di Alberto Arcuri, Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Bologna [2 ottobre 2024]
Pubblicato il 02 ottobre 2024 | contributi
Che da qualche tempo la crisi sia tornata ad essere il centro del discorso sullo Stato è cosa risaputa, avendo aperto lo spazio a un filone di studi molto noto che, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, vedendo il suo potere dissolversi nello spazio globale, ha contribuito a caratterizzare il presente come il tempo della de-statalizzazione. Le tappe di questo percorso sono state ricostruite in modo ormai piuttosto definito e hanno coinciso con una serie di decisioni che, senza toccare la formale titolarità dell’autorità politica sul “suo” territorio, hanno esposto in modo via via più incisivo lo Stato alla necessità di doversi finanziare sul mercato finanziario globale, che a sua volta è legata alla capacità di guadagnare e mantenere la fiducia dei soggetti (parimenti “globali”) che in esso operano (dunque fuori dal suo controllo).
Il rating sovrano si inserisce negli ingranaggi di questo meccanismo: convertendo in una grandezza “oggettivizzata”, e comunicata globalmente, la probabilità che uno Stato sia in grado di rispettare (puntualmente e interamente) i propri obblighi finanziari alle scadenze stabilite, contribuisce fattivamente alla determinazione della “fiducia” che i mercati ripongono nei suoi confronti. Il processo che si realizza è molto semplice: una valutazione positiva, contribuendo a far percepire come affidabile uno Stato, determina l’aumento della domanda dei suoi titoli (con conseguente calo degli interessi) così come, al contrario, uno scarso livello di affidabilità determina una bassa domanda di acquisto (e, per conseguenza un maggiore costo in termini di pagamento degli interessi).
Ecco spiegato, tra le altre cose, il presupposto della capacità prescrittiva assunta dalle determinazioni delle agenzie di rating: soggetti capaci (come hanno più volte dimostrato) di condizionare la capacità dello Stato “debitore” di finanziare le politiche pubbliche e, quindi, le sue scelte economiche. Per finanziarsi sul mercato (attraverso l’emissione di titoli di credito) serve infatti la “fiducia dei mercati” che, determinando la domanda di titoli, definisce non solo la quantità di denaro che si riesce ad ottenere, ma anche il “costo” che deve essere sostenuto nel pagamento degli interessi (tanto più alta è la domanda di acquisto dei titoli, tanto minori saranno gli interessi pagati alla scadenza così come, al contrario, una minore domanda di titoli determina l’aumento degli interessi da pagare alla scadenza). E non è difficile vedere, come, la capacità prescrittiva del rating agisce ben oltre le singole scelte di risparmiatori e investitori, instaurando un meccanismo di pressione costante sugli organi politici dello Stato, orientandone l’attività di governo. In modo diretto e immediato, certamente, laddove contribuisce a definire i tassi d’interesse dei titoli, ma anche in modo indiretto e strutturale, nella misura in cui inietta nel sistema (tramite gli organi politici alla ricerca del loro favore) uno stimolo costante per elaborare policies rispondenti ai criteri valutativi utilizzati per l’elaborazione del rating.
Le agenzie di rating sono diventate in questo modo gli attori del mercato globale forse più noti al grande pubblico, anche se oggi la fama che le aveva circondate non più tardi di una decina d’anni fa (contestualmente alla crisi economica del 2008-2010, e per il ruolo che avevano avuto in quella vicenda) sembra declinare. Si tratta, in estrema sintesi, di società private che si occupano di fornire valutazioni sull’affidabilità dei soggetti che operano nel mercato finanziario e, quindi, sulla loro capacità di pagare, alla scadenza, i titoli che emettono. È quello che gli anglosassoni chiamano credit rating: una valutazione sintetica, espressa attraverso simboli alfa-numerici collocati su una scala prestabilita, della capacità di un emittente di “pagare” le proprie obbligazioni (c.d. issuer rating) o sulla “rischiosità” di un determinato strumento finanziario (c.d. issue rating). Attualmente esistono diverse agenzie, ma quelle chiamate “tre sorelle” o “big three” (Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch rating), dominano un mercato che ha a tutti gli effetti la fisionomia di un oligopolio globale.
Il rating sovrano ha più o meno le stesse caratteristiche del credit rating generale ed è saldamente nelle mani del medesimo oligopolio. Si tratta però, evidentemente, di un “pezzo” molto peculiare di quel mondo, rivolgendosi nientemeno che agli Stati (e rivolgendo la valutazione alla loro situazione economica, politica e istituzionale).
La causa del condizionamento esercitato dal rating sovrano sul potere degli Stati è stata a lungo ricondotta alle (quanto meno opinabili) scelte politiche e normative compiute, dagli anni ’30 del secolo scorso in avanti, prima dall’ordinamento statunitense e poi, per travaso, nel continente europeo. Tale fondamento, però, potrebbe avere un radicamento perfino più profondo e, quindi, più problematico, in quanto eccedente il piano del diritto positivo. Un fondamento che parrebbe legarsi, tra le altre cose, alla capacità retorico-persuasiva custodita dalla natura tecnica e dall’aspetto esteriore della valutazione. La capacità di condensare ed esprimere attraverso una modalità de-specializzata e intellegibile senza necessità di ulteriori intermediazioni un articolata sequenza di dati tecnici potrebbe aver contribuito, non meno significativamente, a ri-configurare (nei fatti) in senso “normativo” una valutazione che, in teoria, si presenta come tecnica e descrittiva (in una parola: neutrale). Così, se è certo che l’esistenza di quella che è stata chiamata la rating-based regulation produce riflessi economici, nella misura in cui la valutazione positiva consente o favorisce l'inserimento di un titolo nei portafogli di istituti bancari e assicurazioni, al contempo la posizione di potere assunta dalle agenzie si è alimenta della capacità persuasiva che il rating ha derivato da una legittimazione “morale”, che ha trovato nel simbolo la sua sublimazione.
Una prova non trascurabile di questo convincimento si trova nella storia di indicatori molto simili al rating sovrano (nel significato e nell’aspetto) che hanno assunto una rilevanza assolutamente paragonabile pur senza essere mai stati incorporati nel diritto positivo (rimanendo dunque nella dimensione extra-giuridica). Il caso più eclatante è quello del Doing Business’ Reports (DB), prodotto dalla Banca mondiale a partire dal 2003 che si occupa di misurare e classificare l’attitudine pro-business dei sistemi giuridici del mondo. Una esperienza che si è interrotta nel 2021 (ma che ora tornerà alla vita), e che però, fintanto che ha operato, è riuscita a penetrare profondamente nell’agenda politica degli Stati, stimolando la ristrutturazione di interi settori degli ordinamenti statuali.
Esiste cioè un pezzo della storia che rischia di essere persa di vista guardando il problema solo dal piano del diritto positivo. Un pezzo che riguarda la situazione di “potere” che deriva dalla capacità di plasmare indicatori “globali” e di fondare le “prescrizioni implicite” che essi veicolano su una forza persuasiva di tipo tecnocratico e che, pur operando per lo più al di fuori delle categorie usate dalla scienza giuridica, non può continuare ad essere trascurata (così come, salvo casi eccezionali, è stato fino ad ora) dalla dottrina costituzionalistica.