Sono giovani studenti, per certi versi esattamente come tanti altri coetanei con i quali ogni giorno condividono non solo le aule universitarie, ma anche progetti, aspirazioni per il futuro, difficoltà e paure. Allo stesso tempo il loro vissuto li ha resi, loro malgrado, speciali: Biniam, Awet, Hadish, Sami e Yohannes, sono cinque ragazzi scappati dalla dittatura in Eritrea che, grazie alla loro dedizione allo studio e al progetto UNI-CO-RE, potranno continuare la loro formazione universitaria presso l’ateneo più antico d’Occidente.
I cinque ragazzi sono infatti i primi a beneficiare dei nuovi corridoi universitari aperti dall’Università di Bologna, assieme ad un’importante rete di partner, che accoglierà studenti rifugiati già laureati alla triennale e che vogliano proseguire la propria carriera accademica nel capoluogo emiliano. Accolti da Er.Go., l’azienda regionale per il diritto allo studio, nelle proprie residenze universitarie, e seguiti da Next Generation Italy nelle pratiche burocratiche e nella vita quotidiana, ai ragazzi sono inoltre state assegnate delle famiglie ponte, per agevolare la loro integrazione nel loro nuovo paese e in città. A fornire assistenza e aiuto sono inoltre anche l’Arcidiocesi, Federmanager, il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Caritas Italiana, Gandhi Charity e Manageritalia Emilia-Romagna.
Nonostante la rete di solidarietà e protezione formatasi attorno a questi giovani, l’aspettativa, entrando nell’alloggio studentesco dato loro a disposizione, è quella di trovarsi di fronte a persone ferite dalla vita, che vedono in questa opportunità principalmente una via di fuga da una condizione tutt’altro che agiata. Si viene invece accolti da perfetti padroni di casa che, tra caffè allo zenzero e un vassoio di frutta secca e stuzzichini, creano subito una piacevole sensazione di ‘casa’ e condividono sì storie difficili, ma piene di umanità, speranza, e voglia di libertà. Libertà, soprattutto, di scegliere il proprio futuro.
“In Eritrea, conclusa la scuola dell’obbligo, chi è bravo ed ha buoni voti, può proseguire. Tutti gli altri invece diventano soldati. Ragazzi e ragazze, senza distinzioni,” racconta Yohannes. E se invece si è abbastanza bravi da poter studiare ancora? “Puoi farlo, ma una volta laureato, sarà lo Stato a decidere cosa dovrai fare, è quasi sempre non avrà nessun collegamento con le tue competenze o passioni. Lo Stato ti toglie ogni volontà, soffoca ogni idea. È per questo che siamo scappati, per poter scegliere e poter fare qualcosa di concreto, un giorno, quando le cose cambieranno.”
La volontà di tornare un giorno a casa, dove hanno lasciato le loro famiglie, è forte e quasi tangibile. “Nessuno scappa dall’Eritrea con la propria famiglia,” chiariscono i ragazzi, scambiandosi occhiate complici di chi sa e conosce, perché l’ha vissuto. E ti raccontano di un paese martoriato, il loro, dove l’unico sogno ancora intatto è quello di far fuggire i propri figli. “Se ne vanno tutti, appena sono abbastanza grandi per poter badare a loro stessi.” Scappano verso l’Etiopia, paese ancora molto accogliente verso i rifugiati dove questi però non hanno il diritto di lavorare, e verso un sogno più grande, chiamato Europa.
Ci viene naturale chiedere come si possa sopravvivere, da soli, in un campo profughi dove non hai nulla, nemmeno il permesso di guadagnarti da vivere. “Le associazioni umanitarie distribuiscono un po’ di cibo, e se qualcuno ha la fortuna di avere un parente in Europa, ogni tanto riceve dei soldi. Ecco, si vive soprattutto della condivisione di quelle piccole somme,” spiega Awet. La condivisione, tema portante di molti racconti dei ragazzi, è anche alla base della fortunata serie di eventi che li ha portati in Italia. “Abbiamo scoperto che c’era questa possibilità e subito abbiamo creato gruppi su internet per condividere il link al bando. Non ci sembrava vero potesse esistere un’opportunità del genere, ma valeva la pena provare.”
E quando chiedi quale è stata la loro reazione nel momento in cui sono stati selezionati, la risposta è nuovamente un po’ diversa da quello che ti aspetti. “Non ci credevamo, fino alla fine. Non perché non credessimo all’esistenza del progetto, ma perché potevano andare storte troppe cose. Il visto, infatti, ci è arrivato solo due giorni prima di partire,” racconta Biniam, sorridendo al ricordo di quei giorni incerti.
A ben guardare, i ragazzi sorridono molto, sorridono sempre. Perché secondo loro l’opportunità che hanno avuto è troppo grande per pensare a ciò che non è andato bene nelle loro vite, per fermarsi a contare le cose che non hanno avuto. Non sarebbe giusto nei confronti di chi invece è rimasto al campo profughi. “C’erano ragazzi molto bravi, amici, che magari si sono laureati un po’ prima di quanto previsto dal bando, oppure si devono ancora laureare. E sono rimasti lì per qualcosa di cui non hanno colpa. Noi abbiamo avuto fortuna, possiamo solo essere molto grati e lavorare sodo per non sprecare tutto questo,” raccontano con un velo di rammarico che la possibilità data a loro sia venuta meno ad altri.
Il riscatto personale dei giovani di un’intera nazione come l’Eritrea, passa così dal diritto allo studio e dall’opportunità di sviluppare le proprie inclinazioni e interessi personali. “È importante che gli altri ragazzi, specialmente quelli più giovani che si trovano adesso a vivere le nostre stesse esperienze, vedano in noi un esempio e capiscano che solo studiando, migliorando sé stessi e diventando utili alla società, si possono cambiare le cose. Per sé, le proprie famiglie e il proprio paese,” aggiunge Sami.
Ma cosa studieranno, nello specifico, i cinque ragazzi di UNI-CO-RE all’Università di Bologna? Ingegneria elettronica e dell'automazione, intelligenza artificiale ed economia. Percorsi difficili, non c’è dubbio, ma di certo questi studenti speciali hanno avuto modo di dimostrare che la loro determinazione e voglia di imparare possono portarli lontano. Letteralmente.