Guida alla lettura: il glossario contiene un elenco di parole chiave per la comprensione “costituzionale” della questione ambientale. Al suo interno si trovano parole diverse: parole di uso comune, nozioni della riflessione teorica, situazioni giuridiche soggettive (diritti e doveri), principi giuridici, talvolta di rilevanza costituzionale, ma anche nomi propri dei documenti normativi che hanno rappresentato i passaggi fondamentali dell’ambientalismo moderno.
Per conferire unità glossario tutte queste parole sono riportate in maniera uniforme e continua. Quando necessario, però, è stato indicato tra parentesi il particolare ambito semantico cui, di volta in volta, ci si è riferiti.
Il costituzionalismo ambientale è un’evoluzione del diritto costituzionale che riconosce la tutela dell’ambiente come principio fondamentale degli ordinamenti giuridici, rispondendo alla crescente consapevolezza dell’emergenza ecologica globale. A partire dagli ultimi decenni del Novecento, il numero di Costituzioni che includono disposizioni ambientali è aumentato significativamente, passando da poco più di 40 nel 1989 a oltre 150 oggi, coprendo più di tre quarti degli Stati membri delle Nazioni Unite. Questo fenomeno è stato favorito dall’accresciuta sensibilità pubblica e dalla necessità di normative efficaci per contrastare i rischi ambientali globali, accentuati dall’impronta ecologica del modello politico-economico occidentale e dai cambiamenti climatici.
L’evoluzione del costituzionalismo ambientale ha seguito una traiettoria che va dall’inclusione marginale della tutela dell’ambiente nei testi costituzionali alla sua centralità come principio strutturale. In una prospettiva storica, le prime costituzioni a introdurre esplicite disposizioni ambientali risalgono agli anni Settanta, come quelle di Grecia, Portogallo, Spagna e India. È solo negli anni Novanta, tuttavia, che la costituzionalizzazione dell’ambiente ha registrato un’accelerazione, culminata nella Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, che ha sancito la tutela ambientale come priorità politica globale. Alcuni ordinamenti, come quelli di Ecuador e Bolivia, hanno ulteriormente radicalizzato questa tendenza, ponendo il rapporto tra uomo e natura al centro dell’intero assetto costituzionale.
L’analisi comparata permette di classificare le costituzioni in tre categorie:
(1) Costituzioni ambientali, nate con una forte caratterizzazione in senso ecologico;
(2) Costituzioni revisionate, che hanno incorporato articoli ambientali successivamente alla loro adozione, come quelle di Francia, Germania e Italia;
(3) Costituzioni prive di norme esplicite sull’ambiente, in cui la tutela ecologica si afferma attraverso la legislazione ordinaria e la giurisprudenza delle corti supreme o costituzionali, come nel caso di Stati Uniti, Canada, Australia e Regno Unito.
A livello geografico, l’impulso maggiore a questa trasformazione proviene dal cosiddetto Sud del mondo, dove la percezione più immediata dei rischi ambientali ha portato a riconoscere la sostenibilità non solo come vincolo dello sviluppo economico, ma come fondamento stesso dell’ordinamento giuridico.
Il costituzionalismo ambientale si configura così come una risposta normativa alla crisi ecologica globale, superando l’approccio settoriale del diritto ambientale tradizionale per strutturare la protezione dell’ambiente in termini costituzionali. Questa evoluzione implica non solo la definizione di principi e diritti ambientali, ma anche l’attribuzione di obblighi concreti agli Stati e ai cittadini, con la prospettiva di garantire un equilibrio sostenibile tra sviluppo economico e tutela ecologica nel lungo periodo. In Italia, la riforma costituzionale del 2022 ha sancito l’inserimento della tutela ambientale nella Costituzione, aggiungendo un terzo comma all’art. 9 Cost. nel quale si sancisce la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La tutela dell’ambiente viene introdotta anche nell’art. 41 Cost.: la riforma costituzionale aggiunge nel secondo comma un nuovo limite stabilendosi che l’iniziativa economica privata non debba recare danno alla salute e all’ambiente e prevede nel terzo capoverso che la legge debba determinare i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata (anche) a fini ambientali.
Il principio del "non arrecare un danno significativo" all’ambiente (DNSH - Do No Significant Harm) è stato introdotto per bilanciare lo sviluppo economico con la protezione dell’ecosistema, garantendo che gli investimenti non compromettano le risorse naturali. A tal fine, il Regolamento (UE) 241/2021, che istituisce il Dispositivo di Ripresa e Resilienza, stabilisce che solo le misure conformi al principio DNSH possano essere finanziate nei Piani nazionali.
Questo principio è stato introdotto dal Regolamento (UE) 2020/852, noto come “Regolamento Tassonomia”. La Tassonomia europea delle attività sostenibili, definita dal Regolamento UE 2020/852, rappresenta un passo decisivo nelle politiche europee per la finanza sostenibile. Essa fissa criteri quantitativi e qualitativi per valutare il contributo delle attività economiche agli obiettivi di sostenibilità:
1) mitigazione dei cambiamenti climatici;
2) adattamento ai cambiamenti climatici;
3) uso sostenibile e protezione delle acque e delle risorse marine;
4) transizione verso un’economia circolare;
5) prevenzione e riduzione dell’inquinamento;
6) protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.
Il concetto di tassonomia delle attività economiche sostenibili indica una classificazione delle attività economiche in base al loro impatto su sei obiettivi ambientali. L’articolo 17 del Regolamento Tassonomia specifica che «un’attività economica arreca un danno significativo:
a) alla mitigazione dei cambiamenti climatici, se l’attività conduce a significative emissioni di gas a effetto serra;
b) all’adattamento ai cambiamenti climatici, se l’attività conduce a un peggioramento degli effetti negativi del clima attuale e del clima futuro previsto su sé stessa o sulle persone, sulla natura o sugli attivi;
c) all’uso sostenibile e alla protezione delle acque e delle risorse marine, se l’attività nuoce:
i) al buono stato o al buon potenziale ecologico di corpi idrici, comprese le acque di superficie e sotterranee; o
ii) al buono stato ecologico delle acque marine;
d) all’economia circolare, compresi la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti, se:
i) l’attività conduce a inefficienze significative nell’uso dei materiali o nell’uso diretto o indiretto di risorse naturali quali le fonti energetiche non rinnovabili, le materie prime, le risorse idriche e il suolo, in una o più fasi del ciclo di vita dei prodotti, anche in termini di durabilità, riparabilità, possibilità di miglioramento, riutilizzabilità o riciclabilità dei prodotti;
ii) l’attività comporta un aumento significativo della produzione, dell’incenerimento o dello smaltimento dei rifiuti, ad eccezione dell’incenerimento di rifiuti pericolosi non riciclabili; o
iii) lo smaltimento a lungo termine dei rifiuti potrebbe causare un danno significativo e a lungo termine all’ambiente;
e) alla prevenzione e alla riduzione dell’inquinamento, se l’attività comporta un aumento significativo delle emissioni di sostanze inquinanti nell’aria, nell’acqua o nel suolo rispetto alla situazione esistente prima del suo avvio; o
f) alla protezione e al ripristino della biodiversità e degli ecosistemi, se l’attività:
i) nuoce in misura significativa alla buona condizione e alla resilienza degli ecosistemi; o
ii) nuoce allo stato di conservazione degli habitat e delle specie, comprese quelli di interesse per l’Unione. Il principio DNSH è applicato anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che dettaglia gli interventi finanziati dal programma Next Generation EU, un fondo da 750 miliardi di euro per la ripresa economica post-COVID-19. Il PNRR promuove progetti in linea con il Green Deal europeo e altri accordi internazionali sulla sostenibilità, rendendo essenziale il rispetto del principio DNSH. Ciò comporta una valutazione rigorosa per assicurare che gli interventi non compromettano gli obiettivi ambientali definiti dal Regolamento UE 2020/852».
La Circolare del MISE n. 120820 del 28 marzo 2022 stabilisce i criteri per verificare la conformità al principio DNSH. La valutazione si basa su:
- l’esclusione di settori specifici dal PNRR (es. estrazione di carbone, minerali metalliferi, trattamento di rifiuti pericolosi);
- la soglia di investimento, con criteri di valutazione differenziati per progetti superiori ai 10 milioni di euro;
- la relazione di sostenibilità, in cui le imprese devono fornire informazioni sugli impatti ambientali in base alla soglia di investimento e al regime valutativo applicabile;
- elementi di prova come valutazioni ambientali, certificazioni (EMAS, UNI EN ISO 14001, Ecolabel) e asseverazioni di esperti.
Il principio DNSH assume un ruolo centrale nelle politiche di incentivazione e finanziamento a livello europeo e nazionale. Un esempio è il "Decreto direttoriale - Investimenti sostenibili 4.0", che sostiene investimenti innovativi e sostenibili per rilanciare l’economia post-Covid e rafforzare la competitività. Per accedere agli incentivi previsti, le imprese devono dimostrare il rispetto del principio DNSH.
In un contesto in cui diventa sempre più importante misurare e comunicare l’impatto ambientale, economico e sociale delle attività produttive, la conformità al principio DNSH viene valutata con il metodo LCA (Life Cycle Assessment). Questo approccio analizza il ciclo di vita di prodotti, processi e servizi, dal loro sviluppo fino allo smaltimento (cradle-to-grave), per determinare eventuali danni significativi all’ambiente
Per generazioni future si intende l’insieme degli individui che ancora non esistono ma i cui interessi, a fronte dell’adozione di specifiche politiche, possono rilevare ai fini del ragionamento giuridico. Più nello specifico, l’idea di offrire forme di tutela a vantaggio di chi esisterà è stata spesso ricondotta al perimetro del principio di sostenibilità, il quale però trova, come è noto, applicazione in ambiti distinti, per quanto, a volte, comunicanti. Per esempio, se si assume la prospettiva della Costituzione italiana, il concetto di sostenibilità ha originariamente trovato affermazione con riferimento alla politica economica e, in particolare, in materia di equilibrio di bilancio, facendo la sua apparizione, all’interno dell’art. 97 Cost., in seguito alla revisione del 2012. In questa direzione, sono molteplici le sentenze della Corte costituzionale che, ricorrendo al combinato disposto degli artt. 81-97 Cost., ha dichiarato l’illegittimità di disposizioni legislative richiamando il necessario rispetto del principio di equità intra e inter-generazionale.
A livello internazionale ed europeo, invece, il principio di sostenibilità, e dunque l’esigenza di esprimere garanzie a vantaggio delle generazioni future, ha trovato cittadinanza soprattutto nell’ambito degli strumenti adottati in materia di salvaguardia dell’ambiente; anzi, può affermarsi che la costruzione di tali strumenti si è mossa di pari passo con l’idea che il decisore politico debba tener conto di chi ancora non esiste al momento di formulare le sue politiche. Ciò lo si evince, in particolare, a partire dalla Dichiarazione di Stoccolma (1972), dal Rapporto Brundtland (1987) e dalla Dichiarazione di Rio (1992), che fornì la base per la firma dell’Accordo sul clima.
Di pari passo, ambiente e generazioni future trovano uno spazio importante nei Trattati istitutivi dell’Unione europea. L’ordinamento italiano, naturalmente, non è rimasto estraneo a queste evoluzioni. Ciò è avvenuto prima in via giurisprudenziale, dove la Corte costituzionale, in assenza di un riferimento espresso all’ambiente nella formulazione originaria della Carta, ne ha definito la copertura costituzionale, spesso evidenziando come quest’ultima fosse da garantire anche a vantaggio delle generazioni future. In seguito, l’idea che l’ambiente sia un bene che si caratterizza intrinsecamente per un valore intergenerazionale ha accompagnato la modifica dell’art. 9 Cost. nel 2022, dove il revisore ha scelto di inserire un espresso riferimento alle future generazioni.
Il concetto di paesaggio si riferisce all’insieme degli elementi naturali e antropici che caratterizzano un territorio, il cui valore può essere culturale, estetico, ambientale e identitario. Un primo quadro normativo fu introdotto con la legge 11 giugno 1922, n. 778 (c.d. “legge Croce”), che riconosceva il paesaggio come espressione dell’anima nazionale, collegando la tutela delle bellezze naturali a quella del patrimonio storico e artistico. La successiva legge n. 1497/1939 (c.d. “legge Bottai”) confermò questa impostazione, definendo il paesaggio come un insieme di beni naturali di eccezionale bellezza, assimilabili alle opere d’arte.
Con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, il paesaggio assunse un rilievo costituzionale. L’art. 9 Cost., al secondo comma, affida alla Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, ampliandone la protezione rispetto alla normativa previgente. La tutela si estese all’intero patrimonio naturale, distinguendo il paesaggio dal patrimonio storico-artistico e attribuendo ai poteri pubblici un ruolo attivo nella sua conservazione e valorizzazione.
La legge n. 431/1985 (c.d. “Legge Galasso”) introdusse un ulteriore sviluppo, stabilendo che determinati beni naturali (come boschi, fiumi e laghi) fossero tutelati a prescindere dal loro valore estetico. Inoltre, impose alle Regioni l’obbligo di adottare piani paesaggistici o urbanistico-territoriali con specifiche disposizioni per la valorizzazione del paesaggio.
La nozione di paesaggio è stata nuovamente rimaneggiata con il d. lgs. n. 42/2004, il c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio (o Codice Urbani) entrato in vigore il 1° maggio 2004. Esso qualifica all’art. 131 il paesaggio come «il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni». Il Codice stabilisce anche i criteri per la protezione e la valorizzazione del paesaggio, prevedendo strumenti specifici come i piani paesaggistici, i vincoli di tutela e le autorizzazioni necessarie per interventi in aree soggette a protezione.
La disciplina paesaggistica si integra strettamente con la pianificazione territoriale e urbanistica, con l’obiettivo di garantire uno sviluppo armonioso del territorio, preservando le caratteristiche estetiche e ambientali e impedendo la trasformazione incontrollata del paesaggio.
Oltre alla normativa nazionale, il paesaggio è oggetto di tutela a livello sovranazionale. La Convenzione Europea del Paesaggio, adottata a Firenze nel 2000 e ratificata dall’Italia con la legge n. 14/2006, introduce una visione innovativa della tutela paesaggistica. Essa supera la concezione tradizionale che limitava la protezione ai soli paesaggi di eccezionale valore, estendendola a tutti i paesaggi, compresi quelli urbani, agricoli e industriali, riconoscendone il ruolo fondamentale per la qualità della vita e l’identità culturale.
Un approccio simile emerge nella Carta Nazionale del Paesaggio del 2018, redatta su iniziativa del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e dall’Osservatorio Nazionale per la Qualità del Paesaggio. La Carta descrive i paesaggi italiani come elementi fondamentali dell’identità territoriale e collettiva, custodi della storia e della vita delle comunità. Per questo motivo, di fronte a fenomeni come l’abusivismo edilizio, la cementificazione delle coste e il consumo eccessivo di suolo, diventa essenziale adottare politiche che considerino il paesaggio non solo come un patrimonio da preservare, ma anche come un fattore chiave per lo sviluppo, la coesione sociale e il benessere collettivo.
In ambito internazionale, la tutela del paesaggio è promossa anche dall’UNESCO attraverso il concetto di Paesaggi Culturali, riconosciuti come patrimonio mondiale quando rappresentano un’interazione significativa tra uomo e natura.
Il concetto di paesaggio è sempre più connesso ai principi di sostenibilità e resilienza territoriale poiché la tutela non si limita alla mera conservazione, ma implica una gestione dinamica che concili la protezione dei valori naturali e culturali con lo sviluppo economico e sociale. Questo approccio integrato è alla base di strategie come il Green Deal europeo, che promuove la transizione ecologica, la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione urbana in armonia con il contesto paesaggistico.
La tutela del paesaggio si realizza attraverso strumenti normativi e amministrativi, tra cui:
- piani Paesaggistici Regionali (PPR), che regolano la conservazione e valorizzazione del territorio;
- vincoli paesaggistici, che limitano interventi su aree di particolare pregio;
- autorizzazioni paesaggistiche, necessarie per progetti in aree vincolate;
- valutazione di impatto ambientale (VIA) e valutazione ambientale strategica (VAS), che garantiscono uno sviluppo sostenibile del territorio.
Il paesaggio, quindi, non è solo un elemento da preservare, ma un fattore chiave per il benessere delle comunità, la qualità della vita e la competitività dei territori, richiedendo una costante valutazione dell’impatto delle attività umane attraverso strumenti normativi e scientifici avanzati.
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