Byung-Chul Han "Del vuoto. Sulla cultura e la filosofia dell’Estremo Oriente"

Recensione di Chiara Fiorentino

Del vuoto, Sulla cultura e la filosofia dell’Estremo Oriente, pubblicata nel 2024 dalla casa editrice Nottetempo, è un’opera in cui Byung-Chul Han, proponendo un percorso tra filosofia e religione, intende presentare la cultura del vuoto, che, invece di soffermarsi sulla cosalità, tesse le lodi della transitorietà e dell’assenza di forma. 

Continuando il discorso già affrontato in Vita Contemplativa o dell’inazione (Byung-Chul Han, 2023) – ove si affronta il tema dell’inazione, che permette l’evasione dalla progettualità e apre le porte alla contemplazione –, nel libro qui recensito, l’autore desidera rimarcare l’importanza dell’ascolto e della quiete. Difatti, solo disponendo il proprio animo a un silenzio recettivo, si può riconoscere nel suo polimorfismo il flusso omnicomprensivo in cui transitano gli enti. Il testo è composto da sette capitoli in cui il binomio ‘essenza – assenza’ si manifesta in due declinazioni: quella voluta dall’Occidente che dà preminenza alla fattualità, e quella meditata in Oriente che privilegia l’intangibile.

Il primo capitolo, Essenza e ab-essenza. Non abitare da nessuna parte, riflette sulla parola greca ‘ousia con cui si designa al contempo sia l’essenza che il domicilio. Non a caso, la filosofia occidentale associa all’essenza una forma di determinatezza e stabilità, che al pari di una dimora ripara dalle turbolenze esterne; e perciò, concede di conservare il proprio sé nel divenire. 

In Oriente, invece, accade diversamente con il buddismo e il taoismo, che invitano non al contenimento ma alla dispersione, la quale non è da intendersi nella sua accezione negativa come rovinosa precipitazione nel regno dell’indifferenza, bensì è da considerarsi come un tentativo di coesione con il Tutto, «che consiste nell’abbracciare ogni cosa in modo imparziale» (p 33). Infatti, l’armonizzazione con la totalità delle esistenze è possibile solo se si è disposti ad accantonare la discriminazione tra ipseità e alterità, scegliendo di occupare una posizione vacante.

Il secondo capitolo, Chiuso e aperto, gli spazi dell’ab-essenza, si configura come uno studio comparato tra gli edifici occidentali e quelli orientali. Dunque, si mostra come l’organizzazione degli spazi rispecchi da un lato la cura per le delimitazioni, e dall’alto quella per la fluidità. 

In particolare, l’Occidente presta attenzione alla verticalità, alla centralità, e a una coerente disposizione degli oggetti negli ambienti; invece, l’Oriente preferisce gli assetti asimmetrici, sicché le cose disposte sfocino le une nelle altre senza un ordine prestabilito. Infatti, le cattedrali gotiche e i templi greci hanno «in comune l’elemento svettante» (p. 45), mentre i templi buddisti rompono ogni schematismo e, insieme, la pretesa di stabilire delle coordinate spaziali ben definite.

Il terzo capitolo, Luce e ombra, Estetica dell’ab-essenza, si incentra sulle espressioni artistiche orientali e occidentali, entrambe guidate da una diversa concezione di bellezza. Infatti, se per l’Occidente a esser bello è ciò che è guidato da un principio di compattezza, il quale permette l’unificazione degli elementi dell’opera d’arte esaltandone la locazione e il perfetto accorpamento; l’Oriente ricerca la bellezza nell’evanescenza e nel movimento. Perciò, «non è l’eccezionale, ciò che spicca, a essere bello, bensì ciò che si trattiene e si ritrae. Non lo stabile, ma ciò che è in sospeso» (p. 51). Inoltre, Han tra queste pagine descrive anche il diverso impiego della luce nelle opere pittoriche: mentre nei quadri occidentali l’illuminazione, prescindendo raramente dalla direzionalità, tende a sincronizzarsi con la prospettiva del dipinto; invece, in quelli orientali l’ombra e la luce si uniscono senza creare nessun gioco di contrapposizioni.

Nel quarto capitolo, Conoscenza e stupidità, In cammino verso il paradiso, Han, facendo riferimento al libro di Kleist, Sul teatro di marionette, indica il modo in cui le filosofie orientali descrivono il rapporto tra la coscienza individuale e il mondo. 

Secondo l’autore, molti pensatori dell’Estremo Oriente rimarcano come l’Io non possa pretendere di stabilire unilateralmente il modo in cui si svilupperà la sua interazione con l’esterno. Al pari di un burattino, perciò, l’individuo dovrebbe lasciarsi guidare da quei fili che, dirigendo le movenze del corpo, traggono la loro forza dalla mente divina. Come le marionette «senza far nulla, si lasciano muovere dalla legge di gravità» (p. 68), così l’uomo, rinunciando al desiderio di dominio, dovrebbe abbandonarsi nelle mani di Dio, facendosi plasmare e orientare dalla sua volontà. Ovviamente, va specificato che l’abbandono non va concepito nei termini di una rinuncia passiva e sofferta, bensì come svuotamento da qualsiasi forma di predominio, e dunque come precondizione alla base dell’apertura del sé e dell’armonizzazione con il Tutto.

Il quinto capitolo, Terra e Mare, Strategie di pensiero, come suggerisce il titolo, si incentra sulla metafora del viaggio per mare, che è stata ripresa più volte in Occidente per indicare la perdita di punti di riferimento, e l’approssimazione verso luoghi misteriosi che spingono all’avventura o nascondono insidie e pericoli. Infatti, chi si imbarca lo fa per allontanarsi dalla terra ferma, per assecondare il proprio desiderio di conquista. In Oriente, tuttavia, il mare è emblema dell’assenza di solidità e dell’adattabilità: infatti, esso, oltre a separare i territori, è anche una distesa informe di acqua salata, che, è incline a cambiar forma e ad accogliere in sé oggetti di varia natura. Han, quindi, attraverso l’immagine dell’uomo in mare, ancora una volta rimarca le differenze tra la cultura dell’essenza e quella dell’assenza: l’una dicotomica e rigida, e l’altra indifferente e fluida.

Il sesto capitolo, Fare e succedere, Al di là dell’attivo e del passivo, procede seguendo un’analisi delle lingue orientali, le cui costruzioni fraseologiche vedono spesso il soggetto eliso, o comunque, anche se esplicitato, sullo sfondo dell’azione che compie. In questo contesto, a essere i veri protagonisti degli enunciati perciò sono i verbi, i quali spesso non necessitano nemmeno di essere coniugati. Di certo, non si può dire altrettanto per le lingue occidentali, che hanno reso il soggetto un elemento indispensabile alla formulazione dei periodi. 

Dunque, tramite la sua indagine linguistica, Han sottolinea, da un lato, la necessità di soggettivazione dell’Occidente, dall’altro, in accordo con il pensiero orientale, l’esigenza di neutralità nelle espressioni verbali.

Nel settimo e ultimo capitolo, Saluto e inchino, Affabilità, il filosofo specifica la differenza che intercorre tra il saluto e l’inchino, due modi di congedarsi (il primo occidentale, il secondo orientale) che nascono da diverse concezioni attraverso cui è concepita l’alterità. 

Il saluto, spiega l’autore, nasce in relazione al bisogno di riconoscimento di una presenza estranea, degna di reverenziale rispetto ma anche fonte di possibili minacce. Dunque, nel saluto, poiché le parti in causa si preparano a far fronte all’alterità, si origina una «tensione interpersonale che conduce allo scontro e alla sottomissione» (p. 115). L’inchino, al contrario, non presuppone un’individuazione di un’entità altra, poiché nell’atto si assume una posizione prona, in cui l’io ripiega su di sé inibendo l’incontro degli sguardi. Ecco che nell’inchinarsi le essenze si piegano fino a scomparire, e si livellano perdendo la loro caratterizzazione identitaria. Allora, quando ci si inchina, l’essenza individuale viene appianata e svuotata; e, messa a tacere ogni divergenza, viene valorizzata l’assenza che avvolge le identità pur separandole. 

In conclusione, il volume, nel presentare la cultura orientale, desidera invogliare il lettore a dismettere la pretesa e la presunzione di poter dominare il corso degli eventi. Perché solo flettendosi al mondo è possibile orientarsi in esso senza spezzare il proprio spirito. Chi, invece, sceglie la rigidità alla fluidità è condannato a combattere ripetutamente per conquistare una posizione che non gli appartiene. Infatti, colui che si arroga il diritto di non chiedere mai il permesso e agisce solo ascoltando la propria volontà si nega qualsiasi possibilità di coesistenza pacifica. Semplicemente, si limita ad esistere senza scalfire i contorni della sua identità, poiché nella sua ottica la perdita della propria rappresentazione del sé corrisponde necessariamente a un’autodegradazione del sé.  

Il testo, perciò, si configura come un elogio al cambiamento, che è l’unica vera costante di ogni esistenza: perché gli uomini attraversano innumerevoli mutazioni, spesso senza averne il sentore. E, sin dagli albori della vita sanno che giungerà il momento del trapasso, che, come suggerisce il termine, è l’esito della trasformazione ultima e definitiva in cui il corpo sarà finalmente restituito alla terra.

 

Bibliografia 

Han, Byung-Chul. 2024. Del vuoto, Sulla cultura e filosofia dell’Estremo Oriente, trad. it. S. Aglan-Buttazzi. Milano: nottetempo. 

Han, Byung-Chul. 2023. Vita contemplativa o dell’inazione, trad. it. S. Aglan-Buttazzi. Milano: nottetempo. 

Kleist, Heinrich von. 1996. Sul teatro di marionette, trad. it. M. Sabbadini. Milano: La Vita Felice.

Chiara Fiorentino (Napoli, 1998) è una studentessa del Corso Magistrale in Scienze Filosofiche dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Si è laureata in Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II, con una tesi in Storia delle Dottrine Politiche dal titolo L’emergenza sanitaria come biopolitica, in cui si analizzano gli sviluppi e le conseguenze della Pandemia di COVID-19. Ad oggi, studia e vive a Bologna.