A cura di Elia Pupil
Nicola Zengiaro è dottore in Semiotica presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna. Specializzato in biosemiotica, ecosemiotica e teoria della complessità, la sua ricerca esplora il confine tra vita e non-vita da una prospettiva ecosistemica, analizzando il ruolo della semiosi nei sistemi viventi. Ha pubblicato su riviste nazionali e internazionali come Biosemiotics, Sign Systems Studies, Lexia, Versus, Punctum, Ocula e Linguistic Frontiers. È membro della redazione di Biosemiotics, Animal Studies. Rivista italiana di Zooantropologia e Animot: L’altra filosofia.
Intervista sulla tesi di dottorato del dott. Nicola Zengiaro alla luce del seminario La visione ecosistemica della vita: a partire dalla biosemiotica (2/12/2024)
SEGNALIBRI FILOSOFICI
Buonasera Nicola, innanzitutto vorrei chiederti su cosa verte il tuo campo di ricerca, per inquadrare al lettore gli argomenti con i quali si confronta la tua tesi.
NICOLA ZENGIARO
Io provengo da filosofia, ho fatto la laurea triennale con Maurizio Ferraris a Torino e poi mi sono laureato in una magistrale a Santiago di Compostela sull’etica animale. Mi sono sempre occupato di questo campo di studi, per cui trattai l’ontologia dell'animalità di Jacques Derrida in triennale, poi in Spagna mi concentrai sulla questione dei diritti degli animali. In seguito, ho fatto un secondo master a Verona in cui mi sono occupato di psicanalisi lacaniana. Lì ho scoperto la biosemiotica perché Federico Leoni mi introdusse al tema. Durante tale percorso ho redatto una tesi circa l’ambito biosemiotico, però dal lato psicanalitico, e mi sono occupato principalmente di come l'ambiente offre dei segni che noi non siamo capaci di rilevare, ma che altre forme di vita sì. Per cui tutta ho seguito l’interazione tra la teoria dell’Umwelt di Jacob von Uexküll e la filosofia di Charles Sanders Peirce, grande filosofo e matematico americano, padre della semiotica contemporanea, la cui ricezione è ancora è un po' complicata in Italia. Da quel punto di vista Claudio Paolucci in particolare è un buon mediatore, questo perché lui è riuscito in Strutturalismo ed interpretazione (2010) a fare una grande intersezione tra varie branche della semiotica. Dal suo lavoro, poi, si è riaffermata una innovativa semiotica cognitiva, la quale si occupa di integrare le visioni della cognizione umana con le teorie semiotiche. Questa naturalmente è entrata in dialogo con la biosemiotica, anche perché quest’ultima si occupa dell’emersione del senso in tutti i sistemi viventi. Io ho fatto una proposta di dottorato sulla biosemiotica, sviluppando proprio una critica sull’assioma secondo cui la semiosi e la vita sono coestensive.
SF
Molto bene, direi che ora possiamo introdurre al lettore qualche peculiarità della biosemiotica. Tu parti dal lavoro di Kalevi Kull nello studio sulla genesi lessicale della stessa denominazione disciplinare, giusto?
NZ
Kalevi Kull ha fatto un grande lavoro sul termine biosemiotica, andandone a ricercare la genesi storica. È stato Vincent Klezinski ad utilizzare per la prima volta il termine nel 1855; lui era un chimico viennese che studiava le patologie della vita animale e vegetale. Con il termine biosemiotica Klezinski introduce quell'approccio di indagine utile a rilevare tutti marcatori chimici che facevano da indicatori alle situazioni patologiche. Tu sai che la semiotica deriva dalla semeiotica, ovvero lo studio dei segni sul corpo, istituzionalizzato come disciplina medica nello studio di marker specifici. Cosa poi successe? Il termine biosemiotica dal 1855 non venne utilizzato fino al 1962, anno in cui lo psichiatra Friedrich S. Rothschild lo usò per indicare tutte le motivazioni espressive degli animali, in particolare tutti gli stati emotivi, in maniera molto simile a quello che noi intendiamo nell’uso moderno. Da questo punto di vista, si è andato ad analizzare come gli animali, attraverso la loro partecipazione alla vita, interpretano il mondo. E’ stato poi Thomas Sebeok a fare un lavoro enorme, per oltre 40 anni, partendo dal 1963 con la nozione prima di zoosemiotica e successivamente utilizzando quella di biosemiotica. Questa nozione non prese piede, soprattutto perché negli anni ‘60 Umberto Eco - assieme a Barthes ed a tanti altri padri della semiotica moderna - andò a criticare moltissimo questo termine perché, nella prospettiva disciplinare dell’epoca, v'era solo la cultura capace di dare un’interpretazione espressiva dei segni – soprattutto il tema era legato all’espressione simbolico-linguistica della semiotica. Mentre, in questo scenario, Thomas A. Sebeok sosteneva che gli animali potevano leggere, interpretare i segni dell'ambiente e, infine, manipolarli.
SF
Era un po’ il clima dell’epoca, vedasi tutta la discussione attorno all’iconismo o attorno alle dimensioni della motivazione e dell’arbitrarietà da ricercarsi nella caratterizzazione del segno iconico. Nonostante questo, sempre negli stessi anni, l’etologia con Lorentz cercava di ricostruire alcuni dei momenti interpretativi degli animali studiandone le loro condotte.
NZ
Esatto, per noi dire che gli animali interpretano i segni ambientali è un’ovvietà, ma nel 1960 non lo era. Se tu vai a vedere la prima Lezione di Semiotica di Eco trasmessa dalla Rai nel ‘64 – ed ora reperibile su YouTube - lui fa un intervento su questi zoosemiotici “un po' strani” e dice una cosa che secondo me è sfuggita un po' a tutti nella contemporaneità, ovvero che il problema di giustificare la zoosemiotica è una problematica che va a decentrare l’umano, cioè va a decentrare la prospettiva che il linguaggio sia una qualità solo umana. La problematica di Eco era che, se Sebeok aveva ragione, ovvero che tutte le forme di vita possono leggere e interpretare i segni dell’ambiente, quale caratteristica definisce e individua il fenomeno dell’umano e il suo linguaggio? Si trattava dunque di dover ripensare la nota characteristica, come direbbe Agamben, dell’umano. Questo, in realtà, aveva messo all’erta Sebeok, il quale dal ‘63 fino agli anni ‘70 cerca di utilizzare il termine zoosemiotica, per poi raccogliere tutto il dibattito sulla cognizione e il linguaggio animale sotto il grande cappello della biosemiotica. La biosemiotica, dunque, è la zoosemiotica che poi diventa altro, ampliandosi. Infatti, è grazie a Martin Krampen che nasce la biosemiotica come noi la conosciamo. Martin Krampen era un medico e semiologo tedesco che iniziò a sostenere che anche le piante hanno una forma di semiosi, creando quella branca della biosemiotica che è oggi la fitosemiotica. Da questa diversificazione si crea una struttura stratificata tra la zoosemiotica, la fitosemiotica e l'antroposemiotica: questa struttura multiplanare è la semiotica della natura, ovvero la biosemiotica. In questa complessità, la semiotica inizia ad occuparsi della semiosi non umana, Sebeok riprende la teoria del grande semiologo russo Juri Lotman. Questa ci dice che c’è un livello primario, quello del corpo, dell'animale, che gli esseri umani sono, e poi vi è un livello culturalizzato. Ma i piani di questi sistemi di semiosi che si distinguono per complessità non si escludono a vicenda, anzi, sono come delle matriosche. Nel mio lavoro di tesi ho ripercorso la storia della biosemiotica, cercando di farne un'archeologia a là Foucault, per cui sono andato a vedere tutti quei manoscritti secondari che non vengono raccontati da chi ha fatto la storia della biosemiotica, come Kalevi Kull, Donald Favareau, Claus Emmeche, Marcello Barbieri etc. Praticamente, quello che ho rilevato è che dopo la morte di Sebeok nel 2001, i convegni di biosemiotica (i Biosemiotic Gatherings che si svolgono ancora tutti gli anni) portano all’ incontro di tante figure, spesso provenienti da campi professionali diversi. In questo contesto rigoglioso, nel 2004, si incontrano tutte le personalità maggiori della biosemiotica moderna e, in un pub di Praga cercano di definire a tavolino l’assioma della biosemiotica, quella struttura che permette di definire l’oggetto di ricerca della biosemiotica, che è: la vita e la semiosi sono coestensive. Tutto ciò che è vivo è semiosico, per cui dalla cellula - che rappresenta l’unità minima di base – fino alle foreste, tutto quanto è un processo di interpretazione. Da questo punto di vista vi è una variazione sul tema che porterà, ad esempio, Marcello Barbieri in polemica con Jesper Hoffmeyer e Claus Emmeche (i quali vedevano nel meccanicismo di certe dinamiche biologiche il marker del pre-semiotico) a confrontarsi con lo stesso Sebeok, il quale gli pone un altro suo assioma, ovvero che vi è semiosi solo dove c'è un'interpretazione. Al contrario, Barbieri sostiene che c'è un certo tipo di connessione naturale che non propone una interpretazione per come la intendiamo, però dispone di un processo semiosico. Nella mia tesi ho messo in discussione l’assioma sebeokiano della coestensività di vita e semiosi, perché il termine vita è abbastanza sfumato, è culturalmente situato ed è dipendente dal contesto e da tal dipendenza manifesta i suoi caratteri ideologici. Insomma, ho scritto una tesi di 700 pagine sulla vita, direi una sorta di introduzione ad un tema così complesso.
SF
Ricordo che contro l’idea che la proteosintesi sia un possibile meccanismo tra elementi pre-semiotici, più o meno “meccanici”, il primo Barbieri va a ricercare l’origine dei meccanismi biologici del codemaking, nella teoria del ribotipo e nell’elemento del ribosoide. Mi riferisco all’idea in Biosemiotics: a new understanding of life, dove il ribosoma interpreta il ruolo del codemaker – ovvero, il produttore degli interpretanti e l’innesco della vita (e coestensivamente del significato) - differenziandosi così dal semplice copymaker rappresentato da un normale catalizzatore biologico quale l’RNA-polimerasi.
NZ
Questa posizione proviene da un dibattito che noi conosciamo molto bene e che già prima siamo andati a citare, che era quello tra Umberto Eco e Giorgio Prodi, un altro grande padre della biosemiotica. Quest’ultimo negli anni 70 mette in discussione il problema della soglia inferiore della semiotica presentata da Eco, e scrive Le basi materiali della significazione (pubblicato proprio grazie allo stesso Eco), che è un libro straordinario. Io sono uno dei più grandi fan di Giorgio Prodi, e lui sosteneva che c’era effettivamente una predisposizione naturale ad attivare i processi semiosici di comprensione e lettura dell'alterità. Che cosa significa? Che già a livello chimico due elementi possono incastrarsi, mentre altri elementi no: in quell’incastrarsi di elementi naturali avviene un processo di lettura e comprensione di ciò che è l'altro. In altre parole, possiamo affermare che laddove due elementi naturali si incastrano, aumentando nel loro incontro la complessità, esiste un processo di lettura e selezione, perciò interpretazione, delle dinamiche naturali tra elementi eterogenei. Insomma, acqua e olio non si mescolano, mentre acqua e sale sì, propriamente perché c’è una selezione naturale che si esprime nella semiosi.
SF
Barbieri in questo contesto cerca invece la differenza tra codice ed interpretazione quale soglia per differenziare le norme tra i vari livelli di semiogenesi, funzionale al fine di segnalare il punto che pone il distinguo tra chi degli “interpreti” ha un sistema nervoso e chi no.
NZ
Barbieri si pone sul filo di questa ricerca, però nel 2001 Sebeok muore e con lui muore anche questo dibattito che Barbieri stava proponendo (come racconta lui stesso nel suo ultimo libro pubblicato l’anno scorso). Infatti, nel 2004, sempre in questo bar di Praga, lui propone di sostituire il termine biosemiotica con la sua di teoria, senza avere però alcuna approvazione. In seguito, lui inizia nel 2005 ad essere il chief editor di The Journal of Biosemiotics, rivista ora non più esistente, per poi iniziare con Springer la rivista Biosemiotics, lasciarla nel 2012 e fondare Biosystems. A partire da tutti questi dibattiti e teorie che si scontrano, secondo me, la grande forza della biosemiotica è stata quella di aver poi virato verso una filosofia della natura. Invece Marcello Barbieri è rimasto stretto sulla sua teoria che lo ha fatto rimanere un po' isolato dal piano dell’interdisciplinarietà. Infatti, io in realtà non esploro molto la sua teoria, la uso per mostrare che ci sono altri livelli di semiosi; d’altro canto, anche l’anno scorso proposi assieme ad Alexei Sharov - grande conoscitore di Giorgio Prodi - l’idea che la semiosi si possa estendere al di là del principio della vita. Da quello che ho visto nella mia ricerca è che la biosemiotica ha virato verso un'identificazione della complessità dell’organismo con la complessità della semiosi, per cui più un organismo è complesso e più i processi semiosici si possono classificare, identificare, eccetera. Si sta costruendo una scala a gradienti in cui, dalla “potential-semiosis” - che è l'ultima teoria di Alexei Sharov – si va alla proto-semiosi, all’eu-semiosi e la semiosi tout-court, che noi consideriamo l’espressione standard nei nostri processi culturali.
SF
Da qua si apre il dibattito su quale sia la forma originaria della semiosi?
NZ
Esatto, e la problematica che ho riscontrato è che se noi andiamo a cercare l’origine della semiosi, ovvero la semiogenesi, andiamo a cercare l’inizio di ciò che noi chiamiamo vita. Questo porta ad un lavoro che consiste prima di tutto nell’identificare che cosa gli scienziati intendono con “vita”. Nella mia indagine (che ho pubblicato recentemente sulla rivista Linguistic Frontiers, in un articolo intitolato “Exploring Life’s Boundaries: Biosemiotics and the Challenge of Defining Life”), proveniente da una analisi semiotica dei testi di astrobiologi, biologi, chimici, ho notato che spesso tale definizione risulta impossibile. Dunque, ho lavorato su tutte quelle costruzioni scientifiche che indirettamente sfumano i bordi tra ciò che è vita e ciò che non lo è – seguendo studi come quello del geologo Robert Hazen (2008), teorico dell’evoluzione minerale -, utilizzando la metodologia semiotica per rintracciare il continuo della semiosi tra l’organico e l’inorganico, che è un'altra cosa che faceva Peirce. Quello che ho cercato di fare, attraverso casi studio sulla xenobiologia, l’evoluzione minerale e la vita sintetica, è provare a fare una biosemiotica più aderente alla semiotica peirciana senza tradire quello che è il suo sinechismo. Insomma, se la vita e la semiosi sono coestensive, senza sapere cosa è la vita come facciamo a sapere fino a dove si estende la semiosi?
SF
Parlando della definizione di vita: Barbieri è un esempio per mostrare una tra le varie definizioni di vita che danno alcuni biosemiotici. Ma queste definizioni spesso sono contrastanti: se da una parte vi è un certo consenso nel considerare la semiosi come coestensiva alla vita, dall’altra – come tu rilevi – lo stesso concetto di vita dipende da un network che gli fa da sfondo e che apre ad una molteplicità di varietà significative. Ho in mente l’articolo Semiosis sistems from logical incompatibility in organic nature di Kalevi Kull, va a definire la vita come quella realtà dove vi è arbitrarietà nella costruzione interpretativa, creatrice di significato e dipendente dalle tracce interpretative istanziate precedentemente (cfr. scaffolding) . Da ciò poi va a trattare i meccanismi automatici come forme di semiosi “degenerata”. Nella tua prospettiva di ibridazione ecosistemica, che ne pensi?
NZ
Sulla questione dell’arbitrarietà, io potrei essere d'accordo: secondo il mio punto di vista, appoggio completamente una prospettiva materialista radicale, per cui io uso moltissimo la teoria dello scaffolding di Hoffmeyer. L’idea che trovo geniale è che secondo questa teoria, esiste un impalcatura, che è la condizione di possibilità che permette alla vita non solo di manifestarsi, ma anche di comunicarsi. Tuttavia, io considero lo scaffolding già semiosico. Se tu prendi l’articolo di John Deely “Building a Scaffolding”, lui dice esattamente questo: se noi imponiamo le condizioni di possibilità della vita della semiotica, dobbiamo tracciare un continuum, non un gap. Infatti, secondo me, questo scaffolding da cui la vita e la sua organizzazione proviene è precisamente la materia inorganica: se tu segui tutte le teorie, della fisica alla biologia alla chimica, ti dicono che la materia organica proviene dalla materia inorganica, e questo è un principio di scaffolding visto in un continuum. Dunque, io ho utilizzato la teoria di Hoffmeyer per sostenere che quando analizziamo un ecosistema, noi dobbiamo tenere in conto la materia inorganica e la materia organica, il modo in cui esse comunicano, e che la materia inorganica non è un'entità passiva, inerte, una materia che aspetta di essere significata, cioè non è una tabula rasa, ma è qualcosa in perenne movimento e che ha permesso il manifestarsi della vita. È qua che io rilevo una continuità tra ciò che è vivente e ciò che non lo è. Sulla questione dell'arbitrarietà, per esempio, la semiotica Giorgio Prodi è in sintonia con l’assunto di Kull: l'arbitrarietà la si osserva nel fatto che una molecola interagisce e si lega con un'altra molecola in un processo costruito su criteri di selettività. Quando, per esempio, noi mescoliamo l'acqua e il sale e formiamo un terzo elemento andando a saturare gradualmente la soluzione: questo lo dice anche René Thom nella sua analisi della complessità, ovvero che ci sono elementi che attraverso una selezione e una decodificazione naturale danno luogo ad un nuovo procedimento di complessificazione, individuando l’elemento terzo. Sull’argomento della selettività naturale ho scritto nel 2022 un articolo, sempre su Linguistics frontiers, “From biosemiotics to physiosemiotics. Towards a speculative semiotics of the inorganic world”, dove mostravo proprio questo livello di selettività e indifferenza dei materiali: vi sono materiali che sono indifferenti, dunque non significanti, e vi sono altri che invece nel momento di incontro e incastro danno luogo a dei processi semiosici in funzione di ciò che è significante per loro in un determinato ambiente. Così facendo non voglio far professione di esse pan-semiotico, come poteva essere magari Peirce, però sono molto affine alla semio-fisica di John Deely e René Thom, per cui non è che l'universo è tutto significante, ma ci sono delle cose che naturalmente provengono da un'interazione significante e quindi semiosica. Io sono anche molto affine alla teoria di von Uexkull, soprattuto quando sostiene che l'universo è pieno di segni, alcuni sono significanti per te, secondo la tua fisiologia, per cui c'è una marca percettiva ed una operativa che costituiscono il tuo mondo soggettivo, laddove quei segni strutturano il tuo universo di senso.
SF
E’ il merken und wircken che definisce il cerchio funzionale. È come se vi fosse una scrematura in un sovrappiù informativo in cui si manifesta un meccanismo di rifiuto degli stimoli esterni.
NZ
Esatto! La teoria dell'Umwelt si basa sull'analisi dei circoli funzionali di un dato animale, in cui da un ambiente costellato di segni rilevanti – i segni percettivi – vengono attivate risposte dalla capacità e dalle qualità dell'animale – i segni operativi. Quello che ci attiva in quanto animali e sistemi cognitivi nel mondo è sì la selezione di determinati segni significanti, ma è pure il lavoro di repulsione di tutto il resto di segni irrilevanti. Questo è un processo di selezione di segni limitati in base alle capacità dell’organismo e alle sue qualità specie-specifiche, atte a ponderare l’importanza degli stimoli onde evitare qualsiasi iperstimolazione con conseguente assenza di comprensione.
SF
In un tuo recente articolo uscito su Biosemiotics vai a riprendere l’esempio del rapporto tra il ragno e la sua tela, in accoppiamento strutturale con l’ambiente circostante.
NZ
Questo è molto simile a quello che fa la ragnatela di un ragno. Non so se lo sai, ma la costruzione di una ragnatela dipende dalla temperatura, dalla pressione atmosferica, dall'alimentazione del ragno, dall’umidità…una ragnatela di un certo tipo, con una certa composizione chimica, diventa più resistente o meno a seconda del suo accoppiamento con l’ambiente, permettendo al ragno di modificare le sue strategie nello strutturare la ragnatela. Come ho scritto in “Vibrant Worlds: An Artistic Interpretation of Material Intelligence in the Spider’s Umwelt” (2024), la ragnatela agisce come un'estensione sensoriale, in cui le vibrazioni della trama fungono da canali per amplificare la sua capacità di rilevare e rispondere agli stimoli. Ciò aumenta la capacità di spazializzazione del ragno stesso. Quello che hanno rilevato è che, quando una mosca rompe la tela del ragno senza venir catturata, grazie al contributo che la condensazione della rugiada sulla trama della tela stessa porta all’economia dei legami molecolari costituenti la fibra, questa si rimargina in modo autonomo. Quindi, le molecole si riorganizzano, ritornano allo stato liquido iniziale e ricreano i legami l’una con l’altra. L’esposizione all'acqua o all'umidità ambientale porta la fibra a trasformazioni morfologiche (fenomeno noto come supercontrazione), che va ad irrigidire le fibre disallineando le catene proteiche della seta, così da ripararle dopo l’essicazione. La tela del ragno può essere interpretata quindi in base ad un’agency materiale e il frutto di una esternalizzazione delle funzioni cognitive del ragno, questo perché, come spiega bene Laura Tripaldi (2020) in un recente libro, la stessa tela ha delle proprietà capaci di recuperare determinate morfologie. Dunque la ragnatela è l'estensione di ciò che chiamiamo la vita del ragno, così come i nostri prodotti sintetici sono l'estensione di quello che chiamiamo vita umana. Recentemente sulla rivista Sign Systems Studies ho pubblicato l’articolo “Plasticumwelt and umwelt diffraction: A new materialist ecosemiotics” su questo rapporto estensivo dei materiali sintetici in analogia con le competenze biologiche dei ragni. I processi di selezione dei segnali però non accadono solo nei sistemi organici: questi accadono anche nella sfera delle nuove tecnologie sintetiche a livello molecolare: ho in mente specifici studi sulle nanotecnologie. Nel 2021 ho studiato il caso di un polipo di gel - una sorta di materiale sintetico in polimero, costruito con l’uso di una stampante 3D – che, se messo in immersione in una soluzione di acqua salata, è capace non solo di rispondere a stimoli ambientali, ma quando gli veniva asportata un’appendice, questa si andava a rimarginare e rigenerare.
SF
E questa estensione alla vita dell’agency ragno tu la interpreti ovviamente nella prospettiva continuista per cui tale estensione va ad estendere anche la capacità di costruire interpretanti dell’Umwelt del ragno. Riprendendo Vibrant Worlds, quando hai fatto riferimento all’accoppiamento tela-ragno, mi ricordo che tu facevi riferimento al processo di isteresi, riferito alla velocità con cui il materiale della tela si ristruttura: più veloce è la catena di sollecitazioni, più veloce è la sua morfodinamica - dato che parlavi prima di Thom e del suo studio qualitativo circa la variazione globale del piano di condotta di una funzione in base del parametraggio delle sue variabili di controllo locali. Il fenomeno, che può essere quasi declinato come effetto-memoria del materiale, modula la risposta sulla base della storia precedente della struttura sollecitata: questo comportamento ti porta a definire tale struttura “opera aperta”. Cosicché il rapporto tra ragno e ragnatela diventa una sfida interpretativa del fruitore con l'opera aperta, che è un'opera corporea.
NZ
Giusto! C'è un capitolo di un libro che si chiama Evoluzione e Tecnica in cui ho provato a dire che la vita si estende fino a dove la tecnica lo permette. Ripensando a quello che dice Barbieri, se noi consideriamo che il DNA possa essere considerato semiosico, qualsiasi tua parte va a estendere ciò che sei tu nell’ambiente, amplificando lungo le tracce lasciate dal tuo corpo nel mondo ciò che partecipa alla tua composizione come organismo in un ecosistema. E quindi su questa intuizione ho provato a sostenere nel capitolo “Organismi e tecniche evolutive: una visione ecosistemica” che ogni animale è un'opera aperta. Tutti gli organismi sono “opere aperte” nel senso echiano del termine, laddove essi appaiono come una sorta di autore la cui opera corporea, fatta di materiali organici e inorganici, interni ed esterni, dev’essere continuamente riorganizzata dai fruitori, i quali sono continuamente chiamati in causa per compiere scelte interpretative in una relazione ecosistemica. Allo stesso tempo la vita è esattamente così, è un'opera completamente aperta. Noi non possiamo definire dei bordi precisi fin dove noi ci estendiamo; le nostre capacità cognitive si estendono là dove si estendono i nostri sensi e le nostre tracce, e questo lo si ritrova anche negli autori che stanno lavorando sulla cognizione distribuita ed estesa come sono Lambros Malafouris e Andy Clark. Anche Sebeok ha fatto un lavoro negli anni 70 insieme al figlio di von Uexküll, Thure, differenziando i concetti di endosemiosi e esosemiosi: la prima è la semiosi interna al corpo, inteso come ecosistema, la seconda è la semiosi esterna al corpo. Il rapporto organico tra gli elementi dell’ecosistema-corpo si regge sulla comunicazione tra le proprie parti, disciplinate da una serie di interazioni interpretative delle quali tu non sai assolutamente nulla. La dimensione della semiosi culturale, in cui è l’Io, il Soggetto, ad essere l’interprete principale della comprensione dell’ecosistema, deve esser soggetta ad una profonda decostruzione, perché quello che noi chiamiamo la mia interpretazione non è altro che una serie di piani infiniti di interpretazioni corporee che si concatenano tra loro e costruiscono un rapporto. Ma questo lo diceva già Gregory Bateson e, a suo modo, Lynn Margulis con la questione dell’olobionte. Con questa impostazione continuista bisogna rivedere quel famoso esempio della scottatura fatta da Eco in Kant e l’ornitorinco. Eco nell’esempio della caffettiera diceva che quando io mi scotto con la caffettiera non vi è interpretazione. In realtà, a mio dire, l’evento va a dare una forma di biosemiosi interpretativa prima a livello cellulare e successivamente tramite il sistema nervoso, e l’intero sistema percettivo che poi va a trasformarsi in una esperienza che dà luogo ad una interpretazione a livello cosciente passa una serie di stratificazioni che il corpo già in precedenza ha interpretato. Banalmente, prova tu a mettere una mano su una caffettiera bollente mentre sei sotto anestesia locale: la tua pelle si brucerà lo stesso, le cellule lanceranno segnali di allarme, ma il tuo cervello non riceverà il messaggio.Su Thom e sulla morfodinamica bisogna andare a problematizzare a mio dire l’idea di piega, che è in sintonia con la filosofia deleuziana ed è molto interessante, però è anche limitata: io ho seguito un po' di più la topologia di Tim Ingold, riprendendo il concetto di meshwork, cioè di rete in cui il nodo è quello che noi chiamiamo pertinenza ed in cui le dinamiche dei rapporti relazionali tra nodi diventano oggetto dei nostri studi. Nella mia ricerca, io ho mescolato la teoria della corrispondenza di Giorgio Prodi con la teoria della risonanza di Thom e Gilbert Simondon. A partire dalle riflessioni di questi autori ho impostato un modello della risonanza semiotica – che descrive quando due elementi eterogenei entrano in una sorta di oscillazione omogenea – dando luogo ad un processo comunicativo di tipo materiale.
SF
Tu riprendi il concetto di risonanza e lo poni anche di fronte ad attuali modelli, quale quello di Bacigalupi sul rumore rilevante. E’ molto interessante questo modello per esibire l’alta dinamicità e la non linearità dei processi di cui andiamo a parlare: vedi il rinforzo delle connessioni neurali causate da questo rumore rilevante, che non è quello che semplicemente si forma nella comunicazione tra un neurone e l’altro secondo un semplice modello emittente-ricevente (sulla base del modello integrate and fire), ma va a designare la risultante della coazione dei vari cicli di depolarizzazione neuronali che si sovrappongono e si possono anche “sincronizzare”. Questo grazie alle modificazioni indirette delle distribuzioni di concentrazioni di gradiente ionico all’esterno degli stessi neuroni, portandoli così ad integrare le strategie di rinforzo e le condizioni di plasticità.
NZ
Conobbi Bacigalupi a Tartu: all’epoca lui non conosceva bene la semiotica di Giorgio Prodi e confrontando le nostre teorie, la mia sotto influsso prodiano, la sua attorno lo studio sulle dinamiche di integrazione neurale, mi ha presentato anche lui la questione della risonanza, che banalmente era una pietra di inciampo teorica a cui lui è arrivato da una parte, ed io sono arrivato da un altro – per questa ragione ho dedicato l’ultimo capitolo della mia tesi alla “risonanza dell’amicizia” in cui racconto il nostro incontro. Ci siamo trovati in questa descrizione della semiogenesi come processo di risonanza e corrispondenza: lui mi spiegava questa sua idea dal punto di vista delle modellizzazioni neuroscientifiche, e poi me la disegnava, grazie alla sua formazione di architetto. Quando due sinapsi si iniziano a interconnettere attraverso uno sforzo mnemonico o qualsiasi meccanismo di apprendimento a rinforzo, si sviluppa metaforicamente la stessa situazione. Io non ho grandi competenze di neuroscienze: mi sono ispirato a questo modello nella mia tesi, sono partito dai materiali fino a descrivere, facendo un percorso molto biografico, la mia amicizia con Josh, che è stato un processo di risonanza. Quando tu leggi Cosa può un corpo di Deleuze, lui si chiede perché Pietro mi sta antipatico e Paolo mi sta simpatico: la risposta sta nel fatto di cui discutevamo prima, alcune cose si collimano e altre no. A livello sociale questo meccanismo deriva da una sorta di intuizione di ciò che compartecipa con me a quello che sono, al mio rapporto costitutivo della mia personalità; a livello materiale accade più o meno lo stesso, le cose si sintonizzano, accrescono la loro complessità insieme o si evitano, entrando in conflitto. Vi è una continua oscillazione di composizione e scomposizione in ogni rapporto. Io chiamo questa corrispondenza semiosica. Recentemente il sociologo tedesco Rosa Hartmut ha scritto un libro in cui sviluppa una teoria sociologica della risonanza sostenendo che le società riescono a integrarsi, comunicarsi e svilupparsi quando questo processo di risonanza avviene; dove c'è risonanza c'è una composizione delle società, una cultura.
SF
Si può dire, un po’ a là Pennisi, che la biologia la si può vedere sia come scienza fondata su una prospettiva di terza persona, sul Korper, sia la si può integrare – o può essere integrata - una in una dimensione etologica, dove la scienza studia ciò che l’organismo può effettivamente fare all’interno del suo tessuto simbolico e biologico. Connaturato dallo studio sulle cecità cognitive dell’organismo in oggetto, si apre il campo di indagine circa la condotta o l'insieme di risonanza delle condotte, questo inteso come la capacità globale di sviluppare - da parte di più sistemi - un piano di interazione in cui l’assemblage tra condotte differenti apre a nuovi spazi virtuali d’azione o - mutuando dalla fisica in maniera impropria - a nuovi “spazi delle fasi”di un sistema. Prendendo a prestito il gergo spinoziano - che è una delle voci a sfondo del tuo lavoro, in particolare l’interpretazione semiotica di Spinoza – tale insieme di risonanza tratta del rapporto tra l’aumento della potenza di affettare ed essere affettati nella trama dell’economia degli incontri e il livello di soglia del gradiente di intensità che caratterizza l’essenza di qualcosa, in una prospettiva di produzione continua del senso e di una sua continua “emersione”.
NZ
Assolutamente sì. Io sono molto affine a un libro che ha scritto Lorenzo Vinciguerra, La Semiotica di Spinoza, che secondo me, è un libro molto affascinante, che con estrema cura mi indirizzò ad approfondire le correlazioni col mio campo, nell’orizzonte panteista e continuista che sviluppa i piani del senso in un universo in cui tutto è connesso, senza dover riferirci a strane tendenze new age. Noi possiamo compartecipare integralmente con ciò che chiamiamo “natura” – senza sapere tuttavia a cosa ci stiamo riferendo. Barthes dice che la semiotica nasce come critica all'ideologia; io ho sviluppato una critica all'ideologia della biosemiotica proprio per questo motivo. Secondo me, la biosemiotica ha molta ragione nel dibattito contemporaneo (secondo me la biosemiotica è il futuro della semiotica, come ho detto al Congresso Mondiale di Semiotica a Varsavia), ma gli assiomi che danno luogo alle sue teorizzazioni fondamentali devono essere discussi e ritoccati. Quando due sistemi si intersecano tra di loro non vi è intenzionalità (nel senso antropocentrico del termine) ma c'è direzionalità. Quei frangenti di direzionalità significano arbitrarietà: le cose hanno determinate condotte, mostrando le loro agency, ma come sappiamo dal buon Hume e dalla sua analisi sulle spiegazioni causali, le cose potrebbero andare in un altro modo, cioè in altrettanti modi possibili che nemmeno immaginiamo. Le leggi della natura sono degli habits (direbbe Peirce), cioè qualcosa che si stabilisce a partire dalla direzionalità di ciò che in origine ha funzionato e successivamente si è sedimentato. Sulla questione degli habits in semiotica e biosemiotica ho redatto per la rivista Biosemiotics in “The Biosemiotics Glossary Project: Habit” insieme al collega Simone Bernardi della Rosa. Perché noi siamo fatti esattamente in questo modo e non in un altro? È proprio perché si sedimenta un'abitudine che parte da una sorta di direzionalità che all'inizio può essere casuale, ma poi inizia con forza a orientarsi verso un aumento generale di complessità, con una componente stocastica sempre più presente. Perché se noi calpestiamo una pietra pomice questa si rompe e se calpestiamo un diamante questo non si rompe? Per la qualità del materiale, mi dirai, ma anche per la composizione atomica che sta alla base: ci sono configurazioni diverse delle morfologie dei legami. Se pensi che la grafite e il diamante hanno gli stessi atomi di carbonio, ma posizionati in maniera diversa, tu mi dirai: vabbè, però uno è una cosa e uno è un’altra. Ma in realtà dipende dall'ecosistema in cui si individuano. E questo, a mio modo, lo chiamo interpretazione materiale. Ciò su cui mi baso è che la semiosi non è un fatto né interamente culturale né biologico, ma è qualcosa di distribuito su agency materiali: nel momento in cui la linearità di una condotta viene interrotta, l'agency materiale che la interrompe appare frutto di un'interazione evolutiva tra gli oggetti dinamici. Ho recentemente pubblicato un articolo in spagnolo, con il mio gruppo di ricerca di biosemiotica in America latina, dal titolo “En búsqueda de los límites de la semiótica: desde el umbral inferior de Eco hasta la ecosemiótica materialista”, proprio sui limiti della semiotica, in cui traccio proprio questo panorama qua e mi inserisco con la mia proposta dell’ecosemiotica materialista. Tra questi limiti, è evidente quello metodologico di chiudere tutta la semiotica al testo, omogeneo e coerente, che è completamente limitante se tu parli di un organismo vivente e della rete di pratiche in cui questo è immerso.
Elia Pupil è uno studente del corso di laurea magistrale in Scienze Filosofiche all’Università di Bologna; i suoi interessi vertono sui campi della filosofia della scienza e della tecnica, specificatamente sul rapporto tra scienze cognitive, IA e teoria della complessità . Tra i vari progetti a cui ha partecipato, segnala la stesura di un’intervista-dialogo a sei mani “Con Toni Negri” insieme al pensatore italiano (Con Toni Negri. Intervista di Francesco Barbetta ed Elia Pupil – GramsciOnline).