La sussidiarietà performativa, ri-fondata per l'ambiente. Le coordinate per la ridefinizione di un principio nel caso di studio delle Comunità energetiche rinnovabili (CER)

di Alberto Arcuri (Università di Bologna)

Pubblicato il 01 agosto 2025

Quando il legislatore (europeo prima, italiano poi) è intervenuto per darne una definizione normativa, era già da qualche anno che nelle scienze sociali si parlava di comunità energetiche. Per lo meno da quando, nei primi anni 2000, la letteratura britannica aveva iniziato a usare l’espressione community energy per indicare forme sperimentali di auto-produzione e gestione condivisa dell’energia.

Il dibattito italiano, come spesso accade, ha presto seguito lo stimolo anglofono, scoprendo però di averne avuto una conoscenza ancor più risalente. La storia italiana delle comunità energetiche, infatti, viene oggi retrocessa fino alle cooperative energetiche fondate nella prima metà del XX secolo, per sopperire alle difficoltà di accesso all’energia dalle comunità montane dell’arco alpino.  È vero però che è solo con l’inizio del nuovo millennio che il fiorire di queste realtà (per la convergenza tra il processo di liberalizzazione del sistema energetico e lo sviluppo tecnologico che ha portato l’autoproduzione e l’autoconsumo di energia fino al livello domestico) ha contribuito a presentarle (anche in Italia) come un vero e proprio modello innovativo per la produzione sostenibile dell’energia.

È a valle di questo percorso evolutivo che si è innestata la prima operazione di regolamentazione del fenomeno. Prima europea e solo dopo, e in virtù di quell’impulso, nazionale. Lo sforzo è consistito anzitutto nel tentativo di definire un tipo legale di comunità energetiche. Ne sono risultati due: la Comunità Energetica Rinnovabile (CER), di cui al d.lgs. 199/2021, attuativo della direttiva (UE) 2018/2001 e la Comunità Energetica dei Cittadini (CEC), di cui al d.lgs. 210/2021, attuativo della direttiva (UE) 2019/944.

Due tipi che rappresentano due espressioni positive di una forma organizzativa, unitaria e «transtipica» che, pur essendo rimasta priva di rilevanza legale, ha proiettato sui due modelli alcuni elementi comuni, sul piano soggettivo, teologico e strutturale. Sia le CER che le CEC, infatti, sono soggetti di diritto privato («soggetti di diritto autonomo», i cui membri «regolano i loro rapporti tramite un contratto di diritto privato»), costituiti in virtù di una partecipazione volontaria e aperta a tutti gli interessati,  la cui attività è orientata al conseguimento di «benefici ambientali, sociali ed economici» a favore dei soci e della comunità in cui operano. Alla luce di queste caratteristiche, peraltro, alcune letture recenti hanno proposto di ricondurre le comunità energetiche al modello di formazione sociale prefigurato nell’art. 43 Cost., ovvero le «comunità di lavoratori o di utenti», alle quali possono esser riservate o trasferite «determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano […] a fonti di energia ed abbiano carattere di preminente interesse generale».

Oltre questa matrice comune, però, le due tipologie divergono in ragione di molti aspetti (sia strutturali che funzionali) che sono la ricaduta della diversa razionalità cui sono informate. CER e CEC, infatti, sono disciplinate nell’ordinamento interno da due decreti legislativi distinti, che hanno dato attuazione a due distinte direttive europee, che a loro volta hanno dato forma a policies europee differenti: favorire la transizione energetica (attraverso l’abbandono delle fonti fossili e la massimizzazione del ricorso all’energia da fonti rinnovabili), l’una; favorire la liberalizzazione del mercato elettrico attraverso la diffusione dell’autoconsumo di energia (da qualsiasi fonte essa sia prodotta), l’altra.

E’ nel concreto svolgimento di queste diverse razionalità che sono stati espressi i tratti che caratterizzano diversamente i due tipi legali e, in particolare: (a) le fonti da cui viene prodotta l’energia (perché le CER si qualificano per l’utilizzo di energia prodotta da una fonte rinnovabile, mentre le produzione di energia elettrica da parte delle CEC non è vincolata ad alcuna particolare fonte energetica); e (b) la prossimità territoriale (perché le CER, diversamente dalle CEC, si qualificano per l’utilizzo di impianti controllati da membri situati nel territorio degli stessi Comuni in cui sono ubicati).

Tutto considerato, allora, è quella delle CER l’esperienza più significativa per questa riflessione ed è su questa che, pertanto, vale la pena concentrare la sua parte conclusiva, per ricavarne gli elementi che la fanno emergere come un’espressione concreta della sussidiarietà performativa ri-fondata sull’ambiente.

Come anticipato, l’attuale disciplina delle CER è frutto delle politiche europee, e in particolare di quelle inaugurate – in scia al Green deal – dal pacchetto Clean Energy for all Europeans, nel cui ambito è stata emanata la Direttiva 2018/2001 (detta RED II), che all’art. 22 ha previsto che «gli Stati membri assicurano che i clienti finali, in particolare i clienti domestici, abbiano il diritto di partecipare a comunità di energia rinnovabile (…)», stabilendo che «forniscano un quadro di sostegno atto a promuovere e agevolarne lo sviluppo». Alla Direttiva RED II è stata una prima attuazione sperimentale (di natura transitoria e in attesa del completo recepimento) già con il d.l. n. 162 del 2019, convertito con modificazione nella legge n. 8 del 2020. Un’attuazione poi portata a sistema con il successivo d.lgs. n. 199 del 2021 che ha determinato una rilevante (anche per questa riflessione) estensione del perimetro soggettivo di operatività delle CER, includendo, oltre alle figure già previste dalla disciplina transitori persone fisiche, PMI, associazioni, enti territoriali e autorità locali), anche enti di ricerca e  formazione,  enti  religiosi, enti del  Terzo  settore e  di  protezione  ambientale, amministrazioni del territorio ove sono ubicati gli impianti.

Il quadro legislativo è stato poi completato da una corposa normativa secondaria, tra cui: sil decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica del 7 dicembre 2023, che ha promosso la nascita e lo sviluppo delle CER, i provvedimenti dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) che (con deliberazione 727/2022/R/eel del 27 dicembre 2022, ha approvato il Testo Integrato Autoconsumo Diffuso), e le Regole Operative emanate dal gestore dei servizi elettrici (GSE) il 23 febbraio 2024 e successivamente aggiornate il 22 aprile 2024.

Ne è risultato l’attuale quadro regolatorio. Il d.lgs. n. 199 del 2021, in particolare, ha definito la CER come un «soggetto di diritto autonomo» (art. 31 co. 1 lett. b) che produce energia rinnovabile per l'autoconsumo o la condivisione tra i partecipanti, con l’obiettivo di «fornire benefici ambientali, economici o sociali e di sviluppo delle aree locali in cui opera» (art. 31 co. 1 lett. a). Ha disposto che alle CER possano partecipare tutti gli utenti interessati (prosumer o semplici consumer) che rispettino i requisiti di ammissione (secondo un principio di partecipazione aperta e volontaria), e che possano essere controllate da un insieme di persone fisiche, piccole e medie imprese, associazioni con personalità giuridica, enti territoriali e autorità locali, incluse le amministrazioni comunali, le cooperative, gli enti di ricerca, gli enti religiosi, quelli del terzo settore e di protezione ambientale. I membri della CER condividono l’energia elettrica rinnovabile prodotta da impianti che risultano nella disponibilità e sotto il controllo della comunità e che sono localizzati all’interno di un medesimo perimetro geografico, grazie all’impiego della rete nazionale di distribuzione di energia elettrica (art. 32). L’energia autoprodotta è utilizzata prioritariamente per l'autoconsumo istantaneo in sito ovvero per la condivisione con i membri della comunità, ma quella eventualmente eccedente può essere accumulata e venduta anche tramite accordi di compravendita (art. 31 co. 2, lett. b). Uno degli aspetti cruciali per la realizzazione delle CER come modello di sviluppo territoriale riguarda poi le aree sulle quali poter costituire concretamente gli impianti alimentati da fonti di energia rinnovabile a servizio delle CER (le “aree idonee”). L’art. 20 del d.lgs. n. 199 del 2021 (inserendosi nel solco di una tendenza normativa ormai consolidata) rinvia a questo proposito l’individuazione delle aree idonee a fonti secondarie (che assumono dunque una rilevantissima funzione pianificatoria) avendo poi stabilito che il Ministero della transizione ecologica avrebbe dovuto, entro 180 giorni, emanare uno o più decreti per “l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili.

Vengo allora brevemente a dar conto, in conclusione, della rilevanza esemplificativa di questa esperienza, provando a riannodare, attorno alle sue caratteristiche, i fili della riflessione sulla configurazione della sussidiarietà ri-fondata sull’ambiente.

Parto dalla sussidiarietà. In quanto frutto del libero esercizio dell’autonomia privata rivolta al perseguimento dell’interesse generale, le CER rappresentano una formazione sociale facilmente collocabile nel solco del principio solidaristico, che trova compimento nella sussidiarietà “unitaria” di cui all’art. 118 Cost. Mi sembra si possa dire senza troppi dubbi che, in quanto modello di produzione comunitaria di energia, rapprendano un’ipotesi applicativa della prossimità territoriale in funzione della coesione e dello sviluppo dei territori, collocando in una dimensione territorialmente definita (nel senso che agisce come insieme di soggetti che hanno in comune il fatto di vivere in un luogo preciso) la relazione collaborativa tra i suoi componenti e tra i suoi componenti e le istituzioni pubbliche, di livello locale.

Le CER, peraltro, rappresentano un’espressione della sussidiarietà che si salda compiutamente anche con lo strumentario legislativo della sussidiarietà, trattandosi di soggetti che, come anticipato, al ricorrere delle altre condizioni stabilite dalla legge, possono accedere alla qualifica di enti del Terzo settore. Questo dato, che era vero anche prima del 2023, è ora fuor di dubbio, per lo meno da quando il decreto-legge n. 57 del 2023 ha aggiunto la «produzione, accumulo e condivisione di energia da fonti rinnovabili a fini di autoconsumo» tra le attività di interesse generale di cui all’art. 5, comma 1, d.lgs. 117 del 2017, nonché di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. 112 del 2017 sull’impresa sociale. Non solo, ma oltre a poterne essere (in quanto ETS) soggetti, le CER possono essere oggetto dei procedimenti di amministrazione condivisa disciplinati del codice del terzo settore (co-programmazione e co-progettazione). Le comunità, infatti, dovendo agire al di fuori della logica degli interessi corrispettivi propria del mercato, finiscono per alimentarsi della comunione di intenti che si esprime nelle relazioni mutualistiche che in essa si instaurano. Tanto più che, includendo gli enti locali tra i soggetti ammessi a farne parte, assumono le vesti di una sorta di forma strutturale di collaborazione tra pubblico e privato, per il perseguimento, su scala territoriale, dell’interesse generale.

Tutto questo, e vengo così al secondo punto (ossia alla coincidenza tra la razionalità espressa da questo modello e la tensione performativa del patto repubblicano rifondato) viene fatto abbracciando, seppur in scala ridotta, non solo l’interesse ambientale, ma un progetto ampio di liberazione dal bisogno ecologicamente ridefinito, nella misura in cui costituiscono un mezzo “comunitario” di transizione energetica e, al contempo, di contrasto della povertà, e in particolare della c.d. “povertà energetica”.

Sul fatto che le CER abbiano le caratteristiche per essere qualificate come strumenti della transizione (energetica e quindi) ecologica non c’è molto da dire, posto che con transizione energetica si intende la progressiva sostituzione delle fonti energetiche fossili, ad alta impronta carbonica con fonti energetiche rinnovabili e a basse emissioni e che le CER, caratterizzandosi proprio in ragione dell’utilizzo di energia prodotta da una fonte rinnovabile (essendo diverse, in questo, anche dalle CEC, che invece producono energia senza essere vincolate a nessun tipo di fonte) sono strutturalmente rivolte alla decarbonizzazione.

Più attenzione, invece, deve essere dedicata alla dimensione sociale delle CER, strumenti di liberazione dal bisogno soprattutto in quanto rivolti al contrasto della c.d. “povertà energetica”. Povertà energetica è l’espressione con cui viene ormai usualmente indicata l’incapacità di fruire di beni e servizi energetici essenziali. La povertà energetica è stata peraltro oggetto di uno sforzo definitorio su scala europea, culminato nella direttiva (UE) 2023/1791 (direttiva sull’efficienza energetica, c.d. EED 3), che all’articolo 2, attribuisce all’espressione “povertà energetica” un significato normativo coincidente con la situazione di «impossibilità per una famiglia di accedere a servizi energetici essenziali che forniscono livelli basilari e standard dignitosi di vita e salute, compresa un’erogazione adeguata di riscaldamento, acqua calda, raffrescamento, illuminazione ed energia per alimentare gli apparecchi (…) a causa di una combinazione di fattori, tra cui almeno l’inaccessibilità economica, un reddito disponibile insufficiente, spese elevate per l’energia e la scarsa efficienza energetica delle abitazioni».

Quanto il concreto godimento dei diritti sia condizionato all'accesso all'energia mi pare sia sempre più evidente. Cosicché, pur non essendo in sé un bisogno, si è imposta quale condizione essenziale per il soddisfacimento di gran parte dei bisogni umani. Se così è, allora, quella che viene fotografa dalla povertà energetica è una situazione materiale che finisce per limitare di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, pregiudicando l'effettivo esercizio di molti diritti fondamentali e impedendo senza dubbio «il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Tanto che in letteratura sono comparsi inviti a ragionare della necessità di delineare un “nuovo” diritto sociale all’energia.

In questo senso, proponendo un modello di mutualizzazione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, le CER finiscono per incarnare un modello che esprime un certo modo (costituzionalmente orientato) di intendere il paradigma politico-ecologico. Come tutti i modelli però il dato normativo e istituzionale non può prescindere dal confronto il dato ordinamentale e, in particolare, con il contesto materiale. Il vero punto critico di questa esperienza sta, paradossalmente, proprio nel legame con il territorio, trattandosi di un modello di sviluppo di tipo spontaneo e volontario ma materialmente condizionato, essendo dipendente dalla presenza di infrastrutture tecniche idonee. La virtualità astratta che esprime si confronta, insomma, con le precondizioni strutturali (in questo caso soprattutto infrastrutturali) di cui necessita, non potendo fare a meno di presupporre una programmazione allocativa pubblica, orientata proprio alla volontà di dare risposta alla povertà energetica.