza famiglia; e I ragazzi della via Pal? E Incompreso?): perché io vivevo in una famiglia tranquilla, in una casa con giardino coi miei amatissimi gatti, con tanti libri e Topolino, Corriere dei Piccoli e Monello puntuali ogni settimana al previsto giorno di uscita. E quei poveretti, con una vita di povertà, umiliazioni e violenze!
Ma il colpo decisivo fu quando, in 5° elementare, i miei genitori mi chiesero se mi faceva piacere andare tre settimane al mare a Riccione alla colonia dei Ferrovieri (professione di mio padre): io immaginai tanti altri bambini, mare e giochi tutto il giorno, e sventuratamente accettai.
In quella colonia non fui mai né maltrattato né umiliato, e si mangiava persino bene. La mattina, tazzona di latte con orzo e zucchero, e pane romagnolo squisito. Ancora oggi ne faccio uso (però con pane inevitabilmente non romagnolo). Ma: ci facevano indossare una divisa a righe da marinaretti (o da carcerati?) alquanto ridicola; la mattina il bagno a mare cominciava con un fischio perentorio e dopo 15 minuti dovevamo uscire con analogo fischio; dopo pranzo, riposo pomeridiano obbligatorio nel camerone con due file di una dozzina di letti ciascuna, quando io da piccolino avevo sempre avuto la mia cameretta riservata; nel tardo pomeriggio, passeggiata nel lungomare di Riccione, in triplice fila, con quelle divise a righine bianche e azzurre, e coi riccionesi (chissà se si chiamano così) che ci osservavano, soprattutto gli altri bambini liberi e in borghese, con occhio stupito e un poco impietosito.
Ma il pensiero più rattristante era che al di fuori del mese di agosto, quella colonia e quei cameroni ospitavano nei restanti undici mesi gli ‘orfani di ferrovieri’: che passavano la loro infanzia là dentro ma ad agosto, per compatibile pietà, venivano mandati a fare le loro ferie in un’altra colonia… Provavo una pietà infinita per quei bambini che nemmeno conoscevo.
Credo che la mia aspirazione alla libertà anche infantile, già comprovata prima di quella esperienza, spiccò in quel mese di agosto un volo assai cospicuo. Da allora, collegi, caserme, seminari, carceri!: lista nera, nerissima. ‘Mi batterò contro simili ingiustizie’.
Con queste, e troppe altre, armature puerili e poi adolescenziali, misi piede al carcere minorile della città della Mafia e dei 280 omicidi all’anno (compresi presidenti, magistrati, giornalisti, poliziotti e carabinieri), come chi ha raggiunto il sogno di una vita. Ero ferratissimo in pedagogia della devianza; avevo letto solo da pochissimo don Milani ma anche se non l’avessi letto, la pensavo come lui e i suoi ragazzi da chissà quanto. E avevo letto e studiato tante altre cose. Studiare, per me, non era mai un’incombenza ma un insostituibile piacere.
Dentro Malaspina, però, non c’erano persone/operatori che avevano letto e studiato quei miei libri, né altri consimili. La cosa che più mi colpì era che persino il famigerato ‘regolamento carcerario’, che mi fu annunciato dal direttore del carcere nel nostro primo surreale colloquio, e del quale chiesi subito una copia stupendolo moltissimo, era sconosciuto o ignorato dagli stessi operatori. A me, insegnante e quindi ospite di una struttura dipendente dal ministero della Giustizia, era stato oscuramente nominato come qualcosa che mi doveva frenare e intimidire, mentre si trattava di un regolamento ragionevole, comprensibile, rispettabile ma tutt’altro che rispettato - incredibile ma vero! - da quegli stessi operatori.
Il tema fu subito quello della violenza: del passato e del presente dei miei alunni. Violenze subite e poi sistematicamente praticate in quanto vittime e carnefici, da loro stessi. Ne ero perfettamente al corrente. Non avrei mai immaginato però che anche gli operatori potessero esercitare violenze su quei miei stessi alunni; né che i giovanissimi detenuti fossero abbandonati a loro stessi a gestire anche tra loro la piramide violenta e sadica del potere carcerario interno.
Seguì, infatti, un anno scolastico di eterni contrasti con quegli operatori, e di adeguati e previsti scontri psico-pedagogici coi miei alunni: che prevedevano loro minacce, parolacce, ingiurie nei miei confronti, e persino, in un caso (Natale che mi impiastricciò faccia e braccia con pennarelli), di violenza fisica, da me o incoraggiata o, a seconda delle interpretazioni, bene accolta. (I miei alunni, per la mia giovanissima età, per il mio abbigliamento, per altre cose, avevano deciso di darmi del tu dal primo momento che mi videro).
Dopo quell’anno scolastico che definire ‘tosto’ sarebbe sostanzialmente ipocrita, l’anno dopo, quando mi ripresentai davanti al direttore con la nomina per il nuovo anno scolastico, quello, pur di impedirmi l’ingresso e allontanarmi dai suoi occhi e dalla loro struttura ben serrata, soppresse una classe scolastica quel giorno stesso e io, il più giovane in servizio, fui traslocato. E andai a finire, ovviamente per mia scelta, alla Rieducazione Femminile gestita dalle suore del Buon Pastore: che appena mi videro entrare oltre i loro cancelli, così giovane e con Vespone e jeans, mi scambiarono per un diavolo. E invece… Tutt’altra gente e tutt’altro mondo. Anno scolastico cominciato malino e finito in gloria.
In quei mesi al Buon Pastore ricevetti la proposta della piccola e giovanissima casa editrice La Luna (fondata tra le altre da Letizia Battaglia e Giuliana Saladino) di scrivere quello che sarà Meri per sempre. Ed eccoci qua.
1. Letteratura?
Mentre ero al liceo sognavo di diventare scrittore e magari regista di cinema. Ero certo che non ci sarei riuscito ma nel frattempo leggevo tutti i libri che potevo, vedevo tutti i film che arrivavano nella mia piccola cittadina al confine con la Svizzera dove mi avevano posto a vivere i miei genitori quando non avevo ancora due anni, e intanto scrivevo di nascosto il mio primo romanzo (che mai ho più osato rileggere; per carità). Insomma, quella proposta di scrivere un libro era un altro sogno che si realizzava. E mi misi a scrivere.
Ero e resto laureato in Analisi Stilistica all’istituto di Letteratura Contemporanea della facoltà di Lettere. Le mie giornate sono ancora segnate dallo sforzo indefesso di trovare più tempo possibile per leggere in santa pace, sdraiato sul letto e con telefoni e cellulari spentissimi; e se qualcuno citofona o bussa, nessuna risposta. Risultato: qualunque cosa mi tocchi tra le mani scritto da qualcuno, fosse anche una lista della spesa, osservo subito se usa i miei amatissimi punti e virgola, quali e quanti aggettivi; quando va a capo; se usa più coordinate o subordinate; se esagera con gli avverbi; e che rapporto appare tra imperfetto e passato remoto; e per favore, non usate il condizionale!
Il mio libro Meri per sempre doveva essere, conclusero autore ed editore, il resoconto autobiografico di quell’anno scolastico; ma nella prima parte l’avevo concepito come scritti dei miei alunni: temi e/o confessioni. Sulla prima parte occorreva lavorare sodo con una prima persona di buona cultura e solide letture; la seconda, significava inventarsi un nuovo linguaggio. Già allora avevo contestato (nei miei schemi concettuali privati) romanzi come La romana di Moravia o Il prete bello di Parise, allora molto in voga, dove le prime persone erano imperdonabilmente ‘letterarie’ nonostante i narratori in prima persona erano dichiarati popolani.
Ma nessun problema: oltre all’esempio ‘negativo’ di Moravia e Parise, avevo sotto mano il modello già pronto e da tempo studiato e adorato: Giovanni Verga! Che non scriveva certo storie in prima persona; ma che raccontava di pescatori, contadini e persino un muratore diventano Mastro-Don mantenendo calli, mentalità, difetti e ‘valori’ (?) del ‘proletario’ (a quei tempi era di moda anche questo epiteto), con un linguaggio che era miscuglio geniale di sicil-italiano popolare, in un frasario molto siculo, ma con ritmi e sintassi spezzata da restare a bocca aperta per una densità di verità e poesia senza precedenti.
Insomma, mi inventai un linguaggio e una sintassi, per le prime persone narranti dei miei alunni, con modello (irraggiungibile) del grande Verga, ma illudendomi che ricreavo creativamente quel linguaggio. Infilandoci anche certe espressioni palermitane al punto che le signore della casa editrice La Luna decisero di aggiungere un glossario a beneficio dei lettori non siciliani.
Il libro fu notato e recensito da Goffredo Fofi, Vincenzo Consolo e Grazia Cherchi, tra loro amici, che ringrazio ancora oggi; e basta. Per miracolo giunse nelle mani di Michele Placido, che subito decise di volerlo interpretare in un film. Divenne film di successo, e io ebbi la possibilità di diventare scrittore e regista: controverso, ma ci mancherebbe altro! Questo ieri.
Ma ancora oggi una produzione prestigiosa sta tentando di farne una serie tv. Sarebbe tanto bello! Ma ancora oggi, però, c’è gente, secondo me a corto di analisi stilistica, che credeva e crede che i primi racconti del libro siano ‘veri temi o confessioni’ dei miei ragazzi di 4° elementare, uno dei quali, tanto per fare un esempio di livello culturale, l’indimenticabile Alfonso M. morto con mio irrecuperabile dolore tre anni dopo, non ci fu verso di convincerlo che il suo nome e la sua firma doveva essere scritta con AlfonSo e non AlfonZo. (Ho sempre conservato e sempre religiosamente conserverò una mia cartelletta bella rossa che lui, per sfogo più che per narcisismo, aveva proditoriamente riempito di sue firme: con la Z, ovvio).
Insomma: il mio Meri per sempre voleva essere, e spero ancora sia, orgogliosamente ‘letteratura’. É linguaggio, riuscito o no, rappresentativo e giammai letterale! I miei alunni non potevano né parlare né scrivere in quel modo. Se li avessi riportati letteralmente, quei loro racconti sarebbero stati illeggibili. Lo scrittore Grimalduncolo ancora oggi si illude e pretende di credere che il linguaggio da lui ricostruito, fosse fedele ai loro pensieri e soprattutto alle loro storie e i loro sentimenti. Ma nessuno può dimostrare questo, né il contrario: anche questo è sintomo, o almeno ispirazione, di Letteratura pura…
2. Pedagogia?
Eccolo, l’ambiziosetto maestrino di allora continua a coltivare e dichiarare il suo sogno di scrittura ma anche di Pedagogia con la P maiuscola. Giuro che quando avevo messo piede a Malaspina avevo in mente un solo progetto: ‘I miei alunni, dopo la mia ‘cura’ pedagogica, devono uscire di galera il più presto possibile e non rimetterci mai più piede’. Proposito ardito e illusorio, se si ricorda che la recidiva al minorile era oltre il 70%.
Ma io ero entrato al Malaspina, orgoglioso e volitivo, pensando solo a loro e a me al cospetto solo dei miei alunni; la nostra aula il nostro fortino. Non avevo messo in conto il peso di una struttura medievale, un’organizzazione mafiosetta o mafiosona, agenti di custodia violenti coi deboli e deboli/rispettosi coi ragazzi di rispetto, educatori pochi e mal preparati, direttore disinteressato, altri insegnanti spaventati o svagati, con le fette di salame volutamente incollate da loro stessi sui propri occhi.
Non mi era manco passato di testa, entrando lì dentro, che dovessi fare l’eroe, lancia in resta contro le ingiustizie, le inefficienze, le malevolenze. No: io credevo e credo nello stato di diritto. La parola magica che i miei poveri alunni, e non solo loro, ritrovarono pesante e irreversibile sul loro groppone era democrazia/democratico. All’opposto, consapevole di semplificare anche un po’ troppo, ci avevo posto mafia/mafioso: due parole che prima di allora nessuno aveva mai pronunciato là dentro.
Il semplificante maestrino impose ai suoi apparentemente forti e minacciosi nonché (qui senza alcun ‘apparentemente’) violenti, questa opposizione irriducibile: o mafia o democrazia. O siete e volete continuare ad essere mafiosi-dunque-luridamente-e-schifosamente violenti, o diventare ‘democratici’: individui che discutono anche accesamente ma provando schifo per ogni prepotenza o violenza, ‘sennò vuol dire che siete mafiosi’. Era tanto l’ardore che mettevo in questa opposizione semplificata ma crudamente potente, che tra i miei alunni ormai dire loro: ‘Ti stai comportando da mafioso! Che schifo! Qui c’è posto solo per i democratici!’ era l’equivalente di dirgli: ‘Tua madre è buttana, tuo padre frocio, e tu un pezzo di merda’.
Se ben ricordo, nel film Io e Annie, Woody Allen irrompe nell’aula scolastica di un amico che deve incontrare a tutti i costi. E che gli chiede: ‘Ma come hai fatto a superare lo sbarramento dei bidelli?’ ‘Semplice, dal punto di vista intellettuale.’
Io facevo lo stesso. Al Malaspina, i ragazzi non potevano adoperare la loro specialità: il linguaggio violento, prepotente, del più forte e più cattivo che così prevale in ogni contrasto di alcun tipo. Ero pur sempre un maestro, che quando non li ossessionava sulla violenza e la pigrizia scolastica (non davo loro tregua nemmeno in questo) era pure un maestro incredibilmente (per la loro esperienza) giovane, anche allegro e a modo suo simpatico, col quale si poteva parlare anche di sesso, di fìmmine, di buttane e di ficcate, di amore, di amicizia, nonché di battersi contro le ingiustizie che anche loro avevano subito eccome! L’avevano capito subito che io ero dalla loro parte: che tenevo alla loro futura libertà più di ogni altra cosa al mondo. Fui il primo maestro (e credo per sempre l’unico) che il sabato, niente lezione perché giorno di colloqui, e gli altri insegnanti che firmavano la presenza e se ne tornavano a casa, chiedeva di salutare i loro genitori e fratellini e sorelline in sala colloqui, e portava caramelle e cioccolatini al caffè (vietato in quel carcere, salvo come Pocket Coffee, considerato insuperabile delizia!), e diceva ai genitori: ‘Salvatore deve impegnarsi di più a scuola! Lo so che qui dentro si diventa anche tristi e svogliati, ma diteglielo anche voi: la scuola è importantissima!’.
I miei alunni diventavano rossi; i loro genitori prendevano energicamente la mia parte e loro, i loro figli, muti a testa bassa a prendersi il cazziatone anche da un padre che aveva la 3° elementare e ora diceva che se il figlio non si comportava bene a scuola erano cazzi. Perché anche i miei ragazzi, poi, erano tutti orgogliosi che i loro genitori gli dicevano: ‘Lo vedi che bravo questo maestro giovane giovane come ci tiene a te? Se non studi e non ti comporti bene, guai a te! Magari ce l’avressi avuto io un maistru accussì!’ E loro, poverini, ci provavano. Ma era così dura! Io ero inclemente: il nostro turno era 14,30-18,30. La mattina avevano già fatto 4 ore di corsi professionali. Dopo pranzo, e senza caffè, erano stanchi o rattristati, e di solito tutt’e due. Era quella, «l’ora che volge il disìo»! Ed ecco l’implacabile maestro a dire: ‘No! Forza! Scriviamo, studiamo, ragioniamo, parliamo! Dai, ragazzi! É importante! Svegliatevi!’. Ma che rompeva i coglioni in maniera spietata e insopportabile se scappava anche un misero ‘Non mi scassare la minchia’ a un compagno-paria, o se usavano gli imperativi o non chiedevano le cose o con un interrogativo o con un ‘per favore’: che per loro era linguaggio solo da femmine o froci. E se scappava uno spintone, una parolaccia, un soprannome (tutti spregiativi, e pertanto vietati nella nostra classe), o una sputazzata, Aurelio che cominciava a rompere le palle senza pietà, con gli occhi sdegnati e furenti, accusando di essere mafiosi anche se uno diceva al compagno: ‘Pigliami il libro dall’armadio, granch’i’mmerda!’, e Aurelio non la finiva più, e se non eravamo in carcere mi avrebbero giustamente preso e schiacciato come il grillo parlante di Pinocchio pur di non ascoltare le mie catilinarie.
Questo il metodo. Rigoroso, implacabile, pieno di contrasti e ribellioni, ma poi, ohibò, vincente: ‘sul piano intellettuale’. Quei poverini non avevano scampo, a fronte di ‘stu maistru che ha studiato tanto, che legge sempre (quando i primi alunni, una volta liberati, venivano a trovarmi nella mia casetta alla Vuccirìa - e anche questa mia residenza ai loro occhi era una bella medaglia - contemplavano sconvolti la mia cospicua libreria nonché tutti gli altri libri sparsi nella casa in tutte le stanze bagno escluso, e dicevano: ‘Ma i liggisti tutti? E non ti sfasò ‘a tiesta?’)
Insomma, il maestrino voleva essere considerato, scrivendo quel suo primo libro, sia scrittore vero che pedagogista coi fiocchi. Santa e patetica gioventù!
Ora che ho i capelli argentati, non ho purtroppo perso il vizio. Elenco dimostrativo numerato:
1) Mi occuperò, per quanto possibile, di carcere e diritti finché avrò vita e possibilità. ‘Aurelio per sempre’.
2) In questo 2025 dovrebbero uscire, ovviamente con distribuzione indipendente, il mio film ‘La Rieducazione’: che racconta (un mio sogno che si realizza) di uno psicologo che vince il concorso di consulente carcerario e sceglie come sede il 41bis dove è ospitato il capo dei capi (interpretato da un miracoloso Tony Sperandeo), chiedendo e di fatto pretendendo l’applicazione del piano di ‘rieducazione’ del boss come da art. 27 della Costituzione.
3) E organizzeremo, sempre in questo 2025, delle proiezioni del documentario ‘Totò che visse tre volte’, sull’esperienza carceraria del famigerato Totò Cuffaro, già potentissimo bi-presidente di regione Sicilia, che ha scontato 4 anni e 11 mesi di detenzione in cella multipla di Rebibbia, e durante i quali il giudice si sorveglianza gli negò sia il permesso per recarsi al funerale del padre che il permesso per andare a trovare la madre ultranovantenne.
Se l’Università di Bologna è ben disposta a una proiezione di questi due miei lavori, io corro ed accorro!
4) In questi giorni, oltre che dietro a finire di montare il mio ‘Depistaggio Borsellino’ (dove sono documentatamente inserite botte e torture in carcere), sto concludendo la sceneggiatura di ‘Alfonso e Sofia’ che racconta la strana storia d’amore tra un 19enne del Cep due volte al Malaspina, e una diciottenne con tutti 8 e 9 al liceo classico privato Gonzaga di Palermo. Ma, attenzione, a dichiararsi e a dominare la strana coppia è la ragazza di via Notarbartolo! Presenteremo il progetto al bando Sicilia, e speriamo bene! (il mio protagonista si chiama Alfonso Maranzano, come quello della firma con la Z, nonché quello della mia cartelletta rossa rossa piena delle sue firme, nonché quello morto perché...)
Sì, sto vivendo una strana vecchiaia. Prima di lasciare questo mondo, su questo argomento, ho altre storie che devo raccontare, se ci riesco.
Ma per favore ricordatevi, o almeno fate finta di condividere, che ‘Meri per sempre’ è sia letteratura che pedagogia! Mi raccomando a voi!
20 gennaio 2025
Tommaso Spazzini Villa
Autoritratti
I
Nel 2018 ho coinvolto 361 detenuti di diverse carceri italiane, affidando ad ognuno di loro una pagina diversa dell'Odissea. Ai partecipanti ho chiesto di intervenire sottolineando parole del testo così da comporre frasi di senso compiuto. Il testo omerico si trasforma in una sorta di fondale di scena, dove i partecipanti agiscono sulla pagina omerica - vero e proprio spazio di espressione - per tracciare il proprio “autoritratto”.
Alla fine del progetto tutte le pagine sottolineate sono state raccolte per ricomporre il testo nella sua interezza. Ne emerge una sorta di meta-testo collettivo, che dà voce all’inconscio e al vissuto dei partecipanti.
L’Odissea nasce all’interno di una tradizione orale in cui aedi e rapsodi cantavano al popolo le gesta di eroi e di dei. Gli astanti ritrovavano nell’ascolto gli archetipi dei propri moti d’animo - nostalgia, paura, ira, amore - e qualcosa andava sciogliendosi nella comprensione di non essere l’unico e il primo a vivere quei tormenti. Penso all’Odissea come un testo collettivo in cui milioni di uomini, in migliaia di anni, hanno trovato e riconosciuto quel materiale altrimenti denso e informe che sono i moti del nostro animo, emozioni che con l’ascolto reiterato e ripetuto trova luogo e pace, sollievo e comprensione. Autoritratti è l’unità minima di questo movimento perché restringe ad una sola pagina l’incontro con il testo. L’Odissea non è presa in considerazione per la sua struttura narrativa ma come insieme di immagini, segni, emozioni contenuti all’interno di una singola pagina.
Non c’è nulla di automatico ed inconscio - è un lavoro lontano dall’approccio al testo dadaista. Quello di sottolineare è un gesto lento in cui chi legge si rispecchia nelle parole del testo, le cerchia, le sottolinea, le cancella, le ritrova andando lentamente a comporre un ritratto di sé, di ciò che quella pagina riflette e rispecchia di sé.
C’è un brano di Borges che mi risuona molto e che ha probabilmente guidato questo progetto: ‘Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto’ (J. L. Borges, L’Artefice).
Per me l’Odissea è uno specchio prismatico che si rifrange in tante odissee minori, in altrettanti ritorni: Nestore, Menelao, Eumeo; e in senso più lato penso ci siano tante “Odissee” quanti sono i lettori che proiettano, leggono e sono letti dal testo e dai suoi personaggi.
Penso all’Odissea come poema della conoscenza conseguita attraverso il superamento degli ostacoli. È una condizione che viene imposta ad Odisseo, lui la soffre, deve costruire la sua pace, deve costruirsi la via del ritorno, impiega dieci anni per percorrere questa strada. È il libro del mare, l’archetipo di ogni futuro romanzo di avventura. Ed è anche il poema degli umili: il leale porcaro Eumeo, la fedele nutrice Euriplea, il bovaro Filezio.
Mi sono chiesto come sia visto Odisseo da un lettore moderno. Al contrario di Achille, che è un personaggio unitario, di marmo e di luce, Odisseo è tanti, è eroe, mendicante, viaggiatore, marito, condottiero, padre, amante. È una mente variopinta, sinuosa, che ben si adatta alla caduta delle strutture sociali di oggi.
È il poema degli archetipi, il testo che contiene i moti del nostro animo, quelli che pensiamo di essere gli unici a vivere. È come se qualcosa dentro di me si sciogliesse quando leggo di un eroe che li affronta con coraggio e pazienza.
Durante un incontro al Carcere di Bollate una detenuta si è improvvisamente alzata e ha detto davanti a tutti “Questa pagina mi ha spiegato la vita, cioè la mia vita”. Io non ho fatto in tempo a chiedere cosa intendesse che lei ha continuato “Alla fine quando nasci è come quando sei all’inizio della pagina, hai ancora tutto davanti. Poi cominci a fare delle scelte, che ne implicano altre e altre ancora. E alla fine se hai fatto delle scelte sbagliate finisce che ti blocchi, come sono bloccata io qui dentro.”
Accettare la metafora - una pagina di un libro è come la vita - vorrebbe dire riconoscere due cose: abbiamo a disposizione un numero finito di elementi (le parole) da cui scegliere e da questi possiamo ricavare un numero infinito di combinazioni, creare un numero immenso di significati. Mi piace pensare alla vita come a un campo limitato di elementi, unico per ognuno di noi - a nessuno è dato vivere la stessa realtà (come a nessuno è capitata la stessa pagina) - e su ognuna però interveniamo con la nostra singolarità, generando i più imprevedibili, eccezionali e irripetibili risultati.
Hanno stimato che 117 miliardi di uomini abbiano vissuto sulla terra. Mi piace credere che siano esistiti 117 miliardi di mondi diversi, 117 miliardi di realtà irripetibili. Nel 2017 ho fatto un esperimento all’interno di una scuola secondaria a Gubbio: distribuendo la stessa pagina di un’Odissea a 120 studenti diversi ho chiesto a ognuno di loro di sottolineare alcune parole all’interno del testo per formare una frase di senso compiuto. Un’unica richiesta: la frase doveva parlare di se stessi. Non quindi una frase bella, colta, intelligente - fatta per compiacere - ma una frase vera, sincera, intima. Ognuno di loro ha preso la pagina, la stessa per tutti, e ha cominciato a sottolineare e ne sono uscite 120 frasi diverse, commoventi, autentiche, ironiche, vere.
Voglio pensare al mondo come a un’unica e irripetibile proiezione di ognuno di noi.
II
Di questo progetto mi restano due cose: che la prigione è un posto che riguarda tutti noi, da cui nessuno può sentirsi in salvo. Ho incontrato persone che scontano anni di carcere per aver commesso errori banali, per essersi trovate in situazioni complesse e aver fatto scelte sbagliate, per non aver saputo dire di no, per aver agito d’impulso. E poi che la pena non riabilitativa è una perversione disumana e insensata, come lo sono state la schiavitù e i manicomi. Mi auguro che arriverà il giorno in cui l’avremo sorpassata e guardandoci indietro non andremo fieri di aver fatto soffrire inutilmente altri esseri umani.
È stato un lavoro molto lungo con diversi momenti molto significativi: quello più doloroso è stato uscire dalla porta principale, riprendere il telefonino e gli effetti personali dalla cassetta di sicurezza e tornare libero. Rendermi conto del valore della libertà, di cosa voglia dire essere privati di tutto, della violenza latente all’interno di quelle mura, della tensione costante che logora e annienta, e aver visto negli occhi troppi sguardi spenti.
Mentre il momento di maggior felicità è stato leggere le prime frasi sottolineate e commentarle con i partecipanti. Ascoltare le loro storie e vedere come la pagina avesse letto dentro di loro, in uno scambio di sguardi incrociati tra il testo e il lettore.
Il progetto è nato in maniera molto casuale. Nel 2017 ho partecipato a un TedX, e nella stessa sessione parlava anche Cosima Buccoliero, che al tempo era vice-direttrice del carcere di Bollate. Il suo talk verteva sul modello Bollate e più in generale sull’esperienza del penitenziario milanese. Io avevo iniziato a fare questo lavoro di sottolineare all’interno di testi e far emergere delle frasi in autonomia, solo io. Durante il TEDX avevo distribuito alle 1500 persone del pubblico una pagina a testa, facendoli partecipare. Quando poi Buccoliero ha parlato del modello Bollate e dei laboratori con i detenuti, e di quanto queste attività avessero un valore positivo sulla recidiva, al termine dell’evento le ho chiesto se potevo proporre all’istituzione di prendere un libro - l’Odissea - e fare questo stesso lavoro all’interno di un carcere. Lei è stata molto gentile e disponibile, e il laboratorio si è fatto. Parallelamente, un’altra edizione dell’Odissea che però non è ancora stata pubblicata è stata sottolineata da ragazzi di licei e scuole secondarie. Si tratta dello stesso testo, con la stessa traduzione, la stessa edizione, eppure diversissimo: vedere nella stessa pagina cosa ha sottolineato una persona reclusa e un ragazzo libero - che ha evidentemente una prospettiva sulla vita molto diversa - ha fatto emergere un meta-testo archetipico, poiché contiene così tanti moti del nostro del nostro animo. Il progetto è diventato poi una mostra a Roma, Albinati mi ha messo in contatto con Matteo Nucci e ci è venuta l’idea di pubblicare il volume. Così è nato Autoritratti.
Con la lettura comparata delle due “Odissee” emerge la specificità dello sguardo del penitenziario. Nelle parole scelte dal carcere emerge il dolore. Si tratta spesso di un dolore taciuto. Affiorano il nostos, la lontananza da casa, il dolore e in questi sentimenti il rispecchiamento dei detenuti con Odisseo è fortissimo. Ci sono diverse frasi in cui i sottolineatori parlano alle mogli, alle compagne, ai compagni a casa e parlano della loro distanza. Ce n’è una che dice: “Mi hai donato figli bellissimi e io così misero”. Forse sono questi aspetti che colpiscono.
Una persona esterna al mondo del carcere di solito non pensa ai detenuti come un insieme di uomini e donne, ma tende a immaginare generici delinquenti. Così facendo, di fatto li disumanizza. Ragionando così, non mi interessa niente di chi siano. Cosa fanno? Soffrono? Non soffrono? Nel pensiero comune sono solo persone da tenere chiuse. Ecco, questo lavoro inequivocabilmente restituisce quella dimensione vitale poiché dona loro uno spazio di parola diretto. Non lo puoi leggere senza cambiare idea. Nella trama delle sottolineature è evidente che sono persone, sono vite, e so benissimo che è orrendo anche solo verbalizzare questo ragionamento. Però, parlando frequentemente di carcere, sento forte quello scarto che le persone vogliono fare, il loro desiderio di dire «io non ho voglia di umanizzare quella gente, mi sta bene che siano dei capri espiatori e che stiano chiusi lì dentro». Ecco, creare questo contrasto mi interessa molto.
Un giorno mi hanno chiesto se credessi che la letteratura sia salvifica. È una domanda a cui non so rispondere. Ho vissuto troppo poco - e letto ancora meno - per poter anche solo ipotizzare una risposta. So che se non esistesse la letteratura sarei sicuramente una persona più povera, con uno sguardo più spoglio e banale sul mondo e sulle cose degli uomini.
III
Nel libro sono presenti alcune pagine arricchite da annotazioni scritte a mano. In origine, l’aggiunta di testo non era prevista, poiché il lavoro si basava esclusivamente sulle parole già contenute nella pagina. L’intento era riflettere su un frammento di testo specifico, con un numero di parole dato, senza introdurre elementi esterni.
Ciò che mi interessava era esercitare il pensiero su ciò che esisteva, anziché soffermarsi sull’assenza di ciò che si sarebbe voluto trovare. Dire «Avrei preferito che ci fosse amore, ma non c’è» significa restare bloccati in ciò che manca, senza riuscire a vedere altro. Al contrario, accettando e lavorando con le parole a disposizione, è possibile scoprire significati inattesi e rivelatori.
Tuttavia, quando mi sono imbattuto in queste annotazioni, nonostante fossero contrarie alle indicazioni iniziali, ho deciso di conservarle. Quei segni aggiunti sulla pagina erano così spontanei e autentici da possedere una loro forza espressiva. Erano gesti sinceri, ed è proprio questa loro sincerità a renderli preziosi.
Scorrendo le pagine, emergono tre ambiti semantici ricorrenti nelle sottolineature. Il primo riguarda il tempo passato, ciò che c’era prima del carcere. In queste pagine vengono evidenziate parole che evocano il mare, la natura, elementi che rappresentano assenze e nostalgie, affiorando spontaneamente nelle scelte dei lettori detenuti.
Un secondo gruppo di sottolineature si concentra sul tempo presente, sulla vita detentiva. Un esempio significativo è una pagina in cui compaiono le parole «lacrime, lacrime e lacrime», non solo sottolineate, ma accompagnate da un commento scritto dal lettore, a rafforzare il peso emotivo dell'esperienza.
Infine, vi è un terzo blocco, legato alla profonda incertezza del futuro, alla difficoltà di immaginare un domani diverso e alla precarietà dell'attesa.
Il mare emerge come un topos straordinariamente potente. Esso, insieme alla natura, alla luce e alle stelle, offre un orizzonte vasto in cui proiettare il proprio smarrimento. Nella sofferenza, tendiamo a percepire il nostro dolore come unico e irripetibile, ma la vastità della Natura e dell’Epica fornisce un rifugio e una prospettiva più ampia. Credo che uno dei tratti più essenziali della letteratura, radicato nella sua tradizione millenaria, sia proprio la capacità di accompagnare il lettore e suggerirgli: ‘Anche un eroe ha vissuto ciò che tu stai vivendo. Milioni di persone hanno attraversato i tuoi stessi patimenti. Questa è la strada per tornare a casa. Questo è ciò che lui ha affrontato. E anche tu puoi farlo’.
Il passaggio che amo di più del testo omerico è nel XIX libro, in cui è descritta l’incertezza del colloquio tra Penelope e Odisseo. Lui si presenta sotto le spoglie di un vecchio mendicante, che l'ancella non riesce a trattenersi dall'offendere e minacciare. Penelope invece vuole che sia fatto sedere su un comodo seggio per interrogarlo; e inizia così il lungo dialogo tra i due sconosciuti, così diversi per posizione sociale, origini e storia. Tutto il colloquio è un continuo oscillare tra la certezza di un imminente riconoscimento e il rinvio di questo momento; il lettore è consapevole della vera identità, Penelope invece no, ma forse lo ha riconosciuto nel suo inconscio, nel cuore.
L'episodio termina con un altro rinvio: nel momento in cui l'attesa per uno scioglimento della tensione è al culmine, Penelope risale nel suo appartamento, sciogliendosi in un pianto catartico. A Odisseo non resta che passare la notte in un giaciglio di fortuna. Eppure, nonostante la sospensione, si ha l'impressione che il riconoscimento sia già avvenuto, senza essere espresso, solo rimandato, ma ormai compiuto nel profondo del cuore di entrambi.
IV
La pagina sulla sinistra, con il testo sottolineato in nero, appartiene a un detenuto: “Mi hai donato figli bellissimi e io così misero”. Quella sulla destra, evidenziata in arancione, è stata realizzata da uno studente: “Scusa madre per ogni giorno”.
Il confronto tra queste due scelte mette in evidenza come la stessa pagina possa racchiudere emozioni profondamente divergenti: da un lato, la voce di un genitore che si rivolge all’altro parlando dei propri figli; dall’altro, un giovane, Telemaco, che si rivolge a sua madre. Due sentimenti opposti, entrambi racchiusi nelle stesse parole.
L’Odissea mi appare come un immenso bacino di significati, in cui ciascuno può rispecchiarsi e riconoscere frammenti della propria esperienza. Questo stesso principio si estende a un livello meta-testuale: non solo il testo dell’Odissea offre molteplici possibilità di lettura, ma anche gli autoritratti generati dal progetto assumono sfumature differenti a seconda della sensibilità di chi li legge.
Ogni volta che parlo con i lettori di Autoritratti, resto colpito dal fatto che ognuno si soffermi su una frase sottolineata diversa. Esiste un’espressione, talvolta considerata retorica, che afferma: ‘Non siamo noi a leggere i libri, ma sono i libri a leggere noi”’. Eppure, questa riflessione contiene una profonda verità. In un certo senso, il progetto stesso ne è una dimostrazione, anche se molte di queste considerazioni sono maturate solo in un secondo momento. Non ho concepito questo lavoro con l’intento di verificare delle ipotesi predefinite, ma attraverso il confronto e l’analisi sono emersi diversi livelli di lettura e interpretazione.
V
La mia presenza in questo lavoro è stata spesso descritta come una presenza per sottrazione. Non vi sono interventi diretti da parte mia, poiché il mio ruolo si è limitato a un'attività di coordinamento.
Questa assenza operativa ha generato numerose riflessioni. Ho realizzato lo stesso progetto su sei volumi differenti, coinvolgendo gruppi di persone eterogenei: da sconosciuti incontrati sui mezzi pubblici a membri di gruppi di lettura, da utenti casuali su Instagram, blog e altre piattaforme online fino a passanti, studenti e detenuti. Al termine di questo percorso, mi sono posto una domanda: ‘E io?’.
Per rispondere, ho intrapreso un'operazione personale e sistematica: servendomi di una Olivetti Lettera 22, ho trascritto a macchina, ogni giorno per un anno e mezzo, una pagina della Divina Commedia. Ho seguito un ritmo costante: undici terzine per pagina, 33 versi al giorno. In questo modo, ho realizzato una copia integrale dell'opera, sottolineando quotidianamente un passaggio significativo sulla pagina appena trascritta. Ho portato avanti questa pratica per 580 giorni, fino a completare Inferno, Purgatorio e Paradiso. Il risultato è un autoritratto dilatato nel tempo, costruito attraverso le parole di Dante e il suo viaggio.
Questa logica di sottrazione si è estesa a un altro aspetto del progetto: non aver descritto e dato dettagli sulle giornate trascorse all'interno delle carceri, dei momenti di incontro con i detenuti. Si tratta di una scelta consapevole, per lasciare spazio esclusivamente alle loro voci, evitando un atteggiamento voyeuristico di chi osserva il carcere dall’esterno.
Per questa ragione, ho richiesto l’anonimato per tutti i partecipanti e ho ridotto il progetto alla sua essenza. Chiunque voglia approfondire la realtà carceraria ha a disposizione studi e strumenti adeguati. Il mio intento non era condurre un’indagine di natura socio-antropologica, ma mettere in luce la potenza della parola attraverso le parole di Omero. Non ho indicato quali istituti penitenziari abbiano ospitato l’iniziativa né le pene a cui sono sottoposti gli autori dei testi. È sufficiente sapere che le parole selezionate provengono da persone in condizione di restrizione della libertà.
VI
Un elemento emerso durante i laboratori è stato ben descritto da un detenuto quando si è alzato e ha detto: ‘se mi avessi dato una pagina bianca non avrei mai scritto questa frase’. È un punto focale del progetto: il cuore del lavoro è l’incontro con il testo, con ciò che il testo mette in luce di noi. È l’incontro con le parole di Omero ad accendere una luce su parti di noi che viviamo ma che non riconosciamo, dolori taciuti, felicità dimenticate, piccoli ricordi svaniti. Ciò che è contenuto nella pagina è solo un’opportunità di leggere dentro di noi.
Le pagine sono state distribuite a caso, senza che i partecipanti dovessero conoscere la storia: prendendo ad esempio l’incontro con i Lestregoni, non è necessario sapere chi siano o cosa facciano ma cosa quel testo colpisca in noi, come le parole risuonino in chi le legge.
I partecipanti spesso chiedevano se avessero dovuto leggere tutta la pagina prima di iniziare a sottolineare. Ho deciso di lasciare libera anche questa scelta, con l’unica regola di sottolineare, tra tutte le frasi possibili, quella più vera. Non ero interessato a frasi belle, intelligenti, colte, tantomeno a quelle gli altri vorrebbero che noi facessimo. Chiedevo verità, qualsiasi cosa sia, e se la verità era un silenzio, chiedevo di non sottolineare nulla. Non c’è nessun dovere a cui sottostare, solo la possibilità di esprimere qualcosa che forse - in questo incastro totalmente casuale della pagina - si dà a vedere.
Un altro aspetto che mi ha profondamente colpito è la disparità delle opportunità che ci vengono offerte, qualora si accetti la metafora secondo cui la pagina assegnata rappresenti, in modo analogo, la casualità con cui si presentano le circostanze della vita. Sebbene l'intero processo si sia svolto secondo criteri di assoluta casualità, vi erano individui chiamati a individuare una frase significativa all'interno di una pagina densa di sostantivi, verbi e aggettivi, mentre altri hanno ricevuto una pagina con appena sei o sette righe, corrispondenti alla fine di un capitolo. Eppure, vi sono stati partecipanti che, pur avendo a disposizione un numero esiguo di righe, hanno saputo individuare e sottolineare frasi di straordinario valore, mentre altri, nonostante un'intera pagina ricca di testo, hanno scelto di non evidenziare alcun passaggio.
15 febbraio 2025
Serena Uccello
Narrare del carcere, narrare sul carcere
Il carcere, inteso come istituzione ma anche come insieme di relazioni, tra tutte le istituzioni, tra tutti i mondi, che appartengono alla nostra società e che conosciamo e che ci riguardano, è quello che più di altri, anzi più di tutti incarna una contraddizione: è il più ignorato nonostante sia molto raccontato dall’arte, dal cinema, dalla letteratura.
Insomma, il carcere è un’entità narrata ma invisibile. Esiste una narrazione del carcere ma non esiste una percezione del carcere. È questa un’evidenza che non avevo considerato se non avessi ascoltato Cosima Buccoliero, che ha diretto diversi istituti penitenziari a Milano, Torino, Monza, durante un TEDx. In quell’occasione, Cosima Buccoliero rivolgendosi alla platea in teatro per comunicare l’idea dell’invisibilità del carcere aveva fatto ricorso a un gioco, o meglio aveva invitato le persone che la ascoltavano a partecipare a una simulazione: ‘Penso - aveva detto - che pochissimi di voi si ricorderebbero del carcere, di disegnare il carcere, se dovessero disegnare la mappa di una città. Ci metterebbero magari l'ospedale, il tribunale, la scuola, il parco giochi, l'asilo, ma difficilmente si ricorderebbero del carcere. Perché il carcere lo guardiamo da lontano e lo consideriamo come qualche cosa di distante’.
Il carcere è, dunque, un luogo rimosso, un luogo che sfioriamo perché fino al secolo scorso la grande parte degli istituti era nel centro delle città, ma che quasi sempre sfuggiamo.
Non è un’affermazione giudicante, è una constatazione. Da studentessa, durante gli anni dei miei studi universitari credo di essere passata almeno un paio di volte alla settimana davanti alla Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo - il giallo della cancellata che lo perimetra mi è ben chiaro - ma la mia attenzione verso il carcere è maturata decenni dopo. In tutti quei giorni, non credo di essermi mai posta la domanda su come fossero esattamente spazio e tempo al di là di quella cancellata.
Immagino che sia un atteggiamento inevitabile: assumiamo nei confronti del carcere il medesimo atteggiamento che abbiamo quando qualcosa ci spaventa, o che fatichiamo ad affrontare; evitiamo ciò che ci intimorisce; ignoriamo ciò che riteniamo non potrà mai riguardarci. Il dolore del carcere lo giudichiamo estraneo a noi, alla nostra vita. Non è dello stesso genere di quello che ci attanaglia in un ospedale; lo ipotizziamo diverso dall’esperienza del lutto.
La verità è che in cuor nostro sappiamo che con queste ultime due esperienze dobbiamo fare i conti. Dell’errore, del corto circuito, del reato, riteniamo – e credo che non ci sarebbe ragione di ritenere il contrario – che no, non faremo esperienza.
Eppure - e qui inizia a palesarsi la contraddizione - proprio per le medesime ragioni che spingono noi individui, cittadini, ad ignorare il carcere, gli artisti al contrario ne sono stati attratti, perché l’arte non ha paura di affondare, deragliare, mischiarsi, soffrire.
Tanto che se volessimo stendere una rassegna esaustiva delle pagine che sono state dedicate al carcere dubito che riusciremmo, si tratterebbe infatti di centinaia, migliaia di pagine. Persino se volessimo tracciarne uno sviluppo cronologico ci renderemmo conto dopo poco che sarebbe un lavoro enciclopedico. Basti ricordare ad esempio quanto fa in un articolo, di qualche anno fa e pubblicato sulla rivista Altalex, Umberto Apice che è stato Avvocato generale della Procura generale della Corte di Cassazione, quando scrive che il primo detenuto di cui abbiamo traccia è stato Zenone di Elea, e siamo nel 432 a. C, anno in cui muore. «È probabile altresì che la leggenda che circonda la sua carcerazione abbia influito su Leonardo Sciascia per l’elaborazione della Morte dell’inquisitore, romanzo in cui Diego La Matina, in una pausa dei supplizi, riuscì ad afferrare il suo aguzzino e a fracassargli il cranio con le manette. Di Zenone, Platone dice che era alto e di bell’aspetto e che in gioventù fu l’amante di Parmenide. In realtà, si hanno poche notizie certe sulla vita di Zenone e quelle poche, riferite da Platone, sono dubbie perché scritte un secolo dopo la sua morte. Si consideri, altresì, che il giudizio di Platone non poteva che essere riduttivo, perché aveva sempre considerato Zenone un petulante sofista. Si deve a Plutarco il racconto di un altro aneddoto sulla prigionia di Zenone: per non rivelare il nome dei complici, con i suoi stessi denti si strappò la lingua con un morso e la sputò in faccia al tiranno. Comunque, della sua partecipazione a una congiura contro il tiranno parla anche Diogene Laerzio nelle sue Vite di filosofi», scrive Apice.
Comunque, in ogni caso, a prescindere da come siano andati esattamente i fatti, il senso di questa citazione è affondare nella storia le radici di questo genere di narrazioni. Ed allora ciò che però possiamo fare è provare ad intercettare i vari modi in cui il carcere è stato guardato, quindi raccontato. Vedremo infatti in modo specifico la narrazione secondo due diverse angolazioni: la narrazione del carcere e la narrazione sul carcere.
1. Narrare del carcere
Nel primo caso rientrano, per lo più, le narrazioni in cui il carcere è ambientazione, protagonista, motore delle storie. Mi riferisco alla fiction. Per narrazioni sul carcere intendo invece le riflessioni che analizzano il carcere, quindi la produzione saggistica, la cosiddetta no-fiction.
Naturalmente il percorso qui proposto è il mio, personalissimo, percorso: sono le letture che ho cercato e amato, quelle che mi hanno aiutato. È utile sottolineare che in questo elenco non citerò gli aspetti letterari di queste opere quanto la scelta tematica.
Dunque, il mio primo incontro con la narrativa che affronta il tema della carcerazione avviene grazie a un romanzo che si focalizza sulla carcerazione minorile, il contesto è l’istituto di Nisida. Pubblicato da Einaudi nel 2019 si intitola Almarina ed è stato scritto dalla scrittrice Valeria Parrella. Parrella qui sceglie di ambientare una storia che trova nella relazione tra una nuova e giovane allieva, Almarina appunto, e la sua professoressa di matematica, Elisabetta, il suo nucleo narrativo. Se la solitudine di Almarina ci appare imprescindibile, legata alla condizione di detenuta, quella di Elisabetta la rileviamo subito, noi lettori, come meno ovvia e per questo in grado di far scattare la nostra identificazione.
Prima che arrivasse la restituzione patinata della fiction televisiva tocca a una scrittrice dalla voce profondamente intima portarci dentro il “carcere sull’acqua”. E se il contatto nasce e si connota grazie alla dimensione educativa, non è l’aspetto della formazione ad apparire dirimente per la liberazione, è più il tocco delle anime a mostrarsi come fondamentale.
Sulla detenzione minorile tornerò molti anni dopo grazie alla lettura di Cuore nero di Silvia Avallone (Rizzoli, 2024). Avallone che conosce come volontaria la Casa Circondariale Dozza di Bologna trova in questa sua esperienza la materia narrativa a cui attingere per sviluppare la storia di Emilia e Bruno, o meglio soprattutto di Emilia che, quando il romanzo si apre, scopriamo giovane donna alle prese con la costruzione anzi con ricostruzione di sé. Sentiamo che si muove a Sassaia, tra le vie di questo minuscolo borgo, portandosi dietro un peso, un mistero diremmo. Qui incontra Bruno, anche lui alle prese con la sopravvivenza. Ci è subito abbastanza chiaro che Bruno ha deciso di cristallizzarsi dentro un lutto che progressivamente si svela nella sua enormità. Cosa sia invece la materia che occupa il cuore nero di Emilia lo scopriremo più avanti, quando già ci sarà evidente che l’adolescenza di Emilia è trascorsa dentro un istituto minorile. Ed allora, a questo punto, questa istituzione si comporrà, sapremo chi sono gli educatori, gli insegnanti, le compagne. E qui scopriremo quanto grande sia stato il potere dell’alleanza. La forza salvifica dell’amicizia: se Emilia ha concluso salva la sua pena e grazie ad essa.
Il tema dell’amicizia mi fa tornare indietro alle pagine di una scrittrice straordinaria quale è stata Goliarda Sapienza. Prima tappa: L’arte della gioia (Einaudi, 1998). Riemergo con la testa piena di questa donna e di questa scrittura e allora cerco e scopro svariati aneddoti e tra questi uno in particolare. Per pubblicare infatti L’arte della gioia Goliarda Sapienza toccò la povertà e toccandola finì a Rebibbia, scuola di vita e vera e propria università come Sapienza ci fa comprendere dalle pagine di L’università di Rebibbia (Rizzoli, 1983). Qui il talento, il suo talento, trova la solidarietà, il calore, l’amicizia, una realtà sconosciuta e sorprendente. Memoir, questo, come il Prima che sia notte di Reinaldo Arenas (Guanda, 2016). Altro snodo di questo percorso.
Ma torniamo alle storie immaginate e a due romanzi. Il primo è Cattivi di Maurizio Torchio (Einaudi, 2015) è un’opera che ambisce a restituire la sensazione della costrizione. La storia individuale è sfumata, non è la trama la preoccupazione dell’autore quanto la costruzione di una pagina che aspira alla fisicità. Cattivi, cattivo è colui che vive l’isolamento del carcere duro, chi non può contare il tempo perché il tempo è senza fine, il tempo dell’ergastolano.
«Quello che scorre in cella d'isolamento è un tempo puro, svuotato di eventi. Tanto da far sembrare i giorni di chi può vedere la luce del sole - seppure attraverso le sbarre - come un luogo di libertà, fantasticato per sentito dire. Il mondo di fuori è più evanescente ancora, più irreale del passato, o dei sogni», leggiamo nel risvolto di copertina.
A Torchio, che descrive senza giudicare, interessa da un lato indagare, scrutare le connessioni che legano le vittime ai carnefici. Al punto da innescare una sovversione degli schemi in cui il carcere, unica casa ormai concessa, sollecita nei suoi “abitanti” una sindrome di Stoccolma. Dall’altro far emergere la solitudine, quella dei carcerati e di carcerieri come esclusiva: è questa l’essenza stessa della reclusione, vuole dirci Torchio.
Il secondo testo è in realtà una raccolta di racconti. È ambientato in carcere uno dei tre racconti che compongono Dentro (Einaudi, 2012) di Sandro Bonvissuto. Il carcere come punizione e sottrazione. Di tempo e di spazio. Una possente architettura dell’errore, in cui visualizzare in ogni istante ciò da cui si è lontani.
2. Narrare sul carcere
Passiamo alla narrazione sul carcere che per me si divide in due mondi: l’inchiesta e la testimonianza, quindi l’autobiografia. In quest’ultimo caso non si non iniziare da Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli, 2012) di Nelson Mandela.
Incrocia invece due memorie, due racconti autobiografici Fine pena: ora di Elvio Fassone (Sellerio, 2015). Tutto comincia da una prima lettera, a questa ne seguiranno molte altre, per ventisei anni. È la corrispondenza tra Salvatore, condannato all'ergastolo dopo un maxiprocesso alla mafia catanese, e il Presidente della Corte d'Assise assegnato a quella sentenza. Si compone così, attraverso la voce del giudice e del detenuto, una riflessione sulle identità e le occasioni, su cosa ci determina e cosa ci condanna.
Ripercorrono l’esperienza alla guida di due istituti milanesi: Il direttore (Zolfo, 2020) di Luigi Pagano, a capo di San Vittore a lungo, e Di cuore e di coraggio (Rizzoli, 2020) di Giacinto Siciliano, alla guida invece di Opera.
Si focalizza sulla voce dei volontari, un testo di qualche anno fa dal titolo Fili blu. Lettere dal carcere a cura di Ovidio Bompressi e Athe Gracci (Il Grappolo, 1998). Ecco cosa ne scrive, nella brevissima prefazione, Dacia Maraini: «Athe Gracci sembra uscita, con la sua bella testa pensosa che suggerisce gentilezza e tormento, da un romanzo di Henry James. Una signora della nuova Inghilterra che dedica la sua vita ai derelitti e lo fa con grazia e intelligenza, con determinazione e tenacia, pronta a rischiare le ire delle guardie, le riprovazioni dei benpensanti. Coloro che le scrivono dalle carceri, sembrano conoscere bene queste qualità perché la vivono come una madre che oltre ad essere affettuosa e caritatevole, è posseduta da una indomita energia. Non è una voce, la sua, che si possa mettere a tacere tanto facilmente quando invoca i suoi diritti. Per questo si è guadagnata la fiducia e il rispetto dei tanti carcerati che le scrivono giorno per giorno raccontandole di sé, dei loro dolori, delle loro ristrettezze. Per questa sua paziente generosità ringraziamo Athe Gracci e le auguriamo lunga vita!».
Ed infine si inserisce nel solco della testimonianza di chi entra in carcere nei panni del volontario anche Ogni prigione è un'isola di Daria Bignardi (Mondadori, 2024). Bignardi infatti trent'anni fa, racconta, è entrata per la prima volta in un carcere è tuttora un "articolo 78", autorizzata cioè a collaborare alle attività culturali che si svolgono in carcere.
29 gennaio 2025
Sonia Trovato
Come Pinocchio nella balena. Scuola e letteratura in carcere
In un reportage a fumetti pubblicato per la prima volta nel dicembre 2020 su un numero speciale della rivista «Internazionale» e poi confluito nel volume Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia (Bao Publishing, 2021), l’ormai popolarissimo Zerocalcare ha raccontato la disinformazione sulle rivolte carcerarie che hanno segnato l’inizio della pandemia servendosi di un titolo ironico e provocatorio – Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, chiara allusione alla canzone di Sergio Endrigo – per restituire quello che Michel Foucault nell’illuminante saggio Sorvegliare e punire indicò come uno degli aspetti maggiormente peculiari della “società disciplinare”, ossia il passaggio dalla spettacolarizzazione pubblica del supplizio a un sistema penale basato sul confinamento, l’esclusione sociale e la sorveglianza invisibile dei condannati. Come sostenne argutamente il filosofo francese, nelle società moderne «Il condannato non deve più essere visto»[4] e la distanza emotiva verso i reclusi si accompagna spesso a una distanza effettiva delle strutture penitenziarie rispetto ai centri cittadini, perché molte carceri sono collocate in zone periferiche e isolate, all’interno di edifici anonimi e impenetrabili, che spesso non lasciano trasparire nemmeno la propria funzione. Ma anche quando la distanza non è effettiva e le carceri si trovano in posizione più centrale, la distanza emotiva non si “accorcia” e non risulta immediato pensare al carcere come a un luogo abitato da persone. La collocazione delle due strutture penitenziarie di Brescia – la mia città e la città nella quale è ambientato il mio reportage – dimostra come la centralità geografica dell’istituto di pena non si traduca in una centralità dello stesso nel discorso pubblico: il carcere di Verziano si trova in estrema periferia, in aperta campagna e quasi in un altro comune; l’altro carcere, Nerio Fischione, conosciuto in città con il nome di Canton Mombello, è centralissimo e sorge a ridosso di una piazza molto frequentata dalla movida cittadina, tanto che, spesso, chi la deve raggiungere dice agli amici ‘parcheggio alle carceri’, oppure ‘ci troviamo davanti alle carceri’. Questo secondo carcere è in effetti costantemente al centro delle cronache perché è uno degli istituti penitenziari più sovraffollati d’Italia, ma questo dato viene presentato più che altro come un fastidioso problema di ordine pubblico e, molto raramente, come un fatto umano che coinvolge degli esseri umani[5].
Come sottolinea Zerocalcare, se le carceri delle nostre città, anziché essere delimitate da mura invalicabili, fossero di vetro e «Se tutti noi, ogni mattina andando a scuola o al lavoro, fossimo costretti a guardare in faccia i nostri vicini dell’altro lato»[6], forse ci renderemmo conto della vita che pulsa all’interno e smetteremmo di concepire quegli edifici come qualcosa di immateriale, come «Un deposito di oltre duemila corpi»[7] (Zerocalcare si riferisce all’affollatissimo Rebibbia) che non ci riguarda e di cui non vogliamo sapere nulla.
Ho conosciuto chi sta dall’altro lato proprio andando al lavoro e proprio andando a lavorare a scuola: la scuola che ha segnato la mia esperienza didattica come insegnante di Lettere nell’anno scolastico 2018/19 si trova infatti all’interno di una casa di reclusione bresciana. Per otto mesi, i «vicini dell’altro lato» sono stati i miei studenti.
Dall’esperienza ho tratto un libro, il cui titolo – Come Pinocchio nella balena. Scuola e letteratura in carcere (Prospero Editore, 2019) – è ispirato a una poesia che gli studenti e le studentesse hanno redatto riflettendo sulla loro reclusione (che reputano, appunto, lontana dagli occhi, peraltro spesso distratti e disinteressati, dell’opinione pubblica):
Siamo nella pancia della balena.
Ha sbarre di ferro e porte blindate.
Ci ha risucchiato e ingoiato,
ma siamo sopravvissuti.
Ci siamo arrivati dopo un lungo cammino.
Il gatto, la volpe, Lucignolo, i gendarmi
li abbiamo incontrati, più e più volte.
Qui dentro ci è rimasto solo il grillo parlante
che ci assilla e ci tormenta.
Ogni tanto ritroviamo qualche mastro Geppetto
che ci nutre, ci protegge, ci cura.
Siamo ancora di legno,
ma forse un giorno potremo (ri)prenderci la vita.
La scuola in carcere è un luogo di nutrizione, protezione, cura. Lo sostiene a chiare lettere chi la frequenta. Chiamati/e a comporre un articolo sull’istruzione carceraria per la rivista «Zona 508», gli studenti e le studentesse si sono infatti espressi/e così (p. 14):
La scuola offre la possibilità di tenere allenata la mente, la apre e la rinfresca dopo anni di ruggine e la distoglie dai pensieri martellanti che sono inevitabili in questo luogo. Inoltre, spezza la routine che, senza le lezioni, prevederebbe la sezione o l’ora d’aria: nelle ore trascorse in classe, ci si può dimenticare di essere in carcere, perché si sentono meno le sbarre. A contatto con i professori, noi detenuti possiamo essere più aggiornati sul mondo esterno e ci sentiamo trattati da persone normali. […]
Grazie al tempo speso (bene) a scuola, noi sentiamo di avere una crescita personale e culturale e ci sentiamo restituire la dignità che la detenzione rischia di togliere.
Se per gli studenti e le studentesse stare in classe vuol dire potersi «dimenticare di essere in carcere», per me non è stato semplicissimo non ricordare costantemente dove mi trovassi: le porte blindate, i lunghi corridoi con le pareti ingiallite dal fumo, gli spazi angusti e fatiscenti, il materiale scolastico carente e inadeguato, le lezioni videosorvegliate, gli agenti di guardia fuori dalla porta, i rumori incessanti, le continue interruzioni per colloqui con avvocati o incontri con educatori o visite mediche sembravano essere un costante monito affinché non mi illudessi mai di essere in una scuola come le altre. Uno degli elementi più alienanti e dissonanti che ha segnato il primo giorno di lezioni è stato aprire la porta dell’aula e trovarla vuota: per questioni di sicurezza, chi si iscrive a scuola non può raggiungere l’aula in autonomia e quindi deve attendere che il personale, che è perennemente sotto organico, lo possa accompagnare, ma il personale ha altre mansioni da svolgere nella stessa fascia oraria e la frequenza a scuola dei detenuti e delle detenute non è sentita da tutti come una priorità, con il risultato che le lezioni iniziano quasi sempre con dei significativi ritardi[8].
In ogni caso, questa esperienza didattica l’avevo scelta con coscienza, proprio perché, avendo già sperimentato l’istruzione serale rivolta agli adulti, ne intuivo i punti di forza. La volontarietà della frequenza scolastica sottrae i reclusi e le recluse dalla dialettica conflittuale che connota la scuola “fuori” e che spesso fa percepire gli insegnanti come sadici carcerieri, che ipotecano un tempo che agli studenti appare infinito e che vorrebbero spendere in mille altri modi. Al contrario, vivendo ogni giorno il trauma della “vera” galera, gli studenti detenuti e le studentesse detenute (l’ordine delle due parole - “studente detenuto” - non è frutto del caso ed è, anzi, indispensabile se si vuole evitare che la scuola diventi un’estensione del dispositivo della reclusione e che chi la frequenta si identifichi esclusivamente con la propria condanna) indicano la mattinata scolastica come il momento più libero, più rilassato e più significativo della giornata. Inoltre, nonostante la prigione sia un contenitore di povertà, solitudine, sofferenza sociale, il clima in aula è quasi sempre disteso e gioviale e non è appesantito dall’ossessione per la valutazione che, a dispetto dei più recenti proclami pedagogici in favore dell’apprendimento cooperativo, è tuttora l’elemento attorno al quale ruota il sistema d’istruzione “fuori”. Chi frequenta la scuola in carcere lo fa per libera scelta, mosso dalla volontà di rimediare a un passato di fallimenti scolastici senza però cedere all’ansia da prestazione e alla competizione, o animato dal desiderio di dare senso e valore a un tempo altrimenti speso a rimuginare in cella, o da una spontanea voglia di imparare. Significativamente, già al termine della mia prima lezione all’interno della casa di reclusione, gli studenti si misero in fila davanti alla cattedra e, a turno, mi strinsero la mano, per ringraziarmi. Ne fui un po’ disorientata, finché i colleghi veterani mi spiegarono che quella è la prassi, che la gratitudine è spontanea e reale e che ci avrei presto fatto l’abitudine.
In carcere, ogni contenuto didattico viene personalizzato e interiorizzato, diventando un utile strumento di lettura della condizione carceraria, dei propri percorsi di vita frastagliati e dei propri travagli emotivi. Durante la mia esperienza didattica, persino le lezioni sull’arida ed esecrata grammatica sono diventate un’occasione per rivolgere uno sguardo ironico alla quotidianità ripetitiva della detenzione (pp. 54-55):
La spiegazione grammaticale del secondo quadrimestre è dedicata all’odiata analisi logica.
A turno, gli studenti vengono alla lavagna per cimentarsi con i complementi, con esempi testuali che risultano a tema unico.
Complemento oggetto
“Preparo il pranzo in sezione”.
Complemento di termine
“Faccio il caffè al mio concellino”.
Complemento di causa
“Sono in carcere a causa di una condanna”.
Complemento di fine
“Studio in cella per la verifica”.
Complementi di luogo
Stato in luogo
“Io sono in galera”.
Moto a luogo
“Io vado all’aria”.
Moto da luogo
“Io esco dalla cella per andare a scuola”.
Propongo di trovare delle ambientazioni alternative, dato che stiamo pur sempre giocando d’immaginazione. Il risultato è un moto per luogo che va a parare egualmente sulla condizione carceraria, ma con un’inaspettata virata finale: “Io passo per la galera, ma non mi fermo e vado in vacanza!”.
In carcere, l’insegnante arriva a sentirsi dire che il «bello della scuola è che ti fa pensare alle cose che già conoscevi in un modo diverso» (p. 46). In carcere, l’insegnante (ri)scopre il senso autentico e profondo del proprio mestiere.
Mi preme precisare che Come Pinocchio nella balena non è stato pensato per essere un libro autobiografico incentrato sulle mie impressioni di insegnante in carcere; certo, dal testo sicuramente si ricava qualche mia impressione, ma è un aspetto secondario. Come scrivo nell’introduzione, «Questo libro vuole essere soprattutto un omaggio al potere catartico e lenitivo della letteratura e la storia, inevitabilmente compressa e parziale, di come essa abbia animato le giornate di un gruppo di studenti del biennio di un carcere» (p. 15). Il focus del racconto è dunque essenzialmente l’incontro tra gli studenti e le studentesse e la letteratura. È un incontro spesso divertente, a volte surreale e grottesco (il caso più eclatante è l’interpretazione della novella La roba di Verga, che è stata letta come se fosse un esaltato manifesto dell’uso degli stupefacenti), a volte serio e commovente (com’è successo con X agosto di Pascoli o con Ho sceso dandoti il braccio di Montale). È un incontro che non li ha vincolati a una fruizione esclusivamente passiva, perché nella seconda parte dell’anno gli studenti e le studentesse hanno provato a “fare” letteratura, attraverso un laboratorio poetico di cui do conto nell’appendice del volume. È un incontro che non ha mai dato esiti banali e che ha sempre lasciato una traccia tangibile nelle persone che frequentavano le lezioni.
Il carcere è il luogo in cui molti valori si rovesciano rispetto a quanto avviene all’esterno. Così, se per gli studenti ‘fuori’ la scuola è spesso il luogo in cui si sperimenta la noia, una noia anche lancinante, per gli studenti e le studentesse detenuti/e è tutto l’opposto: la noia è tutto il resto, è passare la giornata in sezione o in cella, ma non la scuola. Riporto, a questo proposito, un estratto dello sfogo di un mio studente un po’ attempato, che un giorno mi ha chiesto di poter scrivere spontaneamente una riflessione sulla noia che, da quando stava lì dentro (era stato arrestato da poche settimane dopo essersi costituito), lo stava divorando (p. 114):
Intorno a me si è creato un ambiente abbastanza freddo, non da parte dei compagni, ma di tutta la struttura carceraria. Gli stimoli sono pochi, la gente non relaziona, c’è tanto menefreghismo e indifferenza. Tutto ciò crea noia e anche solitudine.
Bisogna considerare le varie culture, le etnie, che creano delle differenze di alimentazione, di lingua, di gestualità.
Non è facile convivere forzatamente con le diversità dei popoli. Gli spazi sono limitati e quando arriva la sera ti fai un po’ i conti della giornata trascorsa e riscontri tanta noia e tanta solitudine.
Dopo aver provato altre esperienze detentive, considero questi istituti di pena una giungla nella quale non è facile cambiare e dalla quale non si può uscire sereni.
Non vorrei che questo brano contribuisse a restituire l’idea del carcere come di un contesto in cui ci si autocommisera e ci si piange costantemente addosso. Certo, è ovviamente un luogo di estrema sofferenza e disagio e c’è chi effettivamente si deprime tutto il giorno e ha tutte le ragioni per farlo, ma è anche il luogo in cui l’autoironia e la capacità di sdrammatizzare diventano delle strategie di sopravvivenza ben collaudate. Attenzione: l’autoironia passa sempre da una lucida consapevolezza della propria tragedia personale. Quando abbiamo letto Rosso Malpelo, un personaggio che li ha colpiti moltissimo e in cui si sono fortemente identificati, la sentenza, che riporto letteralmente, è stata che «non puoi uscire dalla merda in cui nasci» (p. 38) e che se vieni da un contesto degradato e sfortunato difficilmente riesci a emancipartene. «Mio padre faceva il ladro. Io potevo fare il direttore di banca?» (Ibidem) è la chiosa lapidaria alla discussione da parte di uno studente che era anche un detenuto recidivo. Va da sé che, sebbene nell’articolo sui vantaggi dell’istruzione carceraria qualcuno abbia voluto citare la possibilità che conseguire un diploma possa «contribuire a un arricchimento del curriculum e a fornire maggiori opportunità lavorative, facilitando il reinserimento nella società civile quando si ha finito di scontare la pena» (p. 14), i più sono consapevoli che diplomarsi non ti tolga di dosso lo stigma della detenzione. Dunque, qual è il reale vantaggio della frequenza scolastica? Andare a scuola in carcere significa, soprattutto, aprirsi all’incontro: all’incontro con gli altri detenuti; all’incontro con l’altro sesso[9] (normalmente in carcere la sezione maschile e quella femminile conducono due vite rigidamente separate); all’incontro con chi “viene da fuori” (anche il personale penitenziario “viene da fuori” tutti i giorni, ma, in virtù dei ruoli estremamente polarizzati che si stabiliscono all’interno della struttura, è molto raro che con il personale di guardia possano instaurarsi gli stessi rapporti amichevoli che invece si creano spontaneamente con gli insegnanti); all’incontro con le materie di studio (e la letteratura, tra le discipline scolastiche, è quella notoriamente preposta a indagare la condizione umana e l’incontro tra gli esseri umani). La scuola in carcere, come ‘fuori’ ma ancor più che ‘fuori’, è il luogo delle relazioni.
24 febbraio 2025
Pubblicato il 18 marzo 2025
[1] Daria Bignardi, Ogni prigione è un’isola, Milano, Mondadori, 2024, p. 10.
[2] Cosima Buccoliero, Serena Uccello, Senza sbarre. Storia di un carcere aperto, Torino, Einaudi, 2022, p. 28.
[3] Ivi, p. 27.
[4] Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014, p. 16.
[5] Tra i rari casi di informazione virtuosa sul carcere di Nerio Fischione segnalo la webserie 11 giorni, diretta dal regista bresciano Nicola Zambelli: https://openddb.it/film/11-giorni/ [consultato il 30/01/25].
[6] Zerocalcare, Lontano dagli occhi lontano dal cuore, in Id., Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia, Milano, Bao Publishing, 2021, p. 32.
[7] Ivi, p. 7.
[8] Questo vale in particolare per la sezione femminile, come sottolineo nel mio racconto.
[9] Sugli effetti dell’incontro tra i detenuti e le detenute all’interno dell’aula scolastica ho dato conto nel capitolo intitolato “Intermezzo rosa: Di fiori e d’insulti». L’amore galeotto in sezione” (pp. 77-80).