A cura di Paola Pia Santoro, Elia Pupil, Giulia Muccioli e Margherita Bovo
Chantal Jaquet è docente di storia della filosofia moderna presso l’Università di Parigi I Panthéon-Sorbonne. La sua ricerca si concentra sulla filosofia del XVII secolo, sulla filosofia del corpo e sulla filosofia sociale, affrontando questioni circa lo studio della potentia agendi, dell’interconnessione causale, del rapporto mente-corpo e della polemica sul determinismo in Spinoza. Inoltre, conia il termine transclasse a partire dalla teoria della riproduzione sociale di Pierre Bourdieu, analizzando il fatto sociologico nell’opera Les transclasses ou la non-reproduction (PUF, 2014), partendo peculiarmente dall’analisi della letteratura francese contemporanea. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Sub specie aeternitatis. Étude des concepts de temps durée et éternité chez Spinoza (Classiques Garnier, rééd. 2014) ; Les expression de la puissance d’agir chez Spinoza (Les éditions de la Sorbonne, 2022) ; L’unité du corps et de l’esprit. Affects, actions passions chez Spinoza (PUF, 2004, rééd. 2015) ; Spinoza à l’œuvre (Éditions de la Sorbonne, 2017) ; Juste en passant (PUF, 2021).
Intervista sul libro: Les transclasses ou la non-reproduction, Paris, PUF, 2014. In occasione della sua traduzione in italiano I transclasse, o la non riproduzione (2023) apparsa per i tipi de “La città del Sole”.
Segnaibri Filosofici - Nel 2014 ha presentato due termini: quello di “transclasse” e quello di “non riproduzione”. Ha affermato di essersi basata sul modello della “trasgressione” e sul concetto di “transizione” (riferendoci alla formazione linguistica di “transessuale”), nell’ottica di un’idea di trasformazione. Da dove è nata l’esigenza di coniare i nuovi termini, considerando poi che in essi vi può essere letto anche un nesso virtuale tra il concetto di transclasse e quello di transgender?
Chantal Jaquet - Innanzitutto, vi ringrazio per l’invito e per questa domanda che mi porta al cuore del problema: perché creare nuovi termini e concetti? L’esigenza è stata quella di definire nel modo più preciso possibile coloro che cambiano classe sociale: sia che si tratti di figli di operai o impiegati che transitano verso la classe media e la borghesia, sia che si tratti di coloro che vengono dal mondo borghese e che transitano verso il contesto degli operai e degli impiegati. La mia intenzione era quella di coniare un termine per indicare proprio il movimento del passaggio, senza assegnare giudizi di valore in merito, ovvero senza considerare che questo è un’ascesa quando si va dalla classe dominata alla classe dominante, o di una discesa, un declino, in caso si vada nella direzione opposta. Volevo un termine neutro, inesistente nell’eredità lessicale romanza, poiché sia che si parli di transfugo di classe [transfuge de classe] - ma in questo caso c’è un giudizio di valore perché la persona fugge - sia che si parli di ascesa o discesa, c’è sempre un giudizio assiologico. Quindi, il neologismo non è nato dal nulla, e lei ha ragione a sottolineare una parentela o una filiazione con il termine transgender: tale questione si inscrive più generalmente in tutte le pratiche di passaggio di classe, di passing (anche se il termine ha un’accezione negativa nella lingua inglese). Negli Stati Uniti, agli inizi, il passing designava la pratica di farsi passare per bianchi adottata da alcune persone nere, la cui pelle era chiara e permetteva loro di non essere considerati come neri. Questa si designa come una pratica di trasgressione della colorline, in cui si passa per ciò che non si è. In seguito, il termine passing si è esteso a tutte le forme di trasgressione dell’identità assegnata, sia che si trattino di persone omosessuali che si fanno passare per eterosessuali, sia per coloro che non si sentono a proprio agio nel corpo di nascita e vogliono cambiare genere - all’inizio si parlava di sesso, poi di genere, dato che non è necessario cambiare fisicamente il “sesso” biologico per cambiare il genere. La pratica del passing individuata in tal contesto consiste nel trasgredire l’identità socialmente costruita come maschile e femminile tramite questo passaggio. Tra i termini transizione e transclasse c’è effettivamente una parentela, come ho segnalato nel libro: questa parentela, poi, non è soltanto di un’esperienza di passaggio, ma anche una parentela che si fa, nuovamente, lavoro sull’identità. Questo determina che in tutti i casi, sia che si tratti del passing iniziale di un nero che si fa passare per bianco, sia che sia tratti di una persona omosessuale che si fa passare per eterosessuale, l’identità iniziale viene decostruita, mettendola al lavoro al fine di adottarne un’altra. Allo stesso tempo, c’è necessariamente qualcosa - come una sorta di fluttuazione, di decostruzione e di ricostruzione, una messa in moto dell’identità - che non ci porta più a pensare all’identità in modo fisso, immutabile, come un’essenza definita per sempre. Quindi, c’è una parentela che possiamo osservare e che comunque mostra tutte le nostre costruzioni sociali, tutte le nostre rappresentazioni, senza pregiudizi. Dimostra che ciò che crediamo essere veramente nostro è in realtà solo un’identità presa in prestito: la razzializzazione, l’assegnazione a un tipo di sessualità, a una classe, non ci definiscono mai interamente. Questi fenomeni sono spesso conseguenza di una proiezione di uno sguardo esteriore, ma il fatto che abbiamo iniziato questo passaggio designa una messa in moto, un rifiuto di restare rinchiusi in una determinazione assoluta, che si è trasformata in una essenza generale. Quando si tratta di categorizzare la classe sociale, noi possiamo dire di esser nati in un determinato ambiente, ma non possiamo farne una responsabilità individuale. Non siamo responsabili di essere nati in un ambiente borghese o operaio. La nostra identità è qualcosa che può sembrare del tutto contingente, la casualità della nascita ci ha collocati in questa o in quella famiglia, in questo o in quell’ambiente, e possiamo dire, in un certo senso, non siamo noi, non possiamo mai smettere di definirci e ridefinirci.
SF - Come possiamo spiegare la singolarità delle traiettorie dei transclasses senza cadere da un lato in un determinismo sociale che porrebbe una causa univoca al cambiamento delle condizioni di vita, dall’altro nella narrativa del libero arbitrio che enfatizza il concetto di merito e la figura del self-made man?
CJ - In effetti, le traiettorie dei transclasse, come tutte le traiettorie singolari, vengono spiegate utilizzando due grandi concetti opposti: o si arriva a pensare che le traiettorie stesse siano il risultato di una scelta di libero arbitrio - con i relativi sensi di colpa e responsabilità che ciò può comportare - o siano il frutto del determinismo sociale. La mia posizione è stata quindi quella di criticare entrambi gli approcci: si tratta di dimostrare che la singolare traiettoria di una persona transclasse non è il risultato del libero arbitrio, ovvero di un’auto-fabbricazione che è completamente tagliata fuori dalla determinazione sociale e familiare, dall’orientamento sessuale, dal genere e dalla religione, per cui non c’è alcun tipo di potere assoluto di scelta. Quindi il libero arbitrio è in realtà un’illusione, come ha sottolineato Spinoza1, che deriva dal fatto che siamo consapevoli dei nostri desideri ma inconsapevoli delle cause che li determinano. Quella che andiamo a chiamare possibilità di scelta tra i diversi tipi di vita si offre principalmente a chi è già inserito in una classe di origine avvantaggiata; invece, in una classe in cui non si hanno mezzi materiali, non si ha cultura, non si considera alcun libero arbitrio o scelta, si ha l’impressione che tutto sia già tracciato in anticipo. Se critico il libero arbitrio non è perché voglio pensare al determinismo come a un’inevitabilità: molto spesso, quando parliamo di determinismo sociale, intendiamo che la nostra esistenza sia già definita in anticipo, che tutto sia scritto in anticipo, che tutto si gioca in anticipo, e confondiamo il determinismo con il fatalismo. Tutto è determinato, ma bisogna distinguere tra un determinismo esterno - che si esercita su di noi come una costrizione - e poi il modo in cui noi assumiamo queste condizioni, cioè il modo in cui ci determiniamo essenzialmente, nell’articolazione plurima delle relazioni di un determinismo “interno”, che è espressione di una libera necessità, di una causazione interna che è la nostra potenza d’agire massima2. Ovviamente dobbiamo conoscere le cause esterne che pesano sulle nostre traiettorie, ma ciò non significa che tali cause si esercitino su di noi in modo meccanico, come se fossimo giocattoli passivi. Abbiamo il potere di agire in una situazione, siamo in grado di determinarci con gli altri, contro di loro o con loro, prendendo il controllo della nostra traiettoria. Non agiamo mai senza una ragione: ci sono effettivamente delle ragioni che ci spingono ad agire ed il vero problema è sapere se queste ragioni sono buone ragioni, se queste ragioni ci esprimono o se sono interiorizzate in modo forzato. In questo senso, le traiettorie singolari sono sempre il risultato della congiunzione di una causalità esterna e di una causalità interna attraverso la quale affermiamo la nostra libertà. Quindi, non c’è né fatalismo né libero arbitrio.
SF - Dato che ha parlato di complexion e vista la teoria delle tre eredità che lei desume dalla ricerca di Bourdieu3, è possibile pensare alla transclasse come un luogo dinamico dove si incontrano differenti eredità tra loro eterogenee ed emergono nuove e possibili forme di vita che vanno a regolare l’interazione ambientale dei soggetti con la società?
CJ - Le traiettorie dei transclasse sembrano effettivamente nuove, sembrano essere forme di invenzione di nuovi modi di vita, ma queste invenzioni non possono essere fatte ex nihilo. Che si tratti di un’eredità economica o culturale - che si tratti del livello linguistico, dei titoli di studio, dell’apertura al mondo attraverso viaggi, di visite ai musei - o anche di un’eredità sociale, tutto questo pesa necessariamente sulle nostre traiettorie. Quindi, quando parlo di complexion è proprio per capire come tessiamo - dato che la complexion è l’idea della trama relazionale di un tessuto - e definiamo la nostra esistenza attraverso i fili che ci legano agli altri, fili che sono fili storici. E il modo in cui facciamo funzionare le nostre eredità, ovvero il modo in cui, attraverso la nostra situazione di ricchezza o povertà, attraverso la nostra situazione di ignoranza o di grande cultura, attraverso la nostra rete di relazioni e il potere che le attraversa, cerchiamo di organizzare al meglio la nostra esistenza. Nella complexion c’è sia il peso dell’eredità delle condizioni iniziali, ma allo stesso tempo il modo in cui, con il nostro potere di agire, le ridefiniamo senza poterle eliminare, alla luce dei percorsi di transclasse.
C’è una sorta di dinamica in cui entra in gioco la questione dell’eredità: ad esempio, coloro che chiamiamo “eredi” - coloro che vanno da una classe subalterna ad una classe superiore - non sono necessariamente condannati a vivere per sempre entro i confini della borghesia, a causa dell’incontro con l’alterità e l’ingiustizia del mondo. Ci può essere un desiderio di giustizia, di rottura con questa ricchezza, con questa cultura dell’interesse personale, con questa preoccupazione di distinzione, con questo desiderio di guardare dall’alto in basso le classi inferiori per sfuggire a questo mondo, che è anche soffocante perché il mondo degli eredi comporta una forma di trasmissione dell’eredità. Una formazione sociale può essere soffocante, soprattutto quando non corrisponde al codice di condotta collettivo. Per esempio, se sei omosessuale in un ambiente borghese e cattolico, non c’è altro modo di esistere che trasferirti in un ambiente più aperto, come un ambiente artistico, o andare all’estero come migrante per poter esistere, per avere il diritto di essere riconosciuto e ricordato per come sei, piuttosto che subire il tipo di coercizione permanente in cui devi nasconderlo. Senza una via d’uscita, una ragazza in un contesto pesante e privo di sbocchi per la sua valorizzazione, dovrà subire dal suo ambiente d’origine la messa agli arresti domiciliari; condizione che le darà già una vita tutta tracciata in anticipo. Lei cercherà di affermare il proprio percorso affidandosi alle amicizie, alle relazioni amorose e alle istituzioni, che magari le potranno dare borse di studio per non riprodurre il destino di sua madre o il destino delle ragazze intorno a lei. Questo indica che vi è una duplice riproduzione all’interno di una classe: 1) la riproduzione dell’ambiente sociale e 2) la riproduzione attraverso la nascita di figli, nella ripetizione all’infinito dello stesso tipo di esistenza.
SF - Nel suo libro si parla dell’eredità come costrutto che si mantiene da una classe all’altra, nella fattispecie, dalla classe bassa di origine a quella alta; è possibile l’esistenza di un’eredità di ritorno, questa verso la classe di origine, che vada a modificare l’habitus degli aggregati sociali e, istituzionalizzandone di nuovi, possa superare le istanze di promozione della sola mobilità sociale a favore di nuovi modelli organizzativi? Abbiamo in mente nuovi modelli di azionariato sociale territorialmente distribuito, questi proposti da alcune nuove vertenze sindacali, come quella della GKN qui in Italia.
CJ - L’eredità può essere accettata o rifiutata, nel senso che è un peso di cui forse vorremmo liberarci perché è soffocante: va notato che è nella natura di tutti gli individui definirsi attraverso sia la ripetizione, il mimetismo, che la differenza. In altre parole, anche quando imitiamo il modello familiare o il modello sociale, l’imitazione non è mai pura riproduzione. La copia non è mai il modello: anche quando un bambino imita i genitori, imita con il proprio corpo, con il proprio ingenium. C’è sempre una piccola distanza possibile dall’eredità, distanza che può essere maggiore o minore a seconda dell’aspirazione che possiamo avere, a seconda del posto che ci viene dato. È questo lavoro di differenziazione tra le distanze che sfasa la composizione del soggetto-transclasse e che può assumere la forma di eredità al contrario. In altre parole, il fatto che rifiutiamo di riprodurre la stessa miseria dell’ambiente della classe dominata da cui possiamo venire, non preclude il fatto che ci sia fedeltà alla classe di origine. Ci può essere un desiderio di qualcos’altro che non è necessariamente un tradimento, ma una promessa di miglioramento, che può anche essere sostenuta dall’ambiente. Quindi un’eredità “inversa” significa anche che un figlio può finalmente soddisfare le aspirazioni mancate dei genitori, non ripetendo la stessa povertà. Ha il desiderio di fare altri tipi di esperienza, ed è a quel punto che può esserci una fecondità politica: va notato che il più delle volte le teorie di liberazione della classe operaia sono state fondate da intellettuali borghesi. Ad esempio, se prendiamo Marx ed Engels, non possiamo dire che fossero proletari, ed è per questo non dovremmo assegnare gli individui alla loro classe di origine. Ci possono essere membri della borghesia, in particolare della piccola borghesia intellettuale, che si metteranno al servizio dei poveri, che avranno la capacità di illuminare le classi dominate e di aiutarle a prendere coscienza di classe. Questo perché, quando si lavora in modo ripetitivo non si ha il tempo libero per prendere le distanze, non si ha il tempo libero per riflettere, non si ha necessariamente la cultura per prendere questo spazio di riflessione. Quindi possiamo pensare a questo modello di eredità al contrario per definire quella propensione di alcuni soggetti transclasse a prendere proprio le attitudini e le disposizioni acquisite nel loro campo di arrivo e trapiantarle nel loro campo di partenza per produrre una fertilizzazione incrociata, cercando di rovesciare i codici stabiliti, la rigidità del linguaggio, la rigidità della cultura cosiddetta “legittima” per introdurre altre forme di vita. Penso in particolare al modo in cui il rock, il blues e il rap hanno scosso il mondo della cultura, che era confinato alla produzione di quella che viene definita musica “classica”. Nessuno è un numero che fa parte di una stirpe, un erede puro e semplice di certo patrimonio: è un deposito, ed è proprio questo deposito che possiamo abbattere o manipolare per posizionarci in modo diverso.
SF - I concetti di transclasses e di non-riproduzione nascono nel 2014 con il suo testo. Come sono stati accolti nel mondo francese e internazionale?
CJ - Quando il libro è uscito nel 2014, era stato frutto di una lunga ricerca, perché un libro non nasce come uno champignon ex nihilo. Ci sono anche delle condizioni che lo rendono possibile. Penso in particolare al lavoro della letteratura, che a posteriori definisco transclasse, mentre prima chi lo faceva veniva definito "transfugo di classe", cioè in fuga dalla classe. Quello che mi ha colpita è che c’era un pubblico in grado di riceverla e apprezzarla. Sono rimasta molto sorpresa nel vedere che il mio libro sia stato ben accolto non solo nella comunità filosofica, ma anche da una comunità più trasversale, questo perché vado a confrontarmi con altre discipline ed esco dai canoni tradizionali della filosofia. C’è un’alleanza con la letteratura, la sociologia e la psicoanalisi. Il mio libro si trattava già di un ibrido, ma i filosofi lo hanno generalmente accolto bene, perché hanno visto in esso fondamenti teorici radicati in Spinoza e Marx; la sorpresa più grande è stata che anche i sociologi lo hanno accolto bene, compresi i sociologi bourdieusiani, anche se ho introdotto una forma di critica a Bourdieu. Tuttavia, questa critica non è mai stata vista come un rifiuto, poiché la non-riproduzione non mira a dire che la riproduzione non esiste, ma a mostrare come dobbiamo pensarla in modo più raffinato, prendendo in considerazione i casi che la contraddicono. Dobbiamo pensare in termini di riproduzione dinamica, incorporando casi che non sono identici. Credo che questo testo abbia dato una forma di legittimazione a questi percorsi, spesso vissuti in modo clandestino. "Transfugo" implica fuggire, non si osava dirlo troppo, ma ci si nascondeva: molti hanno cominciato a dichiararsi apertamente transclasse e a scriverne. Sono stati prodotti molti testi in questo ambito, sia sociologici, come Se ressaisir di Rose-Marie Lagrave4, sia più letterari e narrativi, come Ma part de Gaulois di Magyd Cherfi5 o Danbé, la tête haute di Aya Cisski e Marie Desplechin6. Queste narrazioni mostrano i percorsi intrecciati del cambiamento di classe sociale, della migrazione e dell’affermazione di prospettive femministe; questi viaggi non hanno una sola determinazione, ma sono multideterminati e tutte queste determinazioni giocano e si rafforzano a vicenda. Da questo punto di vista, queste narrazioni hanno mostrato la complessità delle esperienze di migrazione e di cambiamento di classe sociale, in particolare nel caso delle donne migranti che subiscono contemporaneamente un cambiamento di classe e un cambiamento di Paese. In Francia, in particolare, il riconoscimento del Premio Nobel per la Letteratura ad Annie Ernaux ha contribuito a far crescere in modo esponenziale la riflessione sulle transclasse7, sulle difficoltà che incontrano e sul lavoro identitario che questo comporta. Ha anche sollevato domande: i soggetti transclasse tradiscono la loro classe d’origine? Che ruolo possono avere nella società di oggi? Per quanto riguarda la ricezione internazionale, a differenza di altri miei lavori che si sono diffusi prima in Italia, Spagna e Brasile, e poi negli Stati Uniti, il mio lavoro è stato esposto prima in Germania e poi in Francia. È in Germania che la traduzione è stata più rapida. La Germania è un paese in cui la mobilità sociale è interessante essendocene molta, come in Inghilterra. Credo che nel contesto tedesco la traduzione sia stata rapida anche per l’interesse della comunità omosessuale verso questi temi, in particolare grazie al lavoro di Didier Eribon8, che si definisce un transfugo di classe. Lui sottolineava come nell’alta società francese gli era più facile affermare la propria omosessualità9, piuttosto che dire di provenire da un ambiente operaio: a seconda dello stato di ricezione nella società, certe figure sono più facilmente accettate di altre.
SF - Ad undici anni dalla pubblicazione del testo, com’è cambiato lo stato di ricezione di queste storie, ovvero com’è cambiata - se è cambiata - la percezione collettiva della condizione di transclasse e delle norme interpretative che presiedono alla semantizzazione del termine stesso?
CJ - Tante di queste storie sono diventate di moda e alcuni le usano come strumento di distinzione, cosa che sarebbe da limitare fortemente: è sorprendente vedere che alcuni sostengono di essere transclasse quando in realtà confondono la migrazione geografica con quella sociale. Altri, provenienti da ambienti borghesi, affermano di essere transclasse a causa dei loro nonni operai, mentre questo cambiamento si misura sulla base dello status dei loro genitori, non di quello delle generazioni precedenti. È anche importante evitare l’essenzializzazione: dire “sono transclasse” può indurre le persone a pensare che si tratti di una nuova identità, mentre in realtà non si tratta né di una carta d’identità né di un titolo di gloria o di infamia. Il termine "transclasse" si riferisce a un processo di passaggio da una classe all’altra, e questo processo non deve essere confuso con un’identità fissa. Un concetto è sempre parte di un contesto storico e incontra rappresentazioni e ideologie dominanti: l’ideologia meritocratica, in particolare, è molto forte nelle nostre società: più queste sono immobili, più enfatizzano il merito individuale per giustificare questa immobilità, insinuando che se le persone rimangono al loro posto è perché non hanno fatto alcuno sforzo. Dobbiamo quindi evitare di presentare le transclasse come una versione moderna del self-made man e di cadere nella trappola dell’eroizzazione o del vittimismo. C’è una postura che consiste nel dire «guardatemi, ho sofferto, sono una specie di miracolato, sono sopravvissuto in condizioni difficili» e nel ricavarne una rendita simbolica: non c’è gloria nell’essere nati poveri, non c’è gloria nell’aver lasciato quel contesto e non c’è gloria nell’essere nati in un contesto aristocratico. Tutto ciò non ha niente a che vedere con un merito ben definito, un bambino alla nascita non ha nulla e non è nulla, le nostre vite sono modellate da ciò che gli altri ci danno e da ciò che noi, a nostra volta, ridistribuiamo. La questione del merito è quindi fallace: se le nostre qualità sono innate, non c’è alcun merito nel possederle, se sono acquisite, allora sono sempre acquisite grazie agli altri. Un bambino non è nulla senza l’educazione che riceve. Se vogliamo parlare di merito, dobbiamo attribuirlo tanto ai genitori, agli amici, alle scuole e alle istituzioni quanto all’individuo stesso. È impossibile disgiungere queste influenze. È per questo che dobbiamo rimanere vigili: un concetto genera le proprie rappresentazioni fuorvianti, ed è necessario fare chiarezza.
SF - La complessità del concetto di transclasse sembra sfuggire quindi ad una semplice rappresentazione che ricerca la coerenza e la consistenza dei tratti caratteristici di quello che a tutti gli effetti è un passaggio tra elementi eterogenei: questa dinamicità impatta nella nozione di classe?
CJ - Questo è proprio ciò che mi sembra importante, e su cui sto lavorando, ovvero sul modo in cui questo concetto di transclasse trasforma la nozione di classe, introducendo una caratteristica dinamica in essa, mentre noi tendevamo a congelarla. Una classe esiste solo in relazione a un’altra, e le transclasse mostrano chiaramente che dobbiamo ripensare queste categorie. Ad esempio, conosciamo transclasse spettacolari, come il caso di Julien Sorel ne Il rosso e il nero10 di Stendhal, che passa da un ambiente contadino all’aristocrazia; ma la maggior parte dei percorsi di carriera non sono così radicali, in cui si cambiano tutti i capitali in una volta sola. Ci possono essere gli inizi di un percorso transclasse, ad esempio, nel caso di sportivi provenienti da ambienti poveri che improvvisamente diventano ricchi: acquisiscono una grande quantità di capitale economico senza avere il capitale culturale che lo accompagna, quindi sono in contrasto con il loro ambiente di origine (perché non hanno più lo stesso capitale economico), ma allo stesso tempo non sono integrati nella classe dominante e sono disprezzati e criticati per essere "senza cervello". Penso in particolare ai calciatori, che tendono a essere guardati dall’alto in basso in termini di capitale simbolico: sono ammirati per il loro capitale economico, ma non necessariamente per il loro capitale culturale. Al contrario, alcune transclasse accedono alla cultura (gli artisti, ad esempio) senza avere necessariamente il capitale economico o il capitale sociale e politico per vedere riconosciuto il proprio lavoro. Questi percorsi mostrano come la nozione di classe sociale possa essere messa in discussione, perché il passaggio occasionale non è necessariamente un caso isolato, quindi ci porta anche a ripensare la nozione di classe, soprattutto ci porta a ripensare la questione della liberazione. È vero che si possono migliorare le proprie condizioni di vita, acquisire una sorta di potenza d’agire superiore, ma si può anche perdere completamente se stessi nella transizione, rinnegando il proprio ambiente originario, non trovando posto da nessuna parte. Anche in questo caso si tratta di ripensare il posto delle transclasse e non c’è un posto già definito in anticipo (così come ognuno deve sempre definirsi in termini di rapporto con le ingiustizie e le disuguaglianze). Ho visto la società francese pensare che le transclasse siano le fiaccole della libertà, i portavoce delle classi oppresse, per esempio quando si tratta del movimento che va dalle classi dominate alle classi dominanti, ma una rondine non fa primavera, essere transclasse non ha come condizione necessaria il riconoscimento della propria classe di provenienza. Quindi un transclasse solitario non cambierà il mondo; questo per la società francese è anche un modo per assolversi dalla responsabilità collettiva, per cui si suppone che ci siano grandi uomini o donne transclasse, che dovrebbero guidare un movimento sociale, quando in realtà ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, ognuno eredita l’ingiustizia del mondo, ognuno eredita la processione della disuguaglianza e ognuno deve definire il proprio posto, come si colloca, se è borghese, operaio, borghese o migrante, in funzione di come interagisce con il mondo esterno. Quindi, in questo senso, dobbiamo anche evitare di fare della transclasse una sorta di vittima del progresso, dell’ambizione o della riparazione di classe. La riparazione può essere ottenuta solo attraverso un movimento collettivo o una lotta, e non brandendo le transclasse in un ruolo messianico.
NOTE
1 B. Spinoza, Eth. I App, Milano, ed. Bompiani, 2010.
2 cfr. C. Jaquet, Les expression de la puissance d’agir chez Spinoza, Paris, Les éditions de la Sorbonne, 2022.
3 cfr. P. Bourdieu, La riproduzione, Rimini, Guaraldi Editore, 1972.
4 R.M.Lagrave, Se ressaisir: Enquête autobiographique d’une transfuge de classe féministe, Paris, ed. La Découverte, 2023.
5 M. Cherfi, Ma part de Gaulois, Arles, Éditions Actes Sud, 2016.
6 A. Cisski e M. Desplechin, Danbé, la tête haute, Paris, Calmann-Lévy, 2011.
7 cfr. A. Ernaux, Il posto, Roma, L’orma editore, 2014 e A. Ernaux, Gli anni, Roma, L’orma editore, 2015.
8 cfr. D. Eribon, La société comme verdict. Classes, identités, trajectoires, Paris, Fayard, 2013.
9 cfr. D. Eribon, Réflexions sur la question gay, nouvelle édition, revue et augmentée, Paris, Champs-Flammarion, 2012.
10 Stendhal, Il rosso e il nero, Milano, Edizioni Mondadori, 2010.
Paola Pia Santoro studia Filosofia all’Università di Bologna. I suoi interessi si concentrano sulla filosofia politica, principalmente di Baruch Spinoza, Louis Althusser e del pensiero femminista, con particolare attenzione alla lettura del femminismo marxista di Silvia Federici. Attualmente si dedica allo studio del lavoro riproduttivo ed è membro del centro di ricerca spinoziano Sive Natura.
Elia Pupil è uno studente del corso di laurea magistrale in Scienze Filosofiche all’Università di Bologna; i suoi interessi vertono sui campi della filosofia della scienza e della tecnica, specificatamente sul rapporto tra semantica cognitiva, IA e teoria della complessità. Tra i vari progetti a cui ha avuto la fortuna di partecipare, segnala la stesura di un’intervista-dialogo a sei mani “Con Toni Negri” insieme al pensatore italiano (Con Toni Negri. Intervista di Francesco Barbetta ed Elia Pupil – GramsciOnline).
Giulia Muccioli studia Filosofia all’Università di Bologna. I suoi interessi vertono principalmente sulla filosofia politica e gli sviluppi del pensiero femminista all’interno degli studi marxisti. Il suo lavoro di ricerca attuale si concentra su una rilettura femminista e post-coloniale del post-strutturalismo francese, a partire dalle opere di Deleuze e Guattari.
Margherita Bovo ha conseguito il diploma di maturità scientifica nel 2020 con il massimo dei voti e si è immatricolata al corso di laurea triennale in Filosofia nell’anno accademico 2020/2021. I suoi interessi vertono principalmente sull’influenza e le interpretazioni di Spinoza nel corso dell’Illuminismo, in particolare circa la questione dell’ateismo.