di Alberto Arcuri (Università di Bologna)
Pubblicato il 17 marzo 2025
In questa breve nota vorrei provare a far emergere un punto di intersezione che mi è sembrato di poter individuare tra l’esito di alcuni tentativi di rileggere in senso ecologico i fondamentali del costituzionalismo (e in particolare del contenuto della Costituzione della Repubblica italiana) e il ruolo degli indicatori, e in particolare degli indicatori che sono usati per la misurazione della sostenibilità ambientale.
L’idea che cercherò di esporre e argomentare è che la ridefinizione ecologica del patto costituzionale (secondo il significato di cui dirò), nella misura in cui ha inscritto nell’orizzonte programmatico della Costituzione la transizione ecologica, ha declinato la sostenibilità in un principio di non regressione nella protezione dell’ambiente. Un principio, e qui sta il punto di contatto, che poggia la propria aspirazione prescrittiva sull’attitudine normativa degli indicatori usati per misurare la sostenibilità ambientale, che vengono così investiti di un peso particolarmente oneroso e, dunque, particolarmente problematico.
Esporrò le cose che vorrei dire ordinandole in tre parti:
1. Nella parte introduttiva menzionerò i tratti essenziali del tentativo di ridefinire in chiave ecologica i fondamentali della teoria costituzionale, per poter dire di come questa ridefinizione è stata tradotta sul piano del diritto costituzionale positivo (richiamando in particolare l’idea della Repubblica “fondata sull’ambiente”).
2. Nella parte centrale dirò perché l’inscrizione della transizione ecologica nel patto costituzionale determina la necessità di declinare la sostenibilità in un principio costituzionale di non regressione nella protezione dell’ambiente, e delle ricadute che questo genera sugli indicatori.
3. Concluderò, fermandomi alle porte del tema degli indicatori, evidenziando due problemi che ne derivano. Il primo riguarda l’equilibrio tra poteri di governo e di garanzia. Il secondo attiene invece al modo (la forma) in cui gli indicatori entrano nelle decisioni pubbliche attraverso cui si esprime il potere politico-normativo (la normazione tecnica).
Parto da un dato perfino banale, ricordando che il rapporto che la teoria costituzionale ha sviluppato con l’ambiente è il frutto di un approccio dicotomico che è tipico della prospettiva antropocentrica su cui è costruito tutto il pensiero occidentale, che ha prodotto due conseguenze teoriche fondamentali per lo sviluppo delle scienze sociali, e quindi anche delle scienze giuridiche: una comprensione non politica dell’ambiente e, al contempo, una comprensione non biologica del politico.
Parto da qui perché è proprio sulla decostruzione di questo approccio che si sta concentrando uno sforzo teorico multidisciplinare e interdisciplinare che si è dato il nome di “ecologia politica”, una dottrina critica, che si riconosce in tre fratture teoriche: l’eco-femminismo, il pensiero de-coloniale e l’eco-marxismo. Una dottrina critica, dicevo, caratterizzata dalla volontà di decostruire quella scissione dicotomica e ricomporla in un quadro interpretativo “socio-ecologico integrato”. La questione di base per l’ecologia politica è inquadrare l’ambiente (biosfera) non come oggetto di un’esigenza autonoma (una concezione apolitica, appunto, dell’ecologia), ma come elemento del contesto sociale, storicamente situato (quindi conflittuale) in cui si svolgono le relazioni sociali (l’organizzazione sociale).
Pur non essendo una prospettiva originariamente giuridica, l’ecologia politica trova una declinazione naturale in termini costituzionali, guidando la ridefinizione dei fondamentali del costituzionalismo in chiave eco-centrica (senza fare tabula rasa, ma rileggendone i cardini all’interno di quel quadro socio-ecologico integrato di cui parla Torre).
La dottrina costituzionalistica italiana non ha tardato a prendere sul serio questi approdi e (non a caso, soprattutto in prossimità della revisione del 2022), ha iniziato a declinare quella riflessione con le proprie categorie (lo Stato ecologico di De Leonardis, il Costituzionalismo ambientale di Amirante, la Costituzione come ecosistema di Carducci e l’Eco-costituzionalismo di Laura Ronchetti).
Allo stesso modo, non ha mancato di provare a calibrare quei risultati sul piano “positivo”, in riferimento a una Costituzione che, come si sa, in origine non contemplava expressis verbis alcun riferimento all’ambiente. Il prof. Morrone, ad esempio, dando una lettura impegnativa della revisione degli artt. 9 e 41 ha evocato l’immagine della rifondazione del patto repubblicano, frutto dell’introduzione di un nuovo “valore primario” (o “meta-valore”) Ma anche altri, pur dando letture meno innovative della riforma hanno ugualmente accolto l’idea di fondo, divergendo solo per la convinzione che l’intervento legislativo si sia limitato a prendere atto di una trasformazione già compiuta (riforma-bilancio).
Insomma, il punto per una parte della dottrina, la faccio breve, è provare a cogliere il significato di questa rifondazione. Il fine del progetto politico custodito dalla Costituzione fa infatti, secondo questa prospettiva, un salto di qualità. Il fine non viene rinnegato (non si fa tabula rasa, appunto) ma estende il suo orizzonte, in modo coerente con quanto sta provando a spiegare proprio l’ecologia politica: dalla realizzazione di una società di persone egualmente liberate dal bisogno alla «società larga dei liberata dal bisogno e dai rischi effettivi della estinzione e dai bisogni che ne derivano». Compito della Repubblica è dunque «promuovere le azioni necessarie perché le esistenze possano e siano degne di essere vissute».
La tutela dell’ambiente di cui si occupa la Costituzione, che fino ad ora è stata intesa più o meno come la cura del benessere del “giardino di casa” coincide ora con la “transizione ecologica”, ossia con la volontà di fronteggiare (alla luce del pre-esistente impianto politico-ideologico) la crisi strutturale di “collasso ecologico”, cui si è dato il nome di “recessione ecologica”.
Non è poca cosa, ovviamente, trattandosi di sviluppi che coinvolgono radicalmente lo studio del diritto costituzionale, stimolando l’elaborazione di principi che siano capaci di tradurre quella rifondazione in termini normativi.
Provo, cogliendo questo stimolo, a isolare un possibile sviluppo: l’inscrizione della transizione ecologica nell’orizzonte performativo della Costituzione, comporta la necessità di giuridificare l’impegno in un’ottica inter-generazionale (come peraltro ora espressamente disposto dagli artt. 9 e 41) e, in questo senso, di declinare la sostenibilità come non regressione nella protezione dell’ambiente.
Un principio che trova un nucleo non negoziabile in ciò che sta al di la dei limiti del “collasso ecologico”, ma che esprime al contempo l’impegno ulteriore di non diminuire la soglia di protezione garantita.
Con tutto questo gli indicatori c’entrano tantissimo, perché se così è, è proprio nell’indicatore quantitativo che questa tensione prescrittiva trova il proprio dispositivo giuridico. La cosa non sorprende: gli indicatori offrono per natura la possibilità di rafforzare la performativita costituzionale dando riferimenti “oggettivi” ai principi costituzionali da applicare.
Mi limito, a tal proposito, a segnalare, due cose:
- Il primo è un dato che non mi sembra irrilevante, e cioè il proliferare di studi giuridici rivolti alla misurazione dell’effettività del diritto ambientale proprio attraverso gli indicatori, come quello pubblicato nel 2021 da Michel Prieur e Cristophe Bastin (Misurare l’effettività del diritto ambientale) e quello pubblicato l’anno scorso da Jérôme Fromageau, Ayman Cherkaoui and Roberto Coll (Measuring the effectiveness of environmental law through legal indicators and quality analyses).
- Il secondo è il proliferare di questi indicatori, di origine diversa. Potrei fare molti esempi di indicatori che in qualche modo si stanno imponendo come utilizzabili in questo senso. Mi limito a richiamarne qualcuno: come i 232 indicatori elaborati per misurare i progressi nell'attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile adottati dall’ONU e i c.d. planetary boundaries, che in qualche modo hanno finito perfino per svolgere una funzione costitutiva della nozione di collasso ecologico (che della sostenibilità indicherebbe il contenuto non negoziabile) e che, pur avendo un’origine accademica, hanno già assunto una valenza normativa, essendo stati introiettati nelle politiche europee almeno dal settimo programma d’azione (2014) “un leitmotiv delle fonti europee” (fino al Green Deal).
Si aprono, a questo punto, due diversi ordini di problemi.
Il primo riguarda l’equilibrio tra poteri di governo e poteri di garanzia, su cui gli indicatori esercitano un peso molto rilevante, perché rappresentano il dispositivo che consente di vincolare a obiettivi predeterminati la traduzione della politics (nella misura in cui ora include la transizione ecologica) in policies. Questo perché, rappresentando un fenomeno non osservabile direttamente (dando immediata evidenza a grandezze latenti), gli indicatori permettono di rendere concretamente esigibili impegni che altrimenti resterebbero obiettivi orientativi-programmatici.
Non essendo concretamente esigibile l’obiettivo ultimo (la transizione in questo caso), infatti, è solo sulle traiettorie tracciate dalle politiche pubbliche che si può appuntare il controllo, e gli indicatori consentono proprio di misurare e valutare l’adeguatezza della traiettoria rispetto all’obiettivo, quali mezzi impiegati allo scopo. D’altro canto, mi pare che sia un presupposto che emerge già dalla traccia di discussione predisposta per questo panel, in cui, domandandosi in quali regole si traduce la sostenibilità, si è risposto naturalmente “con l’individuazione e la definizione di indicatori-regole giuridiche coerenti con i principi costituzionali e di meccanismi di misurazione delle decisioni di governo”.
Non è un caso, ed è evidentemente legata proprio a questo presupposto, la chiarezza con cui è emerso il tema del ricorso al sistema giudiziario per contestare le politiche pubbliche. Tanto che il tema delle strategic litigation è ormai diventato un topos del diritto costituzionale (i casi che dimostrano questa tendenza sono molti e molto noti).
Quello che si realizza però è un percorso molto problematico per il diritto costituzionale: se in generale si è sempre assunto che i principi costituzionali sono violati in presenza di disposizioni contrastanti, attraverso gli indicatori la verifica sulla compliance può agire attraverso un margine molto ristretto, perché lo “sforamento” dal parametro diventa di per sé sintomatico di una violazione.
Al giudice si apre allora la via per una significativa ingerenza nell’attività di governo, tanto più problematica per il fatto che il sindacato potrebbe non essere costretto da parametri già individuati dagli organi politici. Non di rado, infatti, si registra la tendenza ad una sorta di una pesca lùibera tra indicatori di origine pubblica (soprattutto organizzazioni internazionali) ma anche di origine privata (è il caso proprio dei planetary boundaries).
Occorre pertanto interrogare la legittimità degli indicatori, distinguendo tra indicatori normativamente recepiti (da fonti interne o da fonti internazionali), indicatori incorporati in atti di soft law e indicatori elaborati dai privati (quindi associazioni, ong, accademia ecc.) e ribadire l’esigenza che per essere impiegati dal giudice gli indicatori andrebbero pre-definiti positivamente (ex legge) per ragioni di legalità e di delimitazione della giurisdizione.
Passo al secondo ordine di problemi, strettamente collegato al primo, che attiene al modo in cui gli indicatori possono essere assimilati nei processi decisionali attraverso cui si esprime la volontà politica e, in particolare, nelle decisioni normative. In questo senso le disposizioni che incorporano gli indicatori producono norme che appartengono alla categoria di quelle definite tecniche. Il tema non è affatto nuovo. Nel diritto dell’ambiente, politica e sapere tecnico-scientifico si intrecciano inscindibilmente e inevitabilmente, facendo sì che la produzione del diritto consista quasi sempre in un’attività di “normazione tecnica”, ossia nella produzione di regole elaborate sulla base di presupposti di natura “tecnico-scientifica. Il punto è lo stesso che interroga da tempo la dottrina: come vengono costruite le norme tecniche e, in questo caso, in che modo si esprime il potere (politico) di selezione degli indicatori che, venendo materialmente recepiti nel testo normativo entrano a far parte dell’ordinamento. Si tratta ovviamente di una questione che ha un’estensione e una profondità enorme.
A questo problema si può guardare da diverse angolazioni. La più interessante mi sembra quella offerta dalle fonti del diritto: e dunque dalla forma (comprensiva del procedimento) in cui si esprime la norma tecnica. Le cose, infatti, cambiano notevolmente a seconda del tipo di atto-fonte in cui vengono inserite.
Come è stato scritto ormai ripetutamente la forma più adeguata a questo tipo di normazione è senz’altro quella delle fonti non legislative, per ragioni procedimentali e per ragioni legate alle capacità del soggetto che ne dispone di soddisfare il fabbisogno tecnico-informativo. Spostare il livello della produzione normativa su un piano non legislativo consente, infatti, di posporre la soluzione definitiva di nodi tecnici o politici e di semplificare la manutenzione successiva (caratteristica della normativa tecnica è infatti la necessità di aggiornamento, trattandosi di interventi che implicano una regolamentazione in divenire). La legge e il Parlamento – inadeguati ad occuparsi della regolazione tecnica di dettaglio – dovrebbero decidere ed esplicitare in maniera significativa i fini da raggiungere e i criteri da seguire nell’attività di fissazione delle regole tecniche (e quindi anche dagli indicatori) esprimendo i principi generali della volontà politica, dopo averla filtrata nel dibattito parlamentare.
Il problema è che quello che avviene nella realtà è molto diverso: la legge, infatti, si limita ad affidare – per mezzo di numerosi rinvii (per lo più in bianco) – il potere di determinare il contenuto della normativa tecnica (e quindi anche la scelta degli indicatori) agli organi (quasi sempre quelli monocratici) del Governo. Circostanza che si lega ad un problema ulteriore, che riguarda l’insondabilità di ciò che avviene “dopo la legge”. E il problema non sta nemmeno tanto nell’ormai notissima «fuga dal regolamento», quanto nel fatto che, ancora prima della sua capacità prescrittiva, in Italia manca completamente una disciplina istruttoria dei procedimenti normativi non legislativi. Anche a volerla rispettare, infatti, legge 400 del 1988 si occupa del procedimento normativo solo a partire da un momento in cui il contenuto dell’atto è già stato formulato, senza che vi sia modo di governare né la composizione degli interessi in gioco né il modo in cui il fabbisogno informativo viene soddisfatto. Ne risulta un quadro molto problematico, in cui la formazione di queste norme finisce per risolversi in plurimi atti di fiducia del legislatore nei confronti di chi provvede di fatto a redigere il testo.