Intervista a Valentina Antoniol

A cura di Filippo Del Lucchese

Valentina Antoniol è ricercatrice (RTDa) in Filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Dopo aver conseguito il dottorato in Filosofia politica all’Università di Bologna nel 2019, in cotutela con l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, è stata assegnista di ricerca per tre anni all’Università di Bologna, nei Dipartimenti di Storia Culture Civiltà, di Architettura e di Scienze Politiche. È stata inoltre Visiting Research Scholar alla Brown University e a CUNY. Attualmente è parte di un progetto dedicato alla Cyber Social Security (SERICS), nell’ambito del quale indaga gli aspetti critici connessi all’uso di tecnologie di sicurezza digitali. I suoi interessi di ricerca si rivolgono prevalentemente alla filosofia politica contemporanea, alla storia del pensiero politico e alle teorie femministe.

L'intervista è condotta a partire dal volume di Valentina Antoniol, Foucault critico di Schmitt. Genealogie e guerra. (Rubbettino, 2024).

 

Segnalibri filosofici – Qual è l'origine di questo progetto, da dove nasce l'idea di prendere due autori, entrambi molto noti, entrambi molto utilizzati, anche dagli stessi studiosi talvolta, ma piuttosto distanti fra loro? Si tratta di un confronto veramente orizzontale, in cui i due autori sono sullo stesso piano?

Valentina Antoniol – Il progetto del libro nasce da quella che ritengo possa essere considerata come una sorta di “fortuna” (non l’unica per la verità); una “fortuna” legata al fatto che quando ho cominciato a interessarmi alla questione della guerra in Michel Foucault, e stavo lavorando sul corso al Collège de France del 1975-76, “Bisogna difendere la società”, contemporaneamente mi sono trovata a rileggere Il concetto di ‘politico’ di Carl Schmitt. Mi ricordo ancora lo stupore nel momento in cui mi sono resa conto che c'erano delle formulazioni che ricorrevano in entrambi i testi e che, contro ogni aspettativa, indicavano una “vicinanza” tra questi due autori, i quali – come sappiamo – sono in realtà estremamente distanti, se non addirittura incommensurabili, quantomeno da un punto di vista politico. Più precisamente, leggendo insieme le due opere, si può osservare come, sia nell’una sia nell’altra, si ritrovi una trattazione – non così dissimile (sebbene condotta con obiettivi e risultati differenti) – di alcune questioni; tra queste il tema del politico, l’inversione della celebre “formula di Clausewitz”, l’“ultima battaglia” come fine della guerra, una certa comprensione del conflitto, l’inimicizia politica. Proprio a partire da queste assonanze – che in realtà sono sempre dissonanti – ho ritenuto dunque che ci fosse del materiale su cui era possibile, e anche utile, ragionare e lavorare. È infatti sulla base di questa “scoperta” che si è sviluppato il mio lavoro, basato appunto sul rapporto tra Foucault e Schmitt.
Per quanto riguarda la domanda se si tratti o meno di un confronto orizzontale tra i due autori, direi che il titolo del libro non mente: il baricentro del lavoro è costituito dal pensiero di Foucault. A essere indagata è, infatti, quella che ritengo possa essere intesa come una critica che Foucault rivolge a Schmitt. Ciò significa che, prima ancora che come autore e come oggetto di indagine in sé, Schmitt è impiegato come uno strumento. Il giurista e filosofo tedesco può essere inteso infatti come una cartina al tornasole, indispensabile per mettere in luce non solo le basi teoriche, ma anche gli obiettivi polemici di quello che – risignificando un’espressione dello studioso Michel Senellart – io definisco come “schema polemocritico” foucaultiano, ossia un modello che utilizza la guerra come strumento critico e la critica come strumento di guerra.
Eppure, al di là di questa centralità riconosciuta a Foucault, è vero anche che uno dei presupposti fondamentali che ha guidato la mia ricerca è definito dalla (senz’altro drammatica) centralità della guerra – come concetto e come fenomeno – nella nostra attualità. La posta in gioco della mia ricerca non ha consistito quindi, solamente, nell’esplorare le analisi di Foucault sulla guerra e la critica di quest’ultimo alla teoria schmittiana del politico, ma anche nell’indagare Schmitt come pensatore esso stesso della guerra. È per questa ragione che, una parte consistente del libro, è dedicata esclusivamente a questo autore, di cui vengono esplorati i temi del decisionismo, la riflessione sul politico, le analisi sul nomos e sul partigiano, ecc.

SF – Per quanto riguarda il corpus dei testi, sei riuscita a fare una selezione ragionevole su entrambe le opere dei due autori, che sono molto ampie (senza contare la letteratura secondaria) oppure sei riuscita a restringere l’analisi ad alcuni testi fondamentali?

VA – Sia per Foucault, sia per Schmitt, si è trattato di selezionare alcuni testi fondamentali, pur considerati nell’ambito di un’indagine più ampia riguardante la pressoché immensa produzione e attività di questi due autori. Più precisamente, il punto iniziale della ricerca ha riguardato il fatto che il tema della guerra in Foucault non abbia ricevuto grande attenzione da parte della critica (salvo alcune eccezioni), nonostante la letteratura secondaria su questo autore sia vastissima. E questo perché, per molto tempo, si è ritenuto che Foucault si fosse interessato alla questione per un breve periodo della sua produzione, e cioè esclusivamente tra il 1975-76, in corrispondenza con il ciclo di lezioni di “Bisogna difendere la società”.
Ebbene, è proprio a questo livello che si è verificata un’altra circostanza fortunata rispetto alla mia ricerca: quando ho iniziato a occuparmi di questo tema, sono stati pubblicati gli ultimi due cicli di lezione mancanti, tra i tredici corsi tenuti da Foucault al Collège de France, vale a dire “Teorie e istituzioni penali”, del 1971-72, e “La società punitiva”, del 1972-73. A discapito di quella che fino a quel momento era stata la posizione della maggior parte delle studiose e degli studiosi, questi due lavori mostravano esattamente che il tema della guerra era non solo presente, ma anche fondamentale in Foucault, sin dall’inizio degli anni Settanta. Già in questi due cicli di lezioni, la guerra (civile) è intesa infatti come modo di esercizio del potere, come strumento strategico di azionamento del potere e come griglia di intelligibilità delle relazioni di potere.
Pertanto, per quanto riguarda Foucault, si è trattato per me di concentrarmi soprattutto su un periodo specifico della sua produzione, che è anche quello in cui viene sviluppato il metodo genealogico. Questo periodo va dal saggio Nietzsche, la genealogia, la storia del 1971, passa attraverso “Teorie e istituzioni penali”, “La società punitiva”, Io Pierre Riviere del 1973 e Sorvegliare e Punire del 1975, e arriva fino al 1976 con “Bisogna difendere la società”. Proprio quest’ultimo corso segna in realtà un punto di svolta fondamentale all’interno della produzione foucaultiana: si tratta di un passaggio che marca una consapevolezza da parte dell’autore rispetto al proprio percorso degli anni precedenti e che, allo stesso tempo, segna una distanza rispetto alla produzione successiva. In questo ciclo di lezioni, Foucault cerca infatti se non proprio di sistematizzare, quantomeno di ordinare i presupposti che avevano costituito le basi dello schema polemocritico. Eppure, sempre in questo stesso corso viene di fatto decretato anche l’abbandono del modello della guerra, e io credo che, proprio in questo scarto, sia coinvolto Schmitt. O, più precisamente, a me pare che in questo cambio di prospettiva si giochi l’importanza di Schmitt per comprendere il lavoro di Foucault. Secondo la mia interpretazione, infatti, il modello della guerra foucaultiano si costruisce a partire da un'articolazione tra la comprensione nietzschiana della forza e la teoria schmittiana del politico, eppure si sviluppa esattamente contro Schmitt. Pertanto, nell’abbandono del modello della guerra da parte di Foucault è come se si ritrovasse una questione eminentemente politica. E tale questione può essere posta nei seguenti termini: quali sono o quali potrebbero essere le conseguenze politiche connesse a un impiego del modello della guerra come dispositivo di difesa sociale (à la Schmitt), anziché come strumento di analisi inclusiva – e di riconoscimento delle parti contrapposte e non escludentisi – all’interno della società (à la Foucault)?
Per riassumere quindi: il corpus foucaultiano al quale mi sono dedicata è soprattutto quello che va dal 1971 al 1976, il quale mostra una permanenza del discorso sulla guerra nel percorso di Foucault e non certo una sua momentanea emergenza. Per quanto riguarda invece Schmitt, l’analisi riguarda un periodo più ampio della sua produzione, poiché la sua riflessione sulla guerra è inestricabile rispetto a quella sulla politica. Ad ogni modo, sempre considerando Schmitt come uno strumento, prima ancora che come un autore, ho cercato di concentrarmi in particolare su alcune opere: sui testi chiave della sua produzione rispetto al tema della guerra e sui testi che risultano fondamentali in merito alla comprensione dello schema polemocritico foucaultiano. Mi sono soffermata quindi, in particolare, su Teologia politica del 1922 (2° ed. 1934) e su Il concetto di ‘politico’ del 1927 (2° ed. del 1932 e 3° ed. del 1963) – che sono fondamentali per il confronto con “Bisogna a difendere la società”, soprattutto rispetto a una diversa comprensione della guerra da parte dei due autori – e, successivamente, ho lavorato su Il nomos della terra del 1950 e su Teoria del partigiano del 1963. Questi ultimi due testi sono infatti importantissimi per la lettura e il confronto con “Teorie e istituzioni penali” e “La società punitiva”. È in queste quattro opere infatti che, da un lato, la genealogia costruita da Schmitt mostra come la guerra civile sia ciò che la modernità è riuscita a espungere (quantomeno all’interno del territorio europeo); dall’altro, Foucault mette in luce – contro Hobbes e la tradizione hobbesiana, della quale fa parte anche Schmitt – come, in realtà, proprio la guerra civile sia da sempre presente all'interno delle maglie della società e costituisca la modalità di strutturazione e di funzionamento del potere.

SF – Spesso si va a cercare qualcosa, nella teoria e nella storia, a partire da sollecitazioni del contemporaneo. Allora, tu dici che, per Foucault, la guerra è stata presente più a lungo di quanto si pensasse. Che cosa ha in mente allora, l'Indocina, il Vietnam, la fase della decolonizzazione. Ci sono delle suggestioni dirette, secondo te? Sappiamo qualcosa dai suoi articoli, per esempio, dalle interviste e dagli scritti più giornalistici?

VA – Quello dedicato al tema della guerra è un periodo specifico della produzione foucaultiana, che si inserisce in un contesto altrettanto specifico, vale a dire quello francese della prima metà degli anni Settanta. Si tratta della fase di più intenso militantismo politico da parte di Foucault, durante la quale è coinvolto in prima persona nelle battaglie a fianco dei malati psichiatrici, degli operai, degli immigrati, dei detenuti nelle carceri. Non solo, sempre in quegli anni, il tema della guerra, e soprattutto della guerra civile, aveva acquisito una notevole importanza nel panorama “gauchiste” francese. Solo per entrare un po’ più nello specifico, si pensi ad esempio all’importanza assunta dal saggio di André Glucksmann, Il discorso della guerra (pubblicato per la prima volta nel 1967), nel quale l’autore faceva riferimento a Teoria del partigiano di Schmitt e si confrontava con l’inversione della formula di Clausewitz. Peraltro, come sappiamo dagli archivi della Beinecke Library della Yale University, dove è conservato il fondo “Michel Foucault Library of Presentation Copies”, che comprende tutti i libri donati a Foucault, quest’ultimo possedeva la seconda edizione di questo saggio (del 1974) che, a quanto pare, aveva particolarmente apprezzato (è questa un’informazione che arriva da Mauro Bertani, il quale aveva lavorato con Foucault per parecchi anni). Inoltre, sempre per cogliere lo spirito politico della fase, si consideri anche Vers la guerre civile: un libro del 1970 dei maoisti Alain Geismar, Serge July e Erlyne Morane, nel quale, in un passaggio dell’introduzione, si diceva che l’orizzonte della Francia nei successivi due anni non poteva che essere quello della rivoluzione. Certo, noi sappiamo che le cose sono andate in maniera assai diversa ma, in ogni caso, ciò non sconfessa – semmai giustifica – il motivo di tanto interesse rispetto al tema della guerra civile.
O ancora, allargando la prospettiva oltre il contesto francese, bisogna in effetti ricordare che quelli erano anche gli anni della Guerra fredda, dei “caldissimi” conflitti in Vietnam, in Cambogia, in America latina, in Medio Oriente, di molte guerre di liberazione dal colonialismo, della fine del franchismo in Spagna e di importanti proteste studentesche in Italia, Germania, Portogallo, e ovviamente anche nella stessa Francia. Era questo, insomma, il panorama generale nel quale si inseriva il nodo della conflittualità e della guerra, che era al centro non solo di molte discussioni, ma anche di molte ricerche. Non deve quindi stupire che, in un tale contesto, anche Foucault si confrontasse animatamente con tali questioni. E traccia di ciò si ritrova infatti in molte interviste del periodo, alle quali possiamo accedere grazie alla raccolta dei Dits et écrits, nella quale sono stati raggruppati, in ordine cronologico, la maggior parte dei testi apparsi durante la vita di Foucault (interviste, articoli, conferenze, testi confidenziali).
Infine, non bisogna dimenticare che è proprio in questo stesso periodo che in Francia “arriva” Schmitt, dopo che il terreno era stato in parte preparato da alcuni scambi e confronti tra il giurista tedesco e Alexandre Kojève, Raymond Aron ma, soprattutto, Julien Freund. È infatti proprio nel 1972 che viene tradotto Il concetto di politico, insieme a Teoria del partigiano (con una prefazione di Freund) nella collana di Calmann-Lévy, “Liberté dell'esprit”, diretta proprio da Aron, vale a dire un altro “pensatore della guerra”, con il quale Foucault aveva collaborato per un seminario nel 1967.

SF – torniamo al tuo tavolo di lavoro, alla tua cassetta degli attrezzi, alla metodologia: quali sono i grandi testi a cui ti sei ispirata metodologicamente, quelli su cui ti sei formata per il lavoro storiografico?

VA – Uno dei modelli interpretativi che struttura il mio lavoro è il considerare la modernità attraverso una specifica lente di lettura che riconosce due diverse tradizioni: quella principale di matrice hobbesiana e quella alternativa di matrice spinoziana. Tale comprensione si sviluppa prendendo spunto da alcune analisi di Toni Negri sul potere costituente e sulle alternative del moderno (per riprendere il titolo di un celebre saggio dell’autore). Ebbene, anche a partire da tali riflessioni possiamo inserire Schmitt all’interno della linea principale della modernità. Il giurista tedesco può, infatti, essere riconosciuto come l’ultimo anello – o, come lui stesso amava definirsi, come “l’ultimo consapevole rappresentante” – di una tradizione che ha il suo archetipo (o uno dei suoi principali archetipi) in Hobbes. Tale tradizione hobbesiano-schmittiana mira alla costituzione dell’ordine. O meglio, laddove per Hobbes è l’ordine che deve intervenire a regolare il disordine, per Schmitt è fondamentale riconoscere il disordine alla base dell'ordine; ad ogni modo, per entrambi l’obiettivo è lo stesso.
Eppure, sempre riprendendo alcune importanti intuizioni della teoria negriana, possiamo riconoscere come vi sia anche una tradizione assai diversa rispetto alla precedente. Quest’altra tradizione pone Spinoza (insieme a Machiavelli, Harrington e altri) agli inizi di una linea alternativa del moderno, e considera il filosofo olandese come un’anomalia rispetto a Hobbes. È proprio all’interno di questa discendenza che io credo sia possibile inserire anche Foucault. Semplificando, possiamo sostenere che sia in Spinoza, sia in Foucault viene riconosciuta la centralità del conflitto. Laddove per Spinoza è il disordine che interviene a regolare un ordine che è sempre frutto di rapporti di forza – egli è infatti colui che, nel Trattato politico, invalida il contratto affermando come esso non sia garantito dal diritto civile, ma dal diritto di guerra –, per Foucault l’ordine nasconde sempre il disordine e dunque il disordine è la chiave di comprensione per indagare ciò che viene definito come ordine. Non solo, a me pare che sia lo stesso Foucault a fare riferimento a questa linea alternativa della modernità nel momento in cui, in “Bisogna difendere la società”, contrappone alla storia romana – che è la storia della pacificazione, della sovranità, dell’unificazione, ossia la storia che appartiene a Hobbes e alla discendenza hobbesiana – la necessità di ripercorrere una storia di derivazione ebraica. Quest’ultima dà vita, infatti, al discorso della frattura, dell’eterogeneità, della rivolta, e concepisce il conflitto non come patologia, ma come elemento non sradicabile e anzi fisiologico.
Da un punto di vista metodologico, sono questi alcuni dei riferimenti principali a partire dai quali si è strutturato il mio lavoro; riferimenti che sono accompagnati dall’influenza di alcuni altri autori – come ad esempio Marx, Benjamin, Fanon, La Boétie, ecc. – e tradizioni di pensiero – una tra tutte il femminismo. Tuttavia, la mia ricerca si è sviluppata, in realtà, anche e soprattutto a partire da una difficoltà, che definirei prettamente politica. Per molto tempo mi sono, infatti, confrontata e scontrata con una sorta di “irricevibilità” del mio progetto. Mi spiego meglio: come sappiamo, su Foucault è stato scritto moltissimo e la critica si è occupata spesso del confronto tra Foucault e altri pensatori e pensatrici. Ci sono, ad esempio, testi bellissimi che indagano il rapporto (diretto o indiretto) con Nietzsche, Derrida, Benjamin, Arendt, Hobbes, Marx, Heidegger, Althusser ecc. Eppure, sebbene questi autori/autrici vengano indicati come i principali riferimenti di molti dei lavori foucaultiani, in realtà alcuni di questi non sono mai, o quasi mai, citati dallo stesso Foucault. Un esempio in tal senso, non certamente l’unico, è costituito da Heidegger. Daniel Defert sostiene, infatti, che il filosofo tedesco sarebbe l’innominato del corso al Collège de France del 1970-71, Lezioni sulla volontà di sapere. Tuttavia, non solo nelle registrazioni, ma neppure nei materiali preparatori del ciclo di lezioni compare mai alcuna citazione o menzione ad Heidegger.
Ebbene, se prendiamo come riferimento Schmitt, il discorso è molto simile: non è mai citato pubblicamente da Foucault, né all’interno dei libri pubblicati, né durante i corsi. Eppure, l’importanza del giurista e filosofo tedesco non può sfuggire a chiunque decida di confrontarsi col tema della guerra nella produzione foucaultiana, al punto da far apparire pressoché inverosimile la poca letteratura sull’argomento. Le evidenze sono, infatti, piuttosto chiare anche senza dover ricorrere ai manoscritti inediti del “Fonds Michel Foucault”, nei quali comunque si ritrovano delle tracce – importanti soprattutto da un punto di vista qualitativo – che consentono di stabilire, con certezza, l’influenza di Schmitt. Più precisamente, si tratta di passaggi che risultano estremamente rilevanti poiché delineano quella che possiamo definire come prossimità polemica e contrappositiva del pensiero foucaultiano rispetto a quello schmittiano.
Ciò nonostante, parlare di Schmitt in rapporto a Foucault è ancora oggi, in alcuni ambienti, una questione poco semplice. Di questo mi sono resa conto subito, soprattutto nel periodo in cui lavoravo a Parigi per il dottorato. Se in Italia, Schmitt è un autore che ha subito negli anni un processo di quasi completa normalizzazione – non solo a destra, ma anche e soprattutto a sinistra –, non si può nascondere che, in altre realtà, la sua ricezione sia risultata e continui a risultare problematica. Facendo un esempio specifico – quello con cui mi sono confrontata io stessa – si può osservare come, in Francia, quello di Schmitt sia un nome che ancora oggi fa storcere il naso. Anzi, possiamo dire che risulti assai più difficile da accettare anche, ad esempio, rispetto ad Heidegger, e questo perché il pensiero di Schmitt è più immediatamente politico. Ad ogni modo, quello che per me è importante sottolineare è che non si tratta qui di riabilitare l’uomo Schmitt, né di concedere attenuanti ad alcuni aspetti del suo pensiero e usi che ne sono stati fatti. Si tratta invece – in questo caso specifico – di riappropriarci delle possibilità critiche che derivano dal confronto tra questo autore e Foucault, pur riconoscendo l’incommensurabile distanza tra i due. Pertanto, assumere questa prospettiva ha significato, per me, il decidere di esplorare una strada che in molti mi dicevano non poter essere percorsa. Ed è proprio su queste basi che il lavoro filologico negli archivi del “Fonds Michel Foucault” ha assunto un’importanza fondamentale: non tanto per un interesse filologico in senso stretto, quanto per utilizzare la filologia come strumento necessario, al fine di legittimare la mia ipotesi di ricerca e le sue implicazioni teoriche e politiche.


SF – parliamo dunque del lavoro d'archivio che hai fatto, quali sono gli aspetti più interessanti, anche nella loro dimensione pratica e materiale?

VA – La ricerca negli archivi è stata, senza dubbio, uno degli aspetti più interessanti – e anche più impegnativi – del mio lavoro e, allo stesso tempo, ha rappresentato un’altra delle circostanze fortunate che lo ha accompagnato. Nel 2013 sono stati acquisiti, dalla Bibliothèque nationale de France (BnF), tutti i manoscritti inediti di Foucault: testi di studio, materiali di preparazione alle pubblicazioni, alle conferenze, alle lezioni (non solamente quelle al Collège de France, ma anche a Tunisi, Vincennes, Rio de Janeiro, Lovanio, Berkeley, Stanford, ecc.). Gli archivi del “Fonds Michel Foucault”, che constano di 117 boîte per un totale di circa 37mila fogli, sono poi diventati accessibili nel 2014, ossia proprio un anno e mezzo prima dell’inizio del mio percorso di dottorato. In realtà, nei primi anni era davvero difficilissimo riuscire ad avvicinarsi a questi materiali. Quando sono arrivata a Parigi nel 2017, per la cotutela del dottorato, ho dovuto fare l’impossibile (tra lettere d'ingresso, referenze e autorizzazioni) per riuscire a consultare queste boîte. Mi ricordo ancora – ma non so se adesso le condizioni siano cambiate – che alla biblioteca Richelieu, dove appunto sono conservati questi materiali, c’era una procedura elaboratissima da rispettare: si poteva chiedere in prestito una sola boîte per volta, una o due settimane in anticipo, la quale sarebbe poi stata portata da non si sa bene dove... molto probabilmente da un luogo magico!
A queste difficoltà burocratiche, si aggiungeva il fatto che, quando sono arrivata in Francia, non parlavo benissimo la lingua. I primi mesi sono stati dunque di vero e proprio studio della calligrafia di Foucault: di come scriveva la “s”, di tutti i modi in cui scriveva la “p”, oppure la “x”, ecc. – fermo restando che alcune parti di quei testi non risultavano leggibili neanche ai francesi madrelingua. Inoltre, per portare avanti questo lavoro di ricerca, mi sono basata su una prima catalogazione che, all’epoca, era stata fatta da Defert, a partire da alcuni titoli dei materiali. Tuttavia, col passare del tempo, si è anche scoperto che alcuni contenuti di queste boîte corrispondevano solo parzialmente – o per nulla – ai titoli corrispondenti. Per parte mia, in un anno intenso di ricerca negli archivi, sono riuscita ad analizzare con attenzione solo un certo numero di boîte (circa una decina), che è un numero certamente ristretto rispetto alla totalità di quelle presenti. Nello specifico, mi ero appunto concentrata su quei materiali che, dall’indice, sembravano attinenti al mio tema di ricerca. Eppure, a volte, il nome di Schmitt compariva in altre boîte che, almeno sulla carta, sembrava non dovessero avere nulla a che fare con quello che io stavo cercando. Per esempio, un passaggio su Schmitt mi è stato indicato da Stuart Elden [docente di Teoria Politica e Geografia alla University of Warwick, n.d.r.], che era il mio “vicino di banco” in archivio (che continuo a ringraziare), e che l’aveva trovato laddove sembrava impossibile che ci dovesse essere. E chiaramente, ciò significa anche che nulla vieta di pensare che ci potrebbero essere molti altri documenti nei quali compare il riferimento a Schmitt e che ancora non sono stati – io credo – trovati.
Ad ogni modo, la ricerca negli archivi del “Fonds Michel Foucault” si è per me rivelata estremamente importante non solo in riferimento all’analisi del confronto con Schmitt, ma anche rispetto a “Bisogna a difendere la società”. Essendo stato il primo progetto editoriale di pubblicazione delle lezioni (apparso per la prima volta come edizione pirata nel 1990 e poi, nella versione definitiva nel 1997), il testo era stato redatto facendo quasi esclusivo riferimento alle registrazioni, che dovevano rappresentare la fonte primaria di riferimento. Eppure, nelle boîte di questo ciclo di lezioni, ci sono molti materiali ancora inediti che, presumibilmente, saranno pubblicati nei prossimi anni. Si tratta di passaggi interessantissimi che, per una questione di permessi, ho potuto citare solo in parte, ma che si sono rivelati davvero utili.
Infine, per dare una nota di colore rispetto al lavoro negli archivi, aggiungo che è stata un’esperienza piuttosto rilevante anche da un punto di vista... “feticistico”. Per parte mia – e non posso che esserne ancora oggi divertita – accarezzavo i fogli di Foucault sperando che ci fosse una sorta di effetto osmotico. Scherzi a parte, mi pare comunque evidente che vi sia un’aura di sacralità che attraversa questi materiali e io credo che ciò sia dovuto (anche) alla fatica richiesta dal confronto con queste carte. O ancora, giusto per citare un ultimo aneddoto divertente: mi ricordo che per entrare in questi archivi si poteva portare con sé una semplice matita; neppure l’acqua era consentita. Tuttavia, nel periodo in cui ero lì, avevo problemi alla schiena e avevo ottenuto di poter accedere con un piccolo cuscino ortopedico, necessario dato che le sedie della biblioteca erano davvero vecchie e scomode. Ebbene, ogni giorno, all’uscita, mi facevano sfoderare il cuscino per verificare che non mi fossi indebitamente appropriata di alcuni fogli. Peraltro, nessuna foto era ovviamente consentita e i controlli erano piuttosto intensi: una scena panottica perfetta!


SF – Torniamo agli autori, Foucault e Schmitt, come storici della filosofia questa volta: c'è un valore storico-filosofico delle loro analisi, in particolare della prima modernità, al di là dell'uso teorico e strumentale che entrambi ne fanno e che noi ora, grazie anche al tuo libro, possiamo comprendere meglio?

VA – In effetti, sia Foucault sia Schmitt fanno un uso degli autori che è perlopiù strumentale e politicamente orientato. Direi che questo è il loro punto di debolezza ma, al contempo, anche il loro punto di forza, quantomeno in termini di originalità, incisività, rilevanza. Eppure, stabilito ciò, non credo sia possibile negare che la loro lettura dei classici è estremamente interessante anche da un punto di vista storico-filosofico; il punto è semmai quello di riconoscere che questo piano si mescola con quello più propriamente politico.
Concentrandosi sulla prima modernità, è importante soprattutto il confronto che sia Foucault sia Schmitt instaurano con Hobbes. Sostanzialmente, per Foucault si tratta di mostrare come il filosofo di Malmesbury, lungi dall’essere il pensatore della guerra, sia in realtà colui che ha strumentalmente escluso la guerra e il conflitto dall’analisi politica, attraverso un’astuta sovrapposizione tra guerra civile e bellum omnium contra omnes (faccio riferimento in particolare a La società punitiva, ma altrettanto rilevante risulta l’analisi in “Bisogna difendere la società”). Egli si chiede inoltre perché Hobbes piaccia così tanto anche ai più timorati, e a questa domanda risponde che il filosofo inglese può anche scandalizzare, ma solo in apparenza; in realtà rassicura per il fatto di tenere sempre vivo il discorso del contratto e della sovranità, che è poi il discorso dello Stato. Per Foucault si tratta, infatti, di riconoscere come la guerra sia una lente di intelligibilità attraverso la quale indagare il funzionamento del potere. Ciò significa esattamente sostenere che una guerra continua attraversa le maglie della società, condizione dalla quale discende esattamente la possibilità di “tagliare la testa al re” (per usare la celebre espressione foucaultiana), vale a dire mettere in discussione la teoria della sovranità di matrice hobbesiana.
Rispetto a Schmitt invece – e si consideri ad esempio Il Leviatano nella dottrina dello stato di Thomas Hobbes – non si può non osservare come l’analisi su Hobbes sia una costante che attraversa tutto il pensiero del giurista e filosofo tedesco e che, di fatto, lo porta a non fuoriuscire mai completamente dal solco teorico hobbesiano. Hobbes è per Schmitt l’esempio classico del decisionismo, colui le cui teorie consentono di rinsaldare la sovranità. Secondo l’analisi schmittiana, infatti, se un elemento di debolezza può essere rintracciato nel modello hobbesiano, questo lo si ritrova proprio nell’aver preteso di ridurre la politica a un mero ordine razionale, dando origine a quella che diventerà la riduzione della legittimità a mera legalità, da cui è derivata a sua volta l’incapacità da parte del Leviatano di evidenziare il nemico in modo univoco. Per Schmitt è infatti proprio l’inesauribilità del politico, ossia la consapevolezza della perpetua possibilità del conflitto, a costituire la garanzia dell’ordine stesso – ordine che, chiaramente, è pensato a partire dalla concezione hobbesiana della sovranità. Non è un caso, dunque, che il confronto con Hobbes sia uno dei motivi centrali attraverso i quali si struttura la massima polarizzazione tra Foucault e Schmitt. I due possono infatti essere intesi come i rappresentanti, nel XX secolo, delle due opposte tradizioni rispetto alla sovranità. Più precisamente e come abbiamo visto, l’uno è sostenitore della necessità di abbandonare il modello del Leviatano, l’altro della perpetua esigenza di individuare chi sia il sovrano.
In realtà, a voler essere precisi e facendo riferimento specifico a Foucault, non possiamo non tenere conto che anche la sua lettura di Machiavelli è, di fatto, completamente schiacciata su Hobbes. Foucault travisa completamente le analisi del fiorentino e, molto probabilmente, questo grosso malinteso deriva dalla lettura de La filosofia politica di Hobbes di Leo Strauss. Negli archivi si ritrovato infatti le tracce dello studio, da parte di Foucault, di quest’opera, nell’introduzione della quale, Strauss accomuna l’autore del Leviatano a Machiavelli. E in effetti, sia in “Bisogna difendere la società” sia in Sicurezza, territorio, popolazione, vale a dire il corso al Collège de France del 1977-78, Foucault non cita mai i Discorsi, ma solo Il principe. Per Foucault, quest’ultimo testo è infatti assimilabile al discorso del sovrano così come sviluppato da Hobbes. Poco importa quindi che, in realtà, il modello polemocritico foucaultiano mostri una grande consonanza con le analisi machiavelliane (soprattutto quelle contenute nei Discorsi) – argomento che meriterebbe di essere adeguatamente esplorato. Il punto per noi è ancora una volta legato al fatto che Foucault avesse un interesse innanzitutto politico nel costruire i suoi obiettivi polemici e che quindi, in virtù di tale obiettivo, andasse anche al di là di un’analisi rigorosa degli autori impiegati.
Inoltre, a tale aspetto si aggiunge anche un’altra questione che in parte abbiamo già visto: si consideri che è lo stesso Foucault ad ammettere che molto raramente citava gli autori da lui impiegati. È il caso, ad esempio, di Étienne de La Boétie, che risulta centrale per comprendere alcuni passaggi di “Bisogna difendere la società”, ma che non viene mai menzionato. Non solo, spostandosi più avanti rispetto alla prima modernità, emerge un imprescindibile confronto con Kant: Foucault ne utilizza il pensiero per parlare della propria concezione della critica, ma senza affidarsi a citazioni minuziose e puntuali. O ancora, sono uscite proprio ora alcune pubblicazioni che, sulla base dei testi conservati presso il “Fonds Michel Foucault”, rendono conto del confronto serrato e interessantissimo di Foucault con Hegel e Nietzsche; tuttavia, si tratta appunto di inediti che appartengono per lo più al periodo giovanile. Più in generale, possiamo ancora una volta osservare che – a eccezione del Foucault degli anni Ottanta, che si appoggia esplicitamente agli autori dell’Antichità greca e romana – questo destino di “non citazione” o di “scarse citazioni” tocca parecchi autori: oltre a Schmitt (chiaramente questa è la mia teoria) riguarda anche Althusser, Edward P. Thompson e gli storici marxisti inglesi, ma soprattutto, prima di loro, Marx. Étienne Balibar sostiene addirittura che Foucault arrivi a una concezione della politica molto vicina a quella schmittiana proprio per prendere le distanze da una specifica comprensione marxiana – e soprattutto marxista – della lotta di classe. Date queste premesse, si capisce quindi che, molto spesso, è difficile reperire i luoghi del confronto tra Foucault e alcuni classici del pensiero politico, evidenza questa che non mette in discussione il valore storico-filosofico delle sue analisi, ma che ne pregiudica l’aspetto filologico e, soprattutto, mette a dura prova la capacità analitica degli stessi lettori dell’opera foucaultiana.
Se ci concentriamo invece solo su Schmitt, il discorso è un po’ diverso. In questo autore ritroviamo senz’altro una trattazione approfondita o, perlomeno, un confronto meno implicito con pensatori quali Machiavelli, Spinoza, Grozio, De Vitoria, Bodin ecc. (solo per citarne alcuni tra i moltissimi). Eppure, se pensiamo a un’opera come Il Nomos della terra, nella quale Schmitt propone una genealogia della modernità attraverso il concetto di jus publicum europaeum, capiamo bene – come giustamente ha osservato Martti Koskenniemi – che si tratta di una ricostruzione politico-filosofica, prima ancora che storico-filosofica. Così come Foucault, anche Schmitt applica dunque delle storture alle proprie analisi. Il punto, tuttavia, è che è proprio attraverso tali storture che si sviluppa l'interesse che noi possiamo trarre dalla lettura dei classici e, più in generale, dalle analisi storico-filosofiche sviluppate da questi due autori.


SF – Chiudiamo passando dalla loro storia politica della modernità, quella di Foucault e Schmitt, al nostro uso politico della storia della filosofia: che cosa traiamo oggi, da questo confronto che hai scelto come soggetto del tuo libro, per concettualizzare l’orizzonte di guerra in cui viviamo oggi?

VA – A tale proposito, riprendo quello che dicevo in apertura e cioè che, sebbene l'autore baricentrale del mio lavoro sia stato senz’altro Foucault, non è possibile non riconoscere l'enorme importanza di Schmitt, soprattutto in merito alla questione della guerra. Per la verità, l’attualità di Schmitt rispetto a questo tema pone raramente dei dubbi. Schmitt è infatti l’autore che ha riconosciuto anzitempo le caratteristiche principali di trasformazione della guerra: il suo divenire operazione di polizia, il suo tramutarsi in senso discriminatorio, il suo estendersi come guerra civile mondiale, laddove – sempre secondo l’interpretazione schmittiana – essa era stata limitata nel corso della modernità, perlomeno all’interno del territorio europeo (lettura quest’ultima che si scontra – come abbiamo detto – con l’interpretazione foucaultiana). Rispetto a Foucault la questione è invece molto diversa, dal momento che il suo pensiero non è mai stato preso particolarmente in considerazione rispetto al tema della guerra. Al contrario, io credo invece che sia un autore fondamentale per riflettere sulla questione. O meglio, ritengo che considerare le analisi polemocritiche di Foucault costituisca uno degli usi più proficui che possiamo fare del suo pensiero nell’attualità.
In generale, per me si tratta di sottolineare che sia Foucault sia Schmitt ci permettono di pensare il conflitto come ciò che sta alla base della politica. È in questo modo che ci consentono di mettere in discussione la pretesa clausewitziana – che ha attraversato buona parte della modernità – secondo la quale è possibile comprendere la guerra come continuazione della politica con altri mezzi. Più precisamente, Foucault contraddice, in modo radicale, la formula di Clausewitz a partire da una comprensione della guerra in senso molto più ampio del semplice scontro armato. Secondo Foucault, si tratta di includere sotto l’etichetta di “guerra” tutti i continui rapporti di forza e processi di tensione (politica, giuridica, economica, sociale) che accomunano e dividono, secondo partizioni differenti e mai definitive, avversari che non appartengono a uno stesso spazio. Pertanto – “contro Clausewitz” – è la politica a dover essere intesa come prosecuzione della guerra con altri mezzi e non viceversa. Da ciò consegue che la guerra è il motore di sviluppo e comprensione della politica. O ancora, secondo questa lettura si può osservare una compenetrazione tra ordine e disordine; il disordine, vale a dire il conflitto, è immanente rispetto al piano dell’ordine e della politica. Sostanzialmente, dunque, Foucault è colui che, alle soglie ultime della cosiddetta modernità, mette radicalmente in discussione la comprensione della guerra e lo statuto del suo rapporto con la politica. Foucault ci dice infatti che cosa si è preteso che fosse la guerra e che cosa invece non è mai stata e, in questo modo, costruisce una genealogia della modernità che è molto diversa dalla genealogia della modernità costruita da Schmitt. Uno degli aspetti di maggiore interesse della prospettiva foucaultiana è infatti quello di contraddire la pretesa distinzione e netta separazione tra guerra e pace.
Dall’altra parte, invece, con Schmitt non assistiamo a un’inversione radicale (à la Foucault) della formula clausewitziana. Eppure, anche con questo autore si osserva un “ripensamento” di Clausewitz sviluppato a partire da una duplice concezione della guerra: da un lato essa è intesa come realizzazione estrema dell’ostilità (quindi come guerra guerreggiata o armato), dall’altro come declinazione naturale dell’antagonismo amico-nemico, vale a dire come modello di riferimento. È proprio in questo secondo senso che Schmitt può fuoriuscire dal solco clausewitziano. O, più precisamente, sebbene egli sia classicamente hobbesiano nella sua disperata ricerca dell’ordine e sebbene individui la necessità di mantenere una netta separazione tra guerra e pace (la sua prospettiva diventa infatti apocalittica nel momento in cui si accorge che questa distinzione viene meno), tuttavia, egli è anche un autore che riconosce il conflitto come originarietà assoluta, come possibilità reale sempre presente, e quindi come chiave di comprensione dell’essenza della politica.
Eppure, al di là dell’utilità delle riflessioni (o di alcune riflessioni) di entrambi gli autori rispetto alla questione della guerra nella nostra attualità, io credo che ciò a cui dobbiamo rivolgerci sia soprattutto il pensiero foucaultiano e quella che possiamo intendere come la critica di Foucault a Schmitt. A me pare, infatti, che le analisi polemocritiche del filosofo francese risultino oggi indispensabili anche e soprattutto per mettere in discussione – in modo sicuramente paradossale, ma di certo fecondo – la brutalità della guerra o, meglio, di un certo tipo di conflitto. Queste analisi presuppongono, infatti, una relazione (polemologica) tra almeno due parti in gioco all’interno della società, le quali sono senz’altro contrapposte, ma non escludentisi. Detto diversamente: nel sistema polemocritico foucaultiano, ciascuno è riconosciuto come altro dalla parte opposta e si costruisce proprio grazie alle relazioni con essa. Concepire la presenza di una guerra continua all’interno della società significa, infatti, comprendere il corpo sociale come intrinsecamente diviso. Ciò implica che l’“altro” non è il soggetto che deve essere eliminato per garantire l’ordine dello Stato o dell’unità politicamente organizzata. E questa è una posizione antitetica rispetto a quella di Schmitt. Possiamo osservare, infatti, che se per Schmitt – o quantomeno per lo Schmitt de Il concetto di ‘politico’ – il nemico è lo straniero, ossia colui che minaccia l’esistenza del corpo sociale e che deve quindi essere neutralizzato, per Foucault, l’altro è colui che, partendo da una posizione svantaggiata riesce nello scontro a far sentire la propria voce e la propria forza. La guerra di cui ci parla Foucault, che è immanente al piano della politica e non perpetuamente presente solo come possibilità, è dunque uno strumento di analisi inclusiva.
È a questo livello, dunque, che si esplicita quella che possiamo intendere come la critica di Foucault a Schmitt, sviluppata in particolare in “Bisogna difendere la società”. Stando all’interpretazione foucaultiana, il discorso schmittiano può essere inteso come un discorso paradossale, poiché prevede una società che uccide se stessa, sulla base di un principio di unità in funzione dell’esclusione. In questo senso, la guerra non è più intesa come matrice di divisione della società in parti che rimangono comunque interne alla società, ma è impiegata come arma volta all’eliminazione dell’una a opera dell’altra. Essa diventa dunque un dispositivo o, meglio, un dispositivo di dispositivi che non garantisce più la squalificazione di qualsiasi dimensione unitaria. Al contrario, serve per difendere la società anche contro se stessa nel caso in cui il nemico sia riconosciuto come proveniente dall’interno – è esattamente questo il senso della “dichiarazione di ostilità interna allo Stato” di cui parla Schmitt ne Il concetto di ‘politico’.
Per tornare alla domanda iniziale, io credo dunque che sia proprio questo tipo di concezione espressa da Foucault che, pur essendo distante da un’ottica pacifista, quantomeno nel senso classico del termine, ci permette di riconoscere il valore produttivo della conflittualità e, allo stesso tempo di dichiararci contro la guerra. O più precisamente, ci consente di assumere una posizione contraria rispetto a quei processi di guerra volti alla neutralizzazione di una delle parti a opera dell’altra e alla costruzione di un soggetto unico e totalizzante all’interno di un corpo sociale. Non è difficile in questo caso pensare a quanto sta succedendo a Gaza in questo momento – luogo di atrocità nel quale affiora esattamente l'eliminazione della relazione polemologica tra le due parti, poiché una di esse sta subendo un processo di completa neutralizzazione a opera dell’altra. Per concludere: direi che è proprio questa una delle più importanti lezioni di Foucault il quale, d’altronde, sapeva perfettamente che il sapere non è fatto per comprendere, ma per prendere posizione.

Filippo Del Lucchese è professore associato di Filosofia Politica all’Università di Bologna e Senior Research Associate, Università di Johannesburg. La sua ricerca verte sulla prima modernità, dal Rinascimento all’Illuminismo, la storia del pensiero politico e il marxismo.