Elisabetta Menetti - Il rovescio del racconto

1. La verità del reale e la menzogna della finzione / La responsabilità del narratore / Educare, dilettare e convincere / 2. I rovesciamenti narrativi dell'animo umano / Il focolare ambiguo / Le brutte narratrici / Uomini come giganti e cinocefali / Gli abitanti del sottosuolo / Le insanie dell'eros / La speranza di rovesciare se stessi / La speranza di rovesciare se stessi / Ricordare per dimenticare

Elias Canetti ha cristallizzato nei suoi appunti un pensiero perturbante: l'idea di una persona qualunque che, costretta sempre a mentire, scopre «che ognuna delle sue bugie è vera». Una rivelazione che parla direttamente al cuore dell'uomo moderno, ma che può aiutare a capovolgere la prospettiva da cui si guardano non solo i discorsi o le frasi quotidiane ma anche l'immaginazione letteraria, che si nutre di parole, non sempre veritiere.
La verità come finzione e la finzione come verità sono gli effetti speciali e speculari del gioco narrativo, fin dalle sue origini. Raccontare storie, vere e inventate, significa sospendere in parte il concetto di verità, stipulando un patto con chi legge o ascolta. La finzione, rovescio del reale, si regge sul rapporto di fiducia instaurato tra l'autore e il lettore. Per un narratore o romanziere, attento a catturare la straordinarietà del mondo, è necessario inventare una realtà altra, dove la verità delle cose, misteriosa e ambigua, può essere rovesciata o sovvertita.
Nel cercare, dunque, il rovescio del racconto emergono due indirizzi principali: il nodo teorico della fictio come rovescio della veritas e, strettamente legato ad esso, gli straordinari rovesciamenti narrativi dell'animo umano.

 

1. La verità del reale e la menzogna della finzione

 

In un racconto alla rovescia della tradizione folklorica campana si dichiara che «nessuna parola è verità»: qui, in effetti, si racconta di un figlio che vede nascere il proprio padre, in un crescendo di episodi surreali e paradossali.
Il rovesciamento fantastico del mondo può assumere le forme più diverse, a seconda del grado di verosimiglianza del genere letterario in cui viene inserito: fiaba, novella o romanzo. Di solito il contesto finzionale è determinato dalla credibilità e dall'abilità di chi racconta. Ad un narratore corrisponde sempre un ascoltatore, che giudica i due principali aspetti della narrazione, teoricamente inconciliabili: la verità della storia e la sua mirabile invenzione.
Nella tradizione narrativa occidentale e orientale delle origini è soprattutto il racconto metadiegetico a definire i confini dell'invenzione: un autore scrive di qualcuno che in una certa occasione ha narrato una storia ad un pubblico di ascoltatori.
Il procedimento del racconto a incastri, che conserva l'antica memoria e la pratica corrente del racconto orale, si mantiene a lungo: almeno, secondo Gerard Genette, da Omero a Proust. Nella Recherche il gioco della rappresentazione del narrare si interrompe, in quanto viene eliminato il racconto di secondo grado. Eppure Proust, protagonista-narratore, nel momento in cui si allontana dal modello dominante per secoli, individua nella dimensione sociale di ciascuno di noi la naturale, quasi necessaria esigenza narrativa, che nasce da un conflitto di passioni: «Quando amiamo, cioè quando l'esistenza di un'altra persona ci sembra misteriosa, come vorremmo trovare un narratore così ben informato! E certo esso esiste. Noi stessi non raccontiamo forse senza passione alcuna, la vita di questa o quella donna a uno dei nostri amici, o a un estraneo che nulla sa dei suoi amori e ci ascolta con curiosità?».[1]
Nella prosa narrativa antica, invece, il confine tra realtà e finzione viene determinato dall'autore e dal suo doppio: il narratore.
Più volte gli autori si difendono scaricando ogni responsabilità su altri narratori; ad esempio su chi ha raccontato in un'occasione conviviale una storia poco credibile oppure su chi ha scritto certi avvenimenti stupefacenti in un misterioso manoscritto. Voci narrative che gli autori - così dicono - si apprestano umilmente e semplicemente a registrare e a trascrivere. Secondo Gianni Celati nei romanzi moderni, invece, avviene il contrario, poiché «funziona il sottinteso che ogni libro che leggiamo sia (o debba essere) una finestra che si apre sul mondo, con la messinscena d'una finzione che serve a rappresentare una certa realtà, storica, geografica, sociale.»
Accade, dunque, che nei romanzi cavallereschi antichi il punto di riferimento sia solo «uno spazio di parole»: «[..]infatti tutti dicono di ricavare le loro storie dal leggendario libro del vescovo Turpino sui paladini di Francia, assicurandoci che è tutta farina del suo sacco; in questo modo possono inventare le panzane più inverosimili, in una specie di gara a chi le spara più grosse, e poi scaricare ogni reponsabilità sulle spalle del buon Turpino: "Turpin che tutta questa istoria dice" (Orlando Furioso, XXXIII,38)».[2]

 

La responsabilità del narratore

 

Quando, ad esempio, Ulisse racconta ai Feaci di essere arrivato ai confini dell'oceano per incontrare le anime dei morti, Alcinoo, rapito dalla bellezza delle sue parole, afferma di non considerarlo affatto un «fabbricatore di false avventure». A metà del racconto, anzi, chiede all'eroe di continuare a narrare, ansioso di conoscere tutte le sue prodigiose storie.
Nella cornice delle Mille e una notte Dinarzad ripete ogni notte che la storia raccontata dalla sorella è bella e strana, consentendo a Shahrazad di rilanciare al re la proposta di continuare la notte seguente con una storia ancor più stupefacente. Nella lunga catena di racconti arabi, di cui Shahrazad mantiene mirabilmente la regìa, si fa spesso riferimento alla necessità di ascoltare racconti mirabili, divertenti e affascinanti: pena la morte. Nelle Mille e una notte «ogni racconto è un inganno; nessuno è al servizio d'una verità: tutti servono solo per sospendere il tempo di vita, di novella in novella, di giorno in giorno».[3]
Rovesciare la realtà, mantenendo fluidi i confini tra vero e falso, è il nodo teorico di ogni patto finzionale. Il grado di verità del testo, riguardo al dato reale e concreto che contiene, struttura fin dalle origini le diverse morfologie narrative, brevi e lunghe: come il racconto esemplare, storico, agiografico, fiabesco, novellistico e, ancora, l'epica, il romanzo cavalleresco fino a giungere ai destini incrociati del novel e del romance, tra modernità e contemporaneità.[4]
Ma, come ha detto Borges, commentando il concetto di verità della Divina Commedia, tutti noi dobbiamo «abbandonarci» alla visione dantesca e leggerla «con fede poetica»: «Coleridge diceva che la fede poetica è una sospensione volontaria dell'incredulità».[5] Credere ad una finzione letteraria, visionaria e realistica insieme, significa sospendere l'incredulità, con un atto volontario, che rende ogni lettore, «sempre e dovunque» un «abitante del possibile».[6]

 

Educare, dilettare e convincere

 

Nelle riflessioni teoriche degli umanisti medievali e rinascimentali la verità della rappresentazione letteraria diventa molto presto una questione spinosa. Il variopinto patrimonio narrativo a cui attinge la narrativa italiana delle origini, impone ai letterati molte cautele.
L'origine della narrativa italiana medievale è multigenetica, multiforme e plurima: fabliaux, exempla, novelle, vida, racconti agiografici, storie antiche, prelevate soprattutto dai testi latini, racconti orientali e mediorientali a sfondo esemplare. Una congerie di suggestioni e di forme, che viene assorbita immediatamente nei repertori enciclopedici patristici ed omiletici, veri e propri laboratori di una viva materia narrativa, recuperata da un ampio spazio geografico del narrare.
Accade non di rado, infatti, che una novella medievale o rinascimentale contenga un certo tema o una porzione di testo apparentemente prelevati per via diretta da una fonte classica o da un testo orientale: il più delle volte, però, si scopre una prima versione di questo bricolage in opere patristiche o sermocinali, che testimoniano la prima ricezione critica cristiana e medievale di quel tema, pronta per un nuovo riuso. Un filtro selettivo tutt'altro che trascurabile e senz'altro presente nel testo in esame.
L'indirizzo pedagogico della narrativa esemplare medievale, dunque, non solo risulta fortemente attivo (persino nei rovesciamenti e nelle parodie) ma, fatto assolutamente non secondario, si riflette sulla stessa definizione della verità del racconto.[7] La necessità di offrire un racconto verosimile è, anzi, parte essenziale della strategia narrativa persuasiva della predicazione medievale, che ha esercitato un ruolo decisivo nell'evoluzione del genere narrativo della letteratura italiana. [8]
Narrare per educare e per dilettare: il suggerimento di Orazio determina fin dalle origini le dinamiche di un conflitto di lunga durata.
Una questione davvero intricata, quella della verità e della falsità del racconto, le cui tesi fondamentali - arte come menzogna o arte come detentrice di verità - risalgono a Platone e ad Aristotele, si intrecciano, poi, con le finalità pedagogiche e moralistiche cristiane e, infine, confluiscono naturalmente nelle riflessioni poetiche umanistiche e rinascimentali.
Nel Decameron Giovanni Boccaccio, ad esempio, è costretto a difendersi dall'accusa di aver raccontato falsità. Ma riesce ad evitare, con balzo leggero, l'ostacolo della verità del racconto, chiedendo ironicamente ai suoi detrattori di portare gli originali di ciò che egli ha sentito raccontare dalla lieta brigata.[9] D'altronde nella multigenetica e multiforme novella boccacciana, nata alla confluenza di differenti generi del racconto breve, riescono ancora convivere finalità opposte, sia realistiche sia fantastiche.[10] Tuttavia la legge aristotelica del verosimile mette molto presto sotto protezione il racconto delle cose del mondo, lasciando solo alla fiaba, al romanzo cavalleresco e al romance i mondi altri, magici e fantastici.
Circa due secoli dopo il Decameron uno scrittore lombardo dalla diffusione europea come Matteo Bandello (1484-1561), umanista e narratore rinascimentale, intraprende più decisamente la via del verosimile, scrivendo novelle (che ha sentito raccontare da altri cortigiani), abilmente sospese tra racconto vero e mirabile.[11] Uno stratagemma brillante, ma che non risulta sempre convincente.
D'altronde negli anni dell'esplosione fantastica del romanzo ariostesco, la condanna teorica al meraviglioso diventa sempre più severa.
Teofilo Folengo (1492-1544), esagerando parodicamente i termini del problema, giunge persino ad immaginare una stanza delle torture dove poter rinchiudere i poeti e gli astrologi con tutte le loro falsità e follie. È la «stanza dei poeti», scavata in una zucca, che si trova alla fine del Baldus: «Stanza poëtarum est, cantorum, astrologorum, qui fingunt, cantant, dovinant somnia genti, complevere libros follis vanisque novellis». Ai poeti, colpevoli di aver diffuso storie vane, vengono cavati tanti denti, quante bugie hanno raccontato. Poco dopo in Spagna, Cervantes, cresciuto alla scuola umanistica, avrebbe aperto la via del romanzo, facendo morire le fantasticherie e i sogni di un povero lettore uscito di senno.
L'evoluzione storica e teorica della verità del racconto e del suo rovesciamento nella finzione è lunga, complessa ed è centrale della narrazione romanzesca.[12] L'assillo della verità nel mondo di invenzione (o della fictio), come è noto, lascerà Alessandro Manzoni nell'incertezza, rivelando l'ambivalente evoluzione delle trame, dei generi e dei motivi narrativi della nostra letteratura.
Per comprendere meglio le conseguenze pratiche di questa ambivalenza teorica, occorre inoltrarsi nelle zone più oscure, sotterranee della nostra narrativa, in cui sopravvivono l'inconfessabile, l'irrazionale, il basso dello spirito umano.

 

2. I rovesciamenti narrativi dell'animo umano

 

Nella narrativa delle origini, più che altrove, si sono condensati gli umori più intimi di un'umanità in lotta con se stessa. Una narrativa che va intesa, come si diceva, nel ventaglio più ampio di generi: dalle forme brevi dell'exemplum, della novella, del racconto storico e di quello fiabesco, delle brevi narrazioni epistolari, dei trattati pedagogici fino alla forma lunga del romanzo cavalleresco.
Compito di questo secondo breve percorso è superare, per un momento, le separazioni formali dei generi, per cercare il rovescio della medaglia, la parte non ufficiale, non razionale o non consentita dei racconti di invenzione
Si tenterà di scomporre, ricomporre e ribaltare i paradigmi critici, gli ideali e le finalità, che sembrano costituire le fondamenta del racconto d'invenzione: come ad esempio la descrizione dell'ideale di bellezza femminile (contro la bruttezza), l'esaltazione dell'intelligenza (contro la stupidità), l'appello alla ragione (contro la passione), il richiamo alla grazia (contro la volgarità), la ricerca del più temperato sentimento amoroso (contro le insanie dell'eros), la continua attenzione rivolta al dato erudito, moralistico o storico (contro l'insensatezza, l'ignoranza o l'improvvisazione del tutto) e, infine, l'ossessione che quanto si racconta sia vero, reale o almeno possibile (contro l'impossibile o l'inaudito).
Il nostro interesse si incentrerà sui temi del rovescio: come la bruttezza, la stupidità, la passione, la volgarità, le insanie dell'eros, l'insensatezza, l'impossibile e l'inaudito. E nostri compagni di viaggio saranno, inevitabilmente, personaggi poco raccomandabili, recuperati dal sottosuolo narrativo: come le donne e gli uomini deformi, alterati, rovesciati, alienati, stupidi e irrazionali, le narratrici brutte, le amanti vecchie, le streghe con tutte le spiacevoli e straordinarie sorprese dell'animo umano.

 

Il focolare ambiguo

 

L'immagine della donna che racconta è tradizione viva e presente nelle origini folkloriche della nostra narrativa. Nella dimensione domestica la donna si dedica all'immaginazione, alla fantasia e affida i propri sogni a mondi altri, inventati.
Una narratrice della lieta brigata del Decameron spiega così questo fatto: «Quando c'invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere, anzi ci cacciano in cucina a dir delle favole colla gatta e noverare le pentole e le scodelle» (Decameron, V.10). Un genere di racconto femminile che ricorda il samar arabo o l'incanto della fiaba, una sorta di cerimonia del racconto, tenuta di solito da una donna anziana per i bambini e per gli adulti al calare della notte.[13]
Nell'immaginario popolare non sempre, però, il focolare è luogo caldo e rassicurante. Una scopa appoggiata al muro può diventare il mezzo più facile e più sicuro per una donna che voglia viaggiare al di fuori della solita costrizione domestica. Italo Calvino, ad esempio, vedeva nella scopa della strega un chiaro legame tra «levitazione desiderata» e «privazione sofferta». Non è un caso che ai tempi dell'Inquisizione l'autore del manuale più diffuso di caccia alle streghe (Malleus maleficarum, 1486 -1487), studiato poi anche da Freud, avesse dipinto con terrore questa fantasiosa pratica di volo femminile: secondo il preoccupato inquisitore le streghe ottenevano il maleficio dopo aver cosparso un bastone (o anche una sedia) di un macabro unguento, prodotto con i corpi di bambini uccisi prima del battesimo.
Spaventose visioni di gruppi di donne volanti, a cavallo delle loro scope, con fusi e arcolai impugnati come armi, occupano i disegni di Hieronymus Bosch (1450-1516). E, si sa, che gli arnesi di cucina, come vasi, ampolle e pentoloni, sono i primi alambicchi della stregoneria.
Fin dai primi testi dell'antichità, infatti, gli incantesimi si fanno attorno al focolare, con pozioni, ricette, ampolle e bacchette magiche. Nell'Odissea la maga Circe trasforma gli uomini in porci con una pozione e con l'uso di una lunga bacchetta: e sempre con un misterioso unguento li fa tornare uomini.

 

Le brutte narratrici

 

La sensualità femminile è motivo dominante della tradizione narrativa orientale e occidentale. Si è già detto delle due sorelle narrative, icone ormai globalizzate del fascino femminile: Shahrazad, la sorella che narra sul letto del re misogino Shahriyar e Dinarzad, la sorella che ascolta nascosta sotto lo stesso letto, quasi una complice del rito sessuale e narrativo salvifico.
Non bisogna nemmeno dimenticare che nella finzione letteraria della «lieta brigata», Boccaccio affida all'immaginario femminile la maggior parte delle sue novelle: sono sette le donne che narrano a turno (e ascoltano), mentre sono tre i giovani narratori. Sette donne belle, virtuose e armoniose: «gentili», «nobili» e «pietose». Una comunità ideale ed elitaria di narratrici, alla quale lo scrittore dedica persino tutta la sua opera e che diventerà un punto di riferimento per il pensiero umanistico e rinascimentale.
Non sempre, però, le donne che amano narrare, sono belle, virtuose e capaci di profondere sensualità e mistero.
Nel Cunto de li Cunti (1634-1636)di Giambattista Basile le narratrici sono brutte, ripugnanti, ma sono anche le più «esperte e linguacciute»: sono Zeza, «la sciancata», Cecca «la storta», Meneca «la gozzuta», Tolla «la nasuta», Popa «la gobba», Antonella «la lumacosa», Ciulla «la labbrona», Paola «la strabica», Ciommetella «la tignosa» e, per finire, Iacova, «la squacquarata». Le orribili narratrici di Basile sono il rovescio dell' ideale di bellezza, di purezza, di armonia di una lunga tradizione.[14]
La lirica petrarchesca, ricco repertorio di temi dell'amor cortese e di stilemi stilnovisti, aveva creato l'immagine ideale della bellezza femminile. Un ideale che si consolida nei secoli e che si unisce in pieno Rinascimento alla rappresentazione iconografica del bello, quasi fosse uno specchio magico della società cortigiana cinquecentesca. Eppure accanto alla bellezza, convive la bruttezza: da sempre. E i narratori più irriverenti non dimenticano di certo la grottesca e comica rappresentazione della donna vecchia e brutta o dell'uomo sporco e maleodorante: donne e uomini a rovescio, che incarnano tutto ciò che non rientra nell' ufficialità della cultura dominante. Ecco allora uscire dai racconti medievali o dalle tante prose narrative di vario genere (lettere, novelle, trattati o racconti fiabeschi) del Quattro e Cinquecento, personaggi brutti, stralunati, ignoranti, paradossali, assurdi o solo ripugnanti. Donne e uomini del popolo, ma anche della nascente borghesia e della nobiltà escono dal ventre di una narratività bassa e corporea, portando alla luce l'esistenza - e l'inesorabile permanenza - del contrario: è il comico rovesciamento dell'ideale culturale umanistico e rinascimentale, dominato invece dai molteplici travestimenti del bello, come la grazia, la saggezza e la sprezzatura.
Da Giovanni Boccaccio a Niccolò Machiavelli, dall' Aretino a Bandello o ad Ariosto, fino a Giambattista Basile: fin dalle origini della nostra narrativa gli scrittori attingono felicemente dal crogiuolo della prosa vernacolare, dell'immaginario folklorico e, per dirla con Michail Bachtin, più volte si servono del principio liberatore del Carnevale, per rovesciare il canone e per superare le gerarchie.[15] Una festa del riso, popolata di buffoni, matti, prostitute, streghe, orchi e giganti che abitano nel sottosuolo della letteratura.

 

Uomini come giganti e cinocefali

 

Nel fiume carsico del rovescio narrativo si trovano stranezze inaspettate. I giganti, per esempio, sono parvenze umane grottesche o l'esatto contrario di tutto ciò che rappresenta la misura. Questi uomini deformi vivono nei romanzi cavallereschi antichi, nei racconti fiabeschi e nelle fantasticherie dell'immaginario popolare di tutti i tempi.
Tuttavia anche tra i giganti esistono situazioni rovesciate: ci sono giganti cresciuti bene, altri meno. Secondo Ermanno Cavazzoni (Storia naturale dei giganti, 2007) - che, occupandosi della presenza dei giganti nella letteratura italiana, ritrova in questi esseri il rovescio dell'uomo - tutto dipende dall'educazione. Il gigante classico, infatti, era «orfano, veniva abbandonato tra i sassi, la famiglia non sapeva cos'era, della mamma se la incontrava aveva spavento, il papà era propenso a mangiarli da piccoli». Questi giganti crescevano bene, cioè «sani, rudi, violenti». Tutt'altra cosa per i giganti vissuti in famiglia: «dei bellimbusti che alle prime difficoltà della vita si uccidono, o si fanno uccidere, mentre razzolano in giro fiduciosi come fagiani».[16]
D'altronde anche un celebre gigante francese, Gargantua, ha vissuto un'infanzia libera da costrizioni, prima di conoscere i saggi insegnamenti di Ponocrate.
L'infanzia di Gargantua è descritta in un tripudio linguistico del paradosso e del rovescio: si puliva i denti con uno zoccolo, si lavava le mani nel brodo, «mordeva ridendo, rideva mordendo», «prendeva i fiaschi per fischi», «dopo il dito di faceva prendere il braccio» e ancora: «batteva il ferro a freddo, calcolava a vuoto» e diceva «il paternoster delle scimmie».
Non c'è dubbio che la prossimità dell'uomo con la dimensione irrazionale e animale dà vita alla fusione sincretica di figure archetipiche, come il celebre centauro. Ma il totale rovesciamento dell'uomo in un tipo particolare di bestia è cifra caratterizzante dell'immaginario fantastico dei primi viaggiatori medievali e rinascimentali. E' il caso abbastanza diffuso dei cinocefali.
Iacopo da Sanseverino (Libro piccolo di meraviglie, 1416), ad esempio, racconta di aver visto a Oriente, nella leggendaria terra del Prete Gianni, non solo uomini giganteschi (i giganti) e piccolissimi (i pigmei), ma anche uomini dalle fattezze molto alterate: hanno «uno ochio nella testa, e non ànno punto il collo, e tengono il capo intra le spalle; e quando vogliono volgere il capo, volgono tutta la persona». Scopre anche l'esistenza di «strani uomini» che hanno la testa e i piedi come quelle dei cani: sono crudeli e tra loro «non si intendono». Anche un altro noto viaggiatore, Odorico da Pordenone, racconta di uno strano viaggio in India e in Cina, compiuto tra il 1318 e il 1330. Dopo aver attraversato l'Oceano si imbatte in un'isola di cinocefali, che all'occorrenza diventano anche cannibali.
Nelle fantasticherie dei primi viaggiatori agiscono a diversi livelli simbolici i molti testi classici e medievali che custodivano il mirabile, il meraviglioso, lo straordinario di un mondo ancora tutto da scoprire. La Storia naturale di Plinio, le memorie sulle meraviglie orientali, ispirate alle imprese di Alessandro Magno, ma anche il Libro dei mostri, il Fisiologo o i Bestiari prestavano ai lettori del tempo e agli scrittori più curiosi immagini, informazioni, spunti narrativi.[17]

 

Gli abitanti del sottosuolo

 

Un altro tipico rovesciamento di gerarchie si può ritrovare nella rappresentazione narrativa del mondo clericale. Da Boccaccio a Chaucer, da Bandello a Quevedo: non sono poche le pagine che ritraggono un chierico, un frate o una monaca come persone che si comportano seguendo pulsioni contrarie al ruolo ufficiale.
Lussuriosi, avidi ingordi, ma anche sporchi, maleodoranti e in alcuni casi folli: gli ecclesiastici narrativi lasciano molto a desiderare.
Nelle novelle di Bandello, ad esempio, alcuni chierici non esitano, per motivi insensati naturalmente, a tagliarsi i genitali (Novelle III, 61), che vengono o mangiati per sbaglio da giovani donne troppo ingenue oppure vengono conservati e sepolti da monache, particolarmente devote.[18] È un tipico esempio di deviazione dalla versione ufficiale clericale, che rovescia, ribalta e sovverte la sacralità del corpo, secondo la nota ambivalenza del sacro (sacer, sacro-maledetto).[19]
Nella letteratura picaresca spagnola Quevedo ( Buscon, 1626), si diverte a dipingere una maschera grottesca del chierico che ad una configurazione fisica disorganica (era «lungo come una cerbottana», aveva «occhi sprofondati nella nuca», un «naso un po' africano, un po' francese» e il collo «lungo come quello d'uno struzzo») aggiunge un abbigliamento miserabile, a tratti surreale (sembrava «il lacchè della morte», le sue scarpe «potevano far da sepolcro a un filisteo»).
Un tipo di descrizione, comico-grottesca, basata sull'accumulazione iperbolica e surreale di aggettivi o similitudini, che riguardano il brutto, il ripugnante o l'orroroso. Un'estetica del rovescio o anche del "mondo alla rovescia" che attraversa tutta la letteratura europea, soprattutto tra Quattro e Cinquecento.[20]
Nascosti nei recessi della letteratura italiana, anche i personaggi del sottosuolo novellistico possono emergere in tutta la loro orribile e straordinaria fisicità.

Le insanie dell'eros

 

Si può riconoscere anche un tema (o incubo) ricorrente: il beffardo congiungimento carnale di un uomo giovane con una donna brutta e vecchia, secondo una tradizione di lunga durata che da Plauto giunge a Boccaccio e a Bandello.
Una vecchia serva, ad esempio, può essere sostituita ad una donna bella e irraggiungibile, per disgustare e per allontanare definitivamente un amante importuno. In una novella bandelliana (II, 47), per esempio, la donna offerta con l'inganno si chiama Togna: la sua ripugnanza viene ampliata sulla base della rappresentazione di due celebri serve boccacciane, protagoniste di inopinati intrecci erotici: la Nuta di Guccio Imbratta (Decameron VI, 10) e la Ciutazza del proposto di Fiesole (Decameron VIII, 4).
Togna è «unta e bisunta» e il suo grasso può iperbolicamente ingrassare una «caldaia di cavoli», proprio come Nuta, così «unta e affumicata» da poter condire «il calderon d'Altopascio» (Dec., VI, 10, 21-23). L'orribile serva bandelliana condivide la sua bruttezza non solo con Lanfusa ma, come viene rivelato, supera di settemila volte quella di «Ciutaccia». Bandello sceglie, poi, di aggravare le caratteristiche somatiche del suo personaggio, amplificando retoricamente il dettato boccacciano. Mentre Ciuta «sentiva del guercio, né mai era senza mal d'occhi», Togna non solo è «guercia da un occhio» ma «l'altro occhio di continovo gli colava», e mentre Ciuta aveva la «bocca torta» e «le labbra grosse», Togna aveva «la bocca bavosa, con un fiato puzzolente sovra modo» e, poco dopo, ancora, il narratore ribadisce ancora che aveva «due labroni grossi da schiava e il fiato fieramente le putiva». Il malcapitato, ansioso di possedere la sua bella (di nome Penelope), non si sazia di «basciare e ribasciare senza fine» l'orribile Togna, senza, ovviamente, accorgersi dello scambio: «le basciava il petto e le poppe lunghe e grosse e le ruvide e corte e gonfie mani, tuttavia imaginandosi di basciar madonna Penelope». [21]

 

La speranza di rovesciare se stessi

 

Alla gara disputata tra chi racconta il fatto più grossolano e stupefacente, si iscrive senz'altro Giambattista Basile. Nei suoi racconti fiabeschi l'obiettivo è di stupire, di lasciare tutti a «canne aperte», cioè a bocca aperta, di fare in modo che gli affanni evaporino («se spapurano»), grazie «alle false novità, agli avvisi inventati e alle gazzette d' aria» («nove fauze, avise 'mentate, e gazzette 'n aiero»), che si possono raccogliere in giro, in particolare dai barbieri e nei crocchi dei chiaccheroni.
Ed ecco uscire dal sotterraneo delle fantasie umane il sogno erotico di una vecchia, orribile e smaniosa, che ottiene l'impensabile, l'incredibile.
In un primo tempo inganna, anche se maldestramente, il re e, successivamente, grazie ad un incantesimo, diventa il rovescio di se stessa: cioè, bellissima e giovane.
All'inizio del racconto le vecchie sono due e sono rifugiate, non casualmente, nel sotterraneo del palazzo del re. Le vecchie sorelle sono il «riassunto delle disgrazie» e le loro sembianze sono separate dalla totalità del corpo in un' enumerazione analitica distributivache elenca - è il caso dire 'da capo a piedi' - tutte le singole parti, deformate da una bruttezza materiale e caricaturale quasi iperrealistica. Così all'elenco di capelli, fronte, ciglia, palpebre, occhi, faccia, bocca, petto, spalle, braccia, gambe e piedi si aggiungono aggettivi stranianti in una crescente deformazione fantastica: i capelli sono scarmigliati, le ciglia setolose, le palpebre «ciondoloni», gli occhi scalcagnati, il petto «peloso» fino ad arrivare ai piedi «a uncino».
Le due streghe sono anche intrattabili, vivono isolate e chiuse nella cantina del palazzo, si lamentano per ogni trascurabile rumore del re, che abita sopra le loro teste. Il re ingannato da questi comportamenti, che scambia per altezzosità di donne belle e superbe, comincia a "scaldarsi" come un «ferro nella fornace del desiderio», al punto da convincere una delle vecchiette a passare la notte con lui. La donna più anziana intuisce che il re è confuso, insensato o totalmente incapace; ad ogni modo decide di approfittarne. Tuttavia lo avverte, facendo presente al suo Signore, ottuso e innamorato della sua immaginazione, che sta precipitando nel sotterraneo dei desideri e nel degrado delle gerarchie, dove vivono i personaggi del sottosuolo, e dove sono anche loro: «Signore mio, pocca ve' 'ncrinate de sottomettere a chi ve stace sotta» («poichè vi degnate di mettervi sotto a chi sta sotto di voi») «degnannove de scennere da lo scettro a la canocchia» («e vi degnate di scendere dallo scettro alla conocchia»), «da la sala reiale a na stalla, da li sfuorge a le pettole, da la grandezza a le miserie, dall'astraco alla cantina e da lo cavallo all'aseno, non pozzo non devo né voglio leprecare a la volontate de no re cossì granne» («dalla sala reale a una stalla, dai lussi ai cenci, dalla grandezza alle miserie, dalla soffitta alla cantina e dal cavallo all'asino, non posso, non devo e non voglio fare obiezioni alla volontà di un re così grande»). Il riferimento alla vicina degenerazione di ciò che è alto e nobile (lo scettro, la sala reale, i lussi, la grandezza, la soffitta, il cavallo) nel suo contrario, il basso e il popolare (con la ripetizione di «sottomettere», «sotta», «scennere» ma anche nella concretezza della canocchia, della stalla, dei cenci, delle miserie, della cantina e dell'asino) è assai chiaro.
Lo stolido re, però, non vuole proprio capire: è ad un passo dal rovesciamento del suo desiderio sessuale, tutto rivolto alla morbidezza della pelle, al profumo del corpo di una donna giovane. Si avvera, invece, il rovescio dell'eros ideale, ovvero l'incontro erotico ripugnante.
Con l'artificio di una cosmesi casalinga, la vecchia si tira tutta la pelle cascante dietro le spalle, a formare un nodo di pelle flaccida, tenuta con lo spago. Poi, con la complicità del buio, richiesto come condizione necessaria, si «schiaffaie drinto a lo lietto». Quando il re comincia a palpeggiarla, si accorge del grumo di carne e si rende conto che la donna ha la pelle vecchia e le vesciche, nascoste dietro la «poteca de la negra vecchia». Tuttavia, ottenebrato dalla pulsione sessuale, finge di non badarci («sfarzanno la cosa») e per chiarire meglio il suo sospetto («pe se sacredere meglio de lo fatto»), porta a compimento il suo strano desiderio. Poi, appena la vecchia si addormenta, la illumina con una «lucernetta» e trovata nel letto un' Arpia, una Furia o una Gorgone al posto della donna immaginata, comincia ad agitarsi tutto come un polipo («sbatenno comm'a purpo»). Chiama, infine, i servi a suo soccorso e fa scaraventare la vecchia dalla finestra. Alcune fate di passaggio, che vedono appesa al ramo di un albero quella «malombra», si divertono così tanto che decidono di premiarla: le regalano una seconda vita. Per una «fatazione» la vecchia diventa giovane, bella, ricca, nobile, virtuosa, benvoluta e fortunata. Tutto si trasforma: l'albero a cui è appesa diventa un baldacchino, tutto verde e oro e la vecchia-giovane è circondata da oro e da servitori. Il re, che si era affacciato per vedere la fine della vecchia, si trova di fronte ad un nuovo sogno: la vecchia rinnovata (la «vecchia renovata»).

 

L'uomo è a rovescio

 

La liberazione dall'ossessione del peccato carnale è un argomento tipico del racconto novellistico, fiabesco o romanzesco. Si propaga rapidamente tra diversi generi, assumendo differenti colori e implicazioni, a seconda del contesto in cui viene riutilizzato. All'origine dell'esplosione, estrema o eccessiva, della sfera sessuale vi è, naturalmente, un divieto. Uno dei fondamenti del pensiero cristiano, fin dai primi secoli, riguarda la condanna della nudità e della ostentazione oscena del corpo, che è fonte di peccato e, anche, di eresia.
Già Paolo nella Lettera ai Galati (5, 19-22), nell'offrire un elenco di «opere della carne» (la fornicazione, l'impurità, la dissolutezza e le orge) aggiunge significativamente anche le eresie, come la stregoneria, l'idolatria o le sette.
L'eresia del corpo nudo, dunque, riemerge non solo tra i movimenti ereticali o nelle provocazioni narrative, ma anche tra gli stessi cristiani. Si pensi a Simon Mago (Acta Apost. VIII 9-20)che oltre a voler acquistare col denaro lo Spirito santo, predicava l'uso promiscuo di donne libidinose.[22] Dante, non a caso, punisce i simoniaci buttandoli a rovescio, a testa ingiù: «Fuor de la bocca a ciascun soperchiava/ d'un peccator li piedi e de le gambe/ infino al grosso, e l'altro dentro stava» (Inferno XIX, 22-24).
In certi casi può nascere il sospetto che l'uomo sia stato effettivamente creato a rovescio. Secondo Piero Camporesi «il vizio e il peccato sono gli agenti del rovesciamento antropico».[23] Come esempio di tale rovesciamento lo studioso proponeva anche la lettura del Mondo al roverscio e sossopra (1602) di frate Giacomo Affinati d'Acuto.[24] In questo trattato, dal forte carattere narrativo, l'uomo cristiano viene paragonato ad un albero, che è piantato a rovescio: con la testa conficcata nella terra (e quindi rivolta ai piaceri terreni) e con i piedi rivolti in alto, a calpestare il cielo. Secondo il frate la testa dell'uomo è come la radice di un albero «perciò ha anche in quello gran numero di capelli che son a guisa di tante radichette rivolte verso il cielo», le gambe, le braccia e le dita sono tronchi e rametti, il busto è il tronco centrale e, infine, le mani e i piedi sono le fronde.
Mancano i genitali, che egli riconosce nelle «aperture» del tronco: «i luoghi degli escrementi sono invece di quelle aperture donde escon fuori quegli umori acquatici e vischiosi, la gomma e simili». Insomma l'uomo è un albero tutto sottosopra, che deve essere raddrizzato con un regime medico ed alimentare riformato.[25]
Senza una regola, che limiti la natura rovesciata dell'uomo, possono avverarsi le più disgustose aberrazioni. Il lussurioso, ad esempio, non ha «il capo in cielo» ma, al contrario, è «radicato in fangosa, putrida e verminosa terra di spurcizie carnali» oppure il goloso è come una pianta «tutta adunca» che ha la testa nella pignatta, i piedi in cucina, il cuore nello spiedo e le mani sulla mensa.

 

Ricordare per dimenticare

 

Secondo Elias Canetti nei libri che ricordiamo c'è la sostanza di quelli che abbiamo dimenticato. Tra i prelievi testuali qui assemblati, dunque, restano molti spazi bianchi, che ogni lettore potrà a suo piacimento riempire. Nello scavo del rovescio del racconto è il mondo sotterraneo ad essere lentamente scoperto. E' il mondo preferito delle fiabe, il luogo dove si nascondono i tesori, dove si custodiscono le fantasie e in cui il lettore si rifugia volentieri per dimenticare, in parte, ciò che ha vissuto.

 

Note:


[1] Fondamentale: G. Genette, Figure III. Discorso del racconto. Torino, Einaudi, 1976, pp. 286 e 287.

[2] G. Celati, Angelica che fugge. Una lettura dell'Orlando Furioso in «Griseldaonline», numero 3, 2003-2004 (http://www.griseldaonline.it/percorsi/3celati.htm)

[3] G. Celati, Lo spirito della novella in Griseldaonline. Una rivista letteraria nell'era digitale, a cura di E. Menetti, Bologna, Archetipolibri, 2008.

[4] Cfr. Th.G. Pavel, Mondi di invenzione. Realtà e immaginario narrativo, Torino, Einaudi, 1992. M.Lavagetto, La cicatrice di Montaigne: sulla bugia in letteratura, Torino, Einaudi, 2002. Sul romanzo contemporaneo si veda: S. Calabrese, www.letteratura.global: il racconto dopo il postmoderno, Torino, Einaudi, 2005.

[5] J.L. Borges, Sette notti, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 16.

[6] Così S. Calabrese, Il romanzo, in Le immagini della critica. Conversazioni di teoria letteraria, a cura di Ugo M. Olivieri, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 124.

[7] Si vedano: Dal primato allo scacco. I modelli narrativi italiani tra Trecento e Seicento, a cura di G.M. Anselmi, Roma, Carocci, 1998; Favole, parabole, istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, cit.

[8] Sulle tangenze tra la novellistica e la prosa sermocinale è di riferimento: Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI, a cura di G. Auzzas, G. Baffetti, C. Delcorno, Firenze, Olschki, 2003. Si vedano anche: S.S. Nigro, Le brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra Quattrocento e Cinquecento, Bari, Laterza, 1983; C. Delcorno, Exemplum e letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1989; L. Battaglia Ricci, "Una novella per esempio". Novellistica, omiletica e trattatistica nel primo Trecento, in Favole, parabole, istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di Pisa 26-28 ottobre 1998, a cura di G. Albanese, L. Battaglia Ricci, R. Bessi, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 31-53.

[9] Fondamentale resta: G. Mazzacurati, All'ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M. Palumbo, La Nuova Italia, Firenze, 1996. Per gli aspetti fantastici del Decameron mi permetto di rinviare al mio: Il Decameron fantastico, Bologna, Clueb, 1994.

[10] Per la complessità della questione della verità del racconto per le origini della letteratura italiana si vedano: M. Palumbo, Finzione e verità del racconto in La letteratura e la storia. Atti del IX Congresso Nazionale dell'ADI. Bologna-Rimini 21-24 settembre 2005, a cura di E. Menetti e C. Varotti, Bologna, Gedit Edizioni, 2007, pp. 207-223; E. Menetti, Il mirabile e il vero nella novella italiana, in La letteratura e la storia, cit., pp. 435-444; Autori e lettori di Boccaccio. Atti del Convegno Internazionale di Certaldo (20-22 settembre 2001) a cura di M. Picone, Firenze, Franco Cesati Editore, 2002; Introduzione al Decameron, a cura di M. Picone e M. Mesirca, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004.

[11] Per la poetica del verosimile nella novella e in Bandello mi permetto di rinviare al mio: Enormi e disoneste: le novelle di Matteo Bandello, Roma, Carocci, 2005.

[12] Cfr. A. Berardinelli, L'incontro con la realtà, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, Le forme, vol. 2, Torino, Einaudi, 2002. Per il romanzo si veda ancora: S. Calabrese, Il romanzo, in Le immagini della critica, cit.; F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi, 2007.

[13] Sulla narrazione araba rimando a Ida Zilio-Grandi nel comune saggio: Elisabetta Menetti, Ida Zilio Grandi, Alle origini del racconto. Narrare storie tra Oriente e Occidente, in Mappe della letteratura europea. I Dalle origini al Don Chisciotte, a cura di Gian Mario Anselmi, Introduzione di Antonio Prete, Milano, Bruno Mondadori, 2000.

[14] Per una divertente galleria della bruttezza: Storia della bruttezza, a cura di Umberto Eco, Milano, Bompiani, 2007.

[15] M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979.

[16] Ermanno Cavazzoni, Storia naturale dei giganti, Parma, Ugo Guanda, 2007, p. 96

[17] Si veda: M. Guglielminetti, Introduzione in Libro piccolo di meraviglie di Jacopo da Sanseverino, Milano, Serra e Riva Editori, 1985.

[18] Cfr. E. Menetti, Enormi e disoneste, cit., pp. 156.

[19] Naturalmente: S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, p. 162, Id., Totem e tabù e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri 1980. Ma sul mitolegema scientifico dell'ambivalenza del sacro è fondamentale: G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 2005.

[20] E. Menetti, Il mondo alla rovescia nel Cinquecento in Mappe della letteratura europea. I Dalle origini al Don Chisciotte, a cura di Gian Mario Anselmi, Introduzione di Antonio Prete, Milano, Bruno Mondadori, 2000.

[21] Su questo aspetto mi permetto di rinviare ad un'analisi più approfondita: E. Menetti, Il Decameron e le Novelle di Bandello: riusi e variazioni in «Studi sul Boccaccio», vol XXXIV, 2006.

[22] Su questo argomento si veda il saggio di F. Alfieri, Il corpo del rifiuto tra eresia e ortodossia in Griseldaonline. Una rivista letteraria nell'era digitale, cit. Ma anche nel numero VI della rivista, con i link di approfondimento: http://www.griseldaonline.it/percorsi/6alfieri.htm

[23] P. Camporesi, La carne impassibile. Salvezza e salute tra Medioevo e Controriforma, Milano, Garzanti, 1994, p. 84

[24] Già studiato, come cita Camporesi, da M.L. Launay in Le monde renversé sans dessu-dessous in L'image du monde renversé et ses rapreséntations littéraires et para-littéraires de la fin du XVI siecle au milieu du XVII, Paris, Vrin, 1979.

[25] Ibidem