Indirizzo politico e cambiamento climatico: alcuni spunti di riflessione

di Chiara Gentile (Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law)

Pubblicato il 03 dicembre 2025

In questo breve intervento vorrei concentrarmi su due questioni: 1) come, ormai, l’indirizzo politico non possa essere inteso come “isolato” da inflessioni esterne, in particolare sovranazionali e, a mio parere, anche internazionali; 2) il ruolo del giudice comune nella “definizione” dei contorni dell’indirizzo politico. A tale fine, prenderò come riferimento il contesto del cambiamento climatico.

1) Rispetto al primo punto, credo che l’azione di contrasto al cambiamento climatico mostri in modo emblematico le “influenze esterne” sull’indirizzo politico nazionale. Com’è noto, le misure statali per il contenimento delle emissioni di gas serra in particolare hanno ricevuto una “spinta” da atti e convenzioni di diritto internazionale e più recentemente di diritto sovranazionale. Lo strumento più significato degli ultimi anni è sicuramente l’Accordo di Parigi del 2015, ratificato ed entrato in vigore in Italia nel 2016. A livello sovranazionale, esso è stato recepito nell’ambito del “pacchetto di misure climatiche”, promosso dal Green Deal del 2019, tra cui spicca, in particolare, la c.d. legge europea sul clima (reg. UE 2021/1119).

L’indirizzo politico trova un limite nella Costituzione: esso non deve cioè porsi in contrasto con le norme costituzionali. Queste ultime, però, non possono intendersi come “limitate” alle 139 disposizioni della Carta (e a quelle transitorie e finali). La Costituzione è infatti “integrata” da fonti esterne: si pensi, in particolare, all’art. 10, co. 1, Cost. e all’art. 117, co. 1 Cost. Con riguardo al contesto climatico, la prima disposizione rappresenta il “punto di ingresso” di norme di diritto consuetudinario quali il dovere di prevenire il danno ambientale transfrontaliero e il dovere di agire secondo due diligence (Advisory Opinion della Corte internazionale di giustizia del 23.7.2025). La seconda disposizione, invece, nel sottoporre la legge (e gli atti avente forza e valore di legge) ai vincoli “comunitari” e agli obblighi internazionali, vincola il legislatore al rispetto delle misure climatiche adottate tanto a livello di diritto internazionale pattizio (es. Accordo di Parigi) quanto a livello sovranazionale (v. i pacchetti di misure di cui sopra). Queste considerazioni – mi sembra – rilevano anche nella discussione sull’indirizzo politico: più precisamente, volendo riprendere la categorizzazione di Martines, esse rilevano rispetto sia al momento “teleologico” sia al momento “attuativo” dell’indirizzo, giacché la legge e gli atti equiparati costituiscono uno strumento “tipico” dell’attuazione dell’indirizzo politico. Tali atti rappresentano, inoltre, limite, presupposto e “guida” per gli atti secondari adottati dal Governo e anch’essi espressione di indirizzo politico. Si pensi, per rimanere in tema, al Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC), redatto dal Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, che dà attuazione a quanto previsto dai predetti “pacchetti” approvati a livello UE e dall’Accordo di Parigi.

2) Questo mi porta al secondo punto che vorrei toccare. Il PNIEC è stato interessato da una recente (e infelice) decisione del Tribunale civile di Roma (A Sud, 2024), in cui – in poche parole – il giudice, a fronte della richiesta dei ricorrenti di condannare lo Stato italiano, nello specifico nella persona del Presidente del Consiglio dei ministri, al risarcimento del danno per non aver adottato misure volte a perseguire gli obiettivi climatici fissati a livello UE e internazionale, ha eccepito il difetto assoluto di giurisdizione rilevando che gli atti posti in essere dal Governo e dal Parlamento, oggetto di censura, sono «atti, provvedimenti e comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico». Tale ragionamento non mi sembra convincente giacché nega in assoluto un ruolo al giudice comune nella definizione dei contorni dell’indirizzo politico.

Certo, il giudice non può sostituirsi agli organi della rappresentanza nell’adozione delle misure di contrasto al cambiamento climatico (e questo in virtù del distinto principio di separazione dei poteri). Ciò non toglie, tuttavia, che detto organo possa (debba) esercitare la propria funzione di controllo e garanzia degli atti “attuativi” dell’indirizzo politico in relazione alla Costituzione e alle “fonti esterne” che la “integrano”, secondo quanto detto prima, eventualmente annullando un atto di fonte secondaria che non rispetti i suddetti obblighi climatici (nel caso del giudice amministrativo), oppure – sempre che il ricorso sia correttamente formulato e ne ricorrano i presupposti – accertando la violazione di un diritto e condannando lo Stato – nella persona del Presidente del Consiglio – a pagare il risarcimento dei danni (giudice ordinario). Ancora, ben può il giudice, ove lo ritenga, sollevare q.l.c. alla Corte costituzionale.

In definitiva, due conclusioni:

  • Mi sembra che il contesto del (contrasto al) cambiamento climatico contribuisca a dimostrare le difficoltà di concepire, ormai, un indirizzo politico “esclusivamente nazionale”, alla cui definizione e attuazione non “partecipino” anche il diritto dell’Unione europea e il diritto internazionale. In altre parole, non sarebbe pensabile un indirizzo politico che non tenesse conto degli “impulsi” UE e internazionali e, in contrasto con essi, “andasse per la propria strada” (come del resto risulta evidente dalla linea seguita dall’attuale Governo).
  • In secondo luogo, mi sembra che il giudice comune debba mantenere un ruolo centrale con riguardo al momento attuativo dell’indirizzo politico, vagliando, nell’esercizio del proprio sindacato, il rispetto da parte degli atti espressivi di indirizzo politico della Costituzione “integrata”, senza sconfinare nell’esercizio di funzioni proprie di altri organi costituzionali.