Blake, "Ripensare il teatro. Il rapporto tra teatro e pubblico alla luce delle nuove teorie cognitive"

Recensione a cura di Caterina Urbani

Caterina Urbani è una dottoranda in Estetica, iscritta al ciclo XL di Philosophy, Science, Cognition and Semiotics (PSCS) presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca si concentrano sull'estetica contemporanea e sulla filosofia del teatro, con l’obiettivo di creare un dialogo tra riflessione teorica e pratiche performative.

Ripensare il teatro: Processi cognitivi e pratiche performative a confronto.

Introduzione

 Il teatro è il luogo in cui il gesto si fa eco, il pensiero si fa carne e lo spettatore non resta mai passivo. In Ripensare il teatro, Beatrice Tavecchio Blake analizza il rapporto tra attore e pubblico senza barriere, invitandoci ad entrare in uno spazio nuovo, quello dell’emozione condivisa, del gesto che vibra dentro lo spettatore come una risonanza silenziosa.

 Negli ultimi decenni, il dialogo tra arte e scienza ha acquisito una centralità crescente nel dibattito estetico contemporaneo. Questo saggio si colloca in tale panorama, offrendo una lettura inedita della relazione tra attore e spettatore e coniugando in modo efficace la pratica scenica con le più recenti acquisizioni sulle scienze cognitive. 

 L’autrice propone una visione dinamica del teatro: non più mera rappresentazione, ma esperienza intersoggettiva, corporea, viva; si interroga su come l’attore, il teatro e in particolare lo spettatore recepiscano cognitivamente l’evento scenico. Come lei stessa scrive “il teatro richiede allo spettatore attenzione, empatia, emozioni, lettura della narrativa e delle convenzioni teatrali, attivazione della propria memoria e dei propri circuiti culturali. Lo spettatore deve a sua volta avere a disposizione, proposto dalla scena, tutto questo apparato, per essere attivato. (T. Blake, 2025, p. 9)”.

1.1 Genealogie novecentesche: il corpo come archivio del pensiero teatrale.

 Non è la prima volta che il corpo reclama il suo posto sul palco. Già nel Novecento, la ricerca teatrale si concentra su questo nodo cruciale, e il primo capitolo del volume ne propone una suddivisione tematica: il ruolo della messinscena, il corpo e la mente dell’attore, come dello spettatore. Da Craig, Copeau, Decroux a Lecoq, fino a Dario Fo in Italia, l’autrice cita tecniche sperimentali che guidano l’attore verso una ricerca autentica di libertà espressiva. Se da un lato questi approcci lavoravano sul corpo fisico dell’attore, dall’altro Konstantin Stanislavskij (1863-1938) — regista, attore e teorico russo — elabora già a cavallo del XIX secolo una teoria dell’arte creativa dell’attore fondata su leggi psicofisiche e psicologiche.

 Il Sistema Stanislavskij parte dall’analisi testuale e si affida alle capacità intellettive e percettive dell’attore per costruire il personaggio, valorizzando ciò che nel testo è sottinteso. “Nel sottotesto dell’autore l’attore può far rifiorire la sua creatività attraverso il vaglio delle ragioni, dei sentimenti, tutte quelle emozioni che costituiscono la memoria emotiva, in grado di rievocare sentimenti già vissuti, a volte intensi come la prima volta, a volte più deboli o più forti, uguali o diversi. (T. Blake, 2025, p. 32)”. Stanislavskij concepisce la memoria come un archivio: armadi, cassetti, cassettini colmi di perline di sensazioni e di ricordi; ma invita a non dare la caccia ogni volta alla perla perduta, piuttosto dedicarsi a nuovi vissuti. L’attore adopererà i ricordi vivi in sé come fossero libri di una biblioteca, stimoli in grado di risvegliare la memoria emotiva. Da qui, il metodo di ricostruzione delle piccole azioni fisiche per riaccendere il sentimento di un evento.

 Si vedranno gli sviluppi di questa concezione dell’attore, condizionata dagli studi sulla memoria affettiva di Ribot, anche nel teatro di Jerzy Grotowski e Antonin Artaud. Quest’ultimo parla di una “muscolatura affettiva corrispondente alla localizzazione fisica dei sentimenti (Artaud, 1968, pp. 242-249)”. Per entrambi, in particolare Grotowski, il teatro consiste nel solo connubio di attore e spettatore, il cui obiettivo diviene l’invito allo spettatore in un processo di terapia psico-sociale. Infatti, riprendendo le intuizioni di Stanislavskij, Grotowski approfondisce le possibilità umane dell’attore, indagando l’istinto e le sensazioni condivise con il pubblico. In un graduale percorso che scava nei criteri cognitivi della percezione, anche Brecht accende un faro sulle capacità cognitive dello spettatore, indicando come attivarle. Il suo teatro sposta l’attenzione della ricerca sul ruolo di uno spettatore distanziato, capace di riflettere criticamente sull’azione scenica. 

 Dunque, attraverso un dialogo serrato con la tradizione, il primo capitolo interroga le pratiche passate alla luce delle domande contemporanee. Pur senza entrare ancora nel dettaglio delle neuroscienze, l’autrice introduce l’idea che il corpo sia la sede del pensiero teatrale. Gesto, ritmo, voce, spazio: tutti elementi che costruiscono significato in modo non verbale, ma non per questo meno concettuale. Il teatro, in questa prospettiva, è una forma di conoscenza che si realizza nel corpo e attraverso il corpo. Tavecchio Blake prepara così il terreno per l’intreccio teorico e cognitivo che si svilupperà nei capitoli successivi. 

1.2 Le teorie cognitive e il pensiero teatrale: fondamenti per una scena incarnata. 

 Il secondo capitolo rappresenta il cuore teorico del volume, dove Beatrice Tavecchio Blake espone le fondamenta scientifiche e filosofiche che sostengono la sua proposta di ripensamento del teatro. A seguito di una preliminare cornice teorica sulle arti performative, il focus si sposta ora dalla scena come rappresentazione alla scena come processo mentale condiviso, confrontandosi con alcune delle più influenti teorie cognitive contemporanee per spiegare come il teatro possa essere compreso come esperienza cognitiva incarnata e relazionale. 

 Tra le scoperte più rilevanti l’autrice cita l’esistenza dei neuroni specchio, la capacità di blending (amalgamare) e l’attitudine associativa del nostro cervello, tutte con ricadute significative sulla comunicazione teatrale. In tale circostanza, vengono citati gli studi di Gerald Edelman e Antonio Damasio, i quali mostrano come la mente non operi per deduzione logica, ma per associazione metaforica. Il pensiero si sviluppa attraverso immagini, emozioni e memorie che si connettono in modo fluido e non lineare.

 Edelman sottolinea che la capacità di pensare per metafora, cioè per associazione, precede il linguaggio, e questo vale tanto per l’attore quanto per lo spettatore. Quest’ultimo deduce quanto proposto dalla scena per associazione, assimilando il contenuto al proprio bagaglio emotivo e cognitivo. Anche Damasio, nel suo The feeling of Happens (2000), evidenzia il percorso che va dall’emozione alla coscienza di sé. Già nel 1994 con L’errore di Cartesio, Damasio critica l’idea cartesiana di una ragione disincarnata: la mente non può essere separata dal corpo e le emozioni sono alleate della razionalità, non sue nemiche.

 Il teatro, in questa prospettiva, diventa uno spazio privilegiato per esplorare la soggettività incarnata, dove la scena attiva rappresentazioni sensoriali che coinvolgono memoria, immaginazione e affetto. Lo spettatore non è solo un interprete razionale, ma un soggetto che intellettualizza le emozioni attraverso il corpo. Le immagini sceniche non sono il contenuto del pensiero, ma il suo veicolo. L’esperienza teatrale si configura così come training emotivo, che coinvolge tanto la sensibilità quanto la riflessione.

 Quindi, anche il teatro epico di Brecht, “che invitava al distanziamento dal coinvolgimento emotivo della rappresentazione, può dirsi incarnare la volontà di portare lo spettatore al livello non solo di coscienza di base del proprio essere cosciente, ma al livello superiore di estesa coscienza che prende nota combinando la propria memoria autobiografica e la propria intelligenza con quello che avviene in scena (T., Blake, 2025, p. 97)”. In tale contesto, ci si chiede come gli studi di Damasio possano essere portati in scena: l’attore può ricostruire un’emozione usando la memoria emotiva del proprio corpo, mentre lo spettatore può sentire sulla propria pelle, per effetto dei neuroni specchio, le emozioni che vede rappresentate in scena. “Il rispondere d’istinto, dice Damasio, elimina il passaggio di ragionamento (T. Blake, 2025, p. 116)”.

 Questa prospettiva si collega direttamente al concetto di blending teorizzato da Fauconnier e Turner: l’attore fonde sé stesso con il personaggio, lo spettatore integra la scena con il proprio vissuto. La fruizione teatrale diventa unica e irripetibile, poiché il blending dello spettatore coinvolge tre fattori: personaggio/ attore/ sé stesso spettatore. L’esperienza è quindi “fluida, in continua trasformazione, cumulativa, plurima e varia, sempre sottoposta al vaglio delle esperienze congruenti e incongruenti del proprio Sé con quanto rappresentato (T., Blake, 2025, p. 140.)”.

1.3 Corporeità, co-presenza e immaginazione: la scena come spazio di risonanza.

 Nel terzo capitolo viene approfondito il ruolo del corpo come mediatore centrale della comunicazione teatrale. Il ruolo portante del corpo dell’attore, del suono della sua voce, del suo movimento e azione, è innegabile. Il corpo dell’attore è concepito come archivio vivente, capace di attivare nello spettatore una risposta sensoriale profonda. La ricezione dello spettacolo è descritta come un processo sensoriale e motorio, in cui la percezione visiva e uditiva si intreccia con la memoria e l’immaginazione. Lo spettatore dunque non si limita ad osservare, ma risuona con ciò che accade in scena. In questo contesto anche la musica assume un ruolo essenziale: non solo come elemento estetico, ma come attivatore cognitivo ed emotivo. Quando è in scena, la musica ha “un valore estetico prima di tutto e anche di contenuto affettivo, emotivo e cognitivo, che si associa all’altro input di nostre emozioni e cognizioni della memoria personale (T. Blake, 2025, P. 157)”. Il teatro, in questa prospettiva, diventa uno spazio di risonanza incarnata, dove il corpo dell’attore e quello dello spettatore si incontrano in una dinamica di co-creazione. La scena non è solo da guardare, ma da sentire, da abitare, da trasformare.

 A seguire, nel capitolo quarto Tavecchio Blake riprende il ruolo della creatività e dell’immaginazione, intese non come facoltà individuali, ma come processi cognitivi relazionali. Per questo, l’autrice si rifà nuovamente alle teorie cognitive di Turner e Fauconnier, mostrando come l’immaginazione sia un atto di blending mentale: l’attore fonde sé stesso con il personaggio, lo spettatore fonde il proprio vissuto con la scena. 

 Particolare attenzione è dedicata allo spettatore, che non è più destinatario passivo, ma co-autore dell’esperienza teatrale. In questo senso, il pensiero di Erika Fisher-Lichte nell’Estetica del Performativo (2014) offre un riferimento prezioso: la co-presenza corporea di attore e spettatore è il fulcro dell’evento scenico. Secondo la teatrologa tedesca, il significato della rappresentazione non è predefinito, ma emerge nel momento della performance, attraverso un loop autopoietico di feedback tra chi agisce e chi assiste. La risposta emozionale dello spettatore partecipa propriamente alla costruzione del senso, attraverso la propria percezione, memoria ed immaginazione. Pur muovendosi in un ambito teorico differente, Tavecchio Blake sembra condividere questa visione: il teatro non è tanto un testo da decifrare, ma un evento da vivere, dove la presenza e la relazione corporea divengono condizioni generative. 

 Ci avviciniamo così ad una concezione di performativo che sposa una drammaturgia dell’immaginazione, dove il teatro non è solo arte, ma dispositivo cognitivo. Le regie contemporanee, come quelle citate di Sarah Kane e Ivo Van Hove, sono esempi di pratiche che attivano l’immaginazione dello spettatore in modo radicale. 

1.4 Casi studio e applicazioni performative: analisi di regie e percorsi immersivi.

 Nel capitolo successivo, Beatrice Tavecchio Blake mette alla prova le teorie elaborate nei capitoli precedenti, servendosi di due esempi pratici. Il teatro di Sarah Kane, autrice britannica nota per la sua drammaturgia estrema, è interpretato come una forma radicale di espressione corporea, dove il dolore, amore, violenza e fragilità si manifestano attraverso immagini fisiche estreme. Citando testi come Cleansed, l’autrice mostra come queste pratiche sceniche attivino nello spettatore una risposta cognitiva profonda, generata da una forte risonanza emotiva. Il concetto di blending tra attore e personaggio, discusso nei capitoli precedenti, qui si radicalizza, trasformando il corpo dell’attore in veicolo di esperienza. 

 In maniera analoga, il regista belga Ivo Van Hove viene analizzato per le sue regie immersive e viscerali, che coinvolgono lo spettatore in modo diretto, rompendo i confini tradizionali dello spazio performativo. Tavecchio Blake interpreta le sue regie come importanti dispositivi cognitivi, con l’aiuto di spazi fluidi, video, suoni ambientali e interazioni fisiche. Le pratiche sceniche offerte da questi esempi non si limitano a rappresentare, ma generano esperienza, attivano memoria, abbracciando una visione enattiva della cognizione.

 Nelle pagine conclusive del volume, l’autrice amplia lo sguardo verso le forme più sperimentali del teatro contemporaneo, soffermandosi su alcune forme di teatro immersivo e digitale, dove le teorie cognitive trovano forte applicazione. Tra gli esempi, viene citato The Burnt City (2022) della compagnia inglese Punchdrunk, in cui il pubblico è invitato a muoversi liberamente in ambienti labiritinci, costruendo la narrazione in modo quasi personale, guidato dalle proprie scelte percettive. In queste forme di teatro immersivo — come le site-specific performances o l’environmental theatre —  il pubblico viene privato dei riferimenti tradizionali, ossia il palco, il sipario, la frontalità, e viene chiamato a costruire la drammaturgia attraverso la guida della propria percezione. Questo attiva una forma di blending concettuale incarnato, dove la comprensione nasce dalla combinazione degli stimoli sensoriali e quadri mentali individuali.

Conclusione

 Ripensare il teatro si distingue per l’accuratezza del lavoro teorico, capace di mettere in dialogo in modo sistematico le teorie cognitive con le pratiche sceniche contemporanee. Il volume offre nei primi capitoli un impianto solido e interdisciplinare, affrontando con sguardi diversi concetti complessi del cognitivismo, in dialogo con una drammaturgia della presenza. La scena teatrale viene ripensata come spazio epistemico, luogo in cui il sapere si produce nella relazione tra corpo, mente ed emozione. L’analisi del teatro immersivo, così come lo studio delle regie di Sarah Kane e Ivo van Hove, contribuisce a delineare una visione del teatro come esperienza condivisa, trasformativa e situata.

 Nel panorama della riflessione teatrale contemporanea, il contributo di Beatrice Tavecchio Blake si colloca in modo significativo, sia per la solidità scientifica dell’impianto teorico che per l’originalità con cui vengono accostati ambiti disciplinari diversi, mantenendo prospettive plurali e comunicanti. Il volume arricchisce il dibattito offrendo alcuni spunti critici rilevanti per studiosi, professionisti e spettatori interessati alle riflessioni cognitive relative all’arte performativa. Tra i punti di forza emergono la chiarezza espositiva del testo, la coerenza metodologica e l’ampiezza del panorama teorico. Va tuttavia segnalata la densità di alcuni passaggi, che presuppongono una certa familiarità con linguaggi specialistici e riferimenti teorici avanzati. 

 Nel complesso, Ripensare il teatro si configura come un contributo incisivo alla riflessione contemporanea sul teatro: un testo che non si limita a informare, ma invita a ripensare il teatro come luogo di conoscenza condivisa, dove il pensiero si fa gesto e il gesto si fa pensiero.

 

Bibliografia:

Artaud, Antonin, 1968. Il teatro e il suo doppio, Torino: Einaudi.

Damasio, Antonio, 1994. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Trad. it. Filippo Macaluso, Milano: Adelphi.

Damasio, Antonio, 2000. The Feeling of What Happens. Body, Emotion and the Making of Consciousness, London: Vintage Book.

Fisher-Lichte, Erika, 2014. Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte. Trad. it. Tancredi Gusman e Simona Paprelli, Roma: Carocci.

Tavecchio Blake, Beatrice, 2025. Ripensare il teatro, Il rapporto tra teatro e pubblico alla luce delle nuove teorie cognitive. Milano: Mimesis.