Cominciamo dai «poveri», ultimi dell’elenco (e in generale). La povertà costituisce un problema che il diritto primario europeo confina, almeno in apparenza, fuori dall’Unione stessa: «l’eliminazione della povertà» è richiamata come obiettivo nelle disposizioni del TUE e del TFUE che riguardano i rapporti con gli Stati terzi, l’azione esterna dell’UE e le politiche di cooperazione allo sviluppo.
La lotta contro la povertà «internamente» all’Unione, è comunque richiamata nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE e specificamente nell’art. 34, dedicato dal diritto alla sicurezza e all’assistenza sociali: un diritto che il diritto europeo «riconosce» e «rispetta» ma «secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e le prassi nazionali». Più in generale, il TFUE a più riprese richiama la necessità (art. 9) che l’Unione, nel definire e attuare le proprie politiche, tenga in considerazione l’esigenza che sia garantita un’adeguata protezione sociale e la lotta contro l’esclusione sociale e l’obiettivo (art. 152) della lotta contro l’emarginazione. Il c.d. «Pilastro europeo dei diritti sociali», documento adottato solennemente da Parlamento, Consiglio e Commissione europea nel 2017, al suo Capo III sancisce alcuni principi e diritti in tema di protezione e inclusione sociale e contrasto alla povertà. L’attuazione del pilastro, tuttavia, spetta essenzialmente agli Stati membri, che sono i principali responsabili in tema di occupazione, competenze e politiche sociali. Si tratta pertanto di un catalogo di diritti non coercibili (anche in termini di spesa pubblica) nei confronti dell’Unione e che, in termini di obiettivi da realizzare, impegnano gli Stati a livello principalmente politico.
Il Pilastro può esercitare un (relativamente modesto) condizionamento giuridico sugli ordinamenti nazionali, attraverso il c.d. «Dispositivo per la ripresa e la resilienza» (Reg. UE n. 241/2021) e la nuova disciplina del semestre di coordinamento delle politiche economiche, dopo la riforma del Patto di stabilità e crescita del 2024 (Reg. UE n. 1263/2024). Il primo richiede espressamente che i Piani nazionali per la ripresa e resilienza (PNRR) degli Stati membri mirino ad attenuare «l'impatto sociale ed economico della crisi, contribuendo all'attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali e rafforzando la coesione sociale, economica e territoriale e la convergenza all'interno dell’Unione». La seconda ingloba nel semestre europeo «l’elaborazione e la sorveglianza sull’attuazione degli orientamenti in materia di occupazione […] compresi i principi del pilastro europeo dei diritti sociali, e delle pertinenti raccomandazioni specifiche per paese. La sorveglianza sull’attuazione da parte della Commissione comprende i progressi compiuti nell’attuazione dei principi del pilastro europeo dei diritti sociali e dei suoi obiettivi principali, attraverso il quadro di valutazione della situazione sociale e un quadro per individuare i rischi per la convergenza sociale» (art. 3 par. 3 lett. b)). Inoltre, i nuovi Piani strutturali di bilancio a medio termine degli Stati devono indicare e spiegare in che modo affronteranno le priorità comuni dell’Unione, tra cui «la resilienza sociale ed economica, compreso il pilastro europeo dei diritti sociali» (art. 13 lett. c)). Nell’Agenda 2030 dell’UE, l’obiettivo ambizioso è di far uscire almeno 15 milioni di persone dalla condizione di povertà.
Venendo ai dati statistici (tratti dal World Inequality Database, https://wid.world/), questi mostrano che nel 2023 il 10% della popolazione mondiale possedeva il 53,5% del reddito prodotto e quasi il 74% degli asset patrimoniali, mentre appena l’1% della popolazione era titolare di oltre il 36% del patrimonio e di oltre il 20% del reddito mondiali. Ciò significa che 1/100 della popolazione mondiale possiede più di 1/3 del patrimonio esistente e più di 1/5 del reddito prodotto. La metà più bassa della popolazione mondiale, invece, possiede appena il 2% del reddito e l’8% del patrimonio complessivi.
Se guardiamo alle grandi aree geopolitiche, l’Europa ha certamente al suo interno una distribuzione meno diseguale di reddito e di patrimonio rispetto a USA e Cina: il 10% della popolazione europea possiede oltre il 36% del reddito lordo complessivo, e il 50% più basso della stessa popolazione possiede poco oltre il 18% del reddito, circa la metà di quello che è posseduto dal diecile più alto. Quanto al patrimonio, il 10% della popolazione europea ne possiede quasi il 60%, mentre la metà più bassa della popolazione ne possiede appena il 3,6%. In Italia, il 10% della popolazione possiede oltre il 37% del reddito complessivo e oltre il 56% dei valori patrimoniali.
Va però anche detto che il PIL europeo è andato crescendo in misura minore di quello di Stati Uniti e Cina almeno a partire dall’inizio del secolo (dati della Banca mondiale: https://data.worldbank.org/), per cui la «meno iniqua» distribuzione degli indici di ricchezza in Europa si accompagna anche ad una minore crescita economica complessiva di questa area. I dati Eurostat (al 2024) indicano che la povertà estrema colpisce il 6,8% della popolazione europea, pari a circa 23,2 milioni di persone. Sempre in Europa, 94,6 milioni di persone (pari al 21,4% della popolazione) sono invece a rischio di povertà ed esclusione sociale.
Utilizzando il coefficiente di Gini (0-100, dove zero corrisponde a una distribuzione perfettamente uguale, cento al livello massimo di diseguaglianza), i dati mostrano, al 2023, il terzo e quarto mondo all’apice della scala di diseguaglianza distributiva del reddito lordo. Africa subsahariana, Medioriente e Nordafrica, America Latina, Asia del sud e Sudest asiatico presentano valori compresi tra 65 e 69. Nordamerica (Stati Uniti e Canada), Oriente asiatico, Russia ed Asia centrale si attestano su valori compresi tra 58 e 60. L’Europa, in effetti, presenta un valore di 49 (tra i pochi Paesi che si trovano sopra la media europea figurano Italia [53] e Romania [50]). Quanto alla distribuzione sociale delle risorse patrimoniali, il quadro è similare: tra 86 e 87 punti per America latina, Africa e Medioriente, tra 82 e 83 per Stati Uniti e Russia e Asia Centrale, mentre Cina e sudest asiatico si attestano sui 78 punti. Anche in questo caso l’Europa ha il coefficiente relativamente più basso, pari a 76 punti su cento.
La tassazione sembra ridurre in modo significativo il coefficiente di diseguaglianza nella distribuzione del reddito in Europa e negli Stati Uniti d’America, rispettivamente a 36 ed a 46 punti su cento nel 2023, e in misura invece assai meno o per nulla significativa nel resto del mondo.
Ciononostante, è difficile pensare che nel prossimo futuro gli Stati europei non dovranno porsi il problema della povertà e della diseguaglianza delle dinamiche redistributive, come un problema non solo dei singoli sistemi nazionali, ma comune. Questo se si considerano alcuni fattori concomitanti: l’acuirsi della crisi di sostenibilità fiscale del modello di Welfare State, le sfide che l’emergenza climatica impone, a cominciare da un ripensamento del modello di produzione e consumo, la progressiva de-globalizzazione dei mercati e la forte instabilità delle relazioni tra blocchi geopolitici. In altre parole – e senza poter approfondire ulteriormente il punto in questa sede – se da un lato l’Europa deve riacquistare competitività sui mercati mondiali (si veda la recentissima Comunicazione della Commissione europea COM (2025) 30 final su Competitiveness Compass for the EU, del 29 gennaio 2025), dall’altro, dal punto di vista «interno», la sfida altrettanto importante sarà quella di riuscire non solo a preservare, ma anche a potenziare e rendere più equo quel benessere economico e sociale che, seppure con fortissime differenze tra un Paese europeo e l’altro, ha caratterizzato fino ad oggi l’esperienza delle democrazie dell’UE, almeno di quelle fondatrici.
Insomma, balza agli occhi una diseguaglianza redistributiva enorme, a livello mondiale e di grandi aree geopolitiche. Si tratta di un macroscopico «fallimento del mercato», il quale però, dal punto di vista del mercato, non è affatto un fallimento, è piuttosto una manifestazione intrinseca del meccanismo di funzionamento dell’economia capitalistica occidentale, operante in un regime di concorrenza assai imperfetta. La posizione che qui assumiamo è molto netta e, per quanto non sia possibile approfondirla in questa sede, crediamo per nulla apodittica: il mercato genera «naturalmente» diseguaglianze ed è fondato sulle diseguaglianze, cosicché in assenza di una regolazione pubblica appare utopico predicare una capacità solidaristica, redistributiva in senso egualitario del mercato, almeno non dell’esistente mercato internazionale dei capitali e, più in generale, del capitalismo finanziario globale del XXI secolo.
È su questa forse anche un po’ scontata considerazione che si rivela assolutamente necessario un intervento correttivo della finanza pubblica che garantisca una redistribuzione effettiva, nel segno di una maggiore equità, in primo luogo attraverso un’efficiente leva fiscale ed un altrettanto efficiente processo di spesa pubblica sociale. Dopo la caduta del progetto di economia sovietica negli anni Novanta dello scorso secolo, la Storia non è finita, come preconizzava nel 1992 il politologo Francis Fukuyama (The End of History and the Last Man), ma ha certamente visto un’amplissima e per certi aspetti drammatica espansione del capitalismo neoliberista su scala mondiale, con un progressivo allontanamento, però, del modello economico da quello politico delle liberaldemocrazie e un apparentamento con l’autoritarismo. In questo scenario, anche negli Stati costituzionali e democratici dell’Occidente, la dialettica e il binomio «Stato-Mercato» non hanno affatto raggiunto un assetto che possa considerarsi né definitivo né, soprattutto, ottimale.
Le diseguaglianze distributive, l’impoverimento di ampi strati della popolazione e la concentrazione delle ricchezze possono essere fonte di ulteriori crisi finanziarie anche globali – come spesso denunciano gli stessi economisti – perché ridondando in una vera e propria inefficienza del mercato.
Certo, esperienze come quella dell’Argentina dimostrano che l’equilibrio è delicato: se lo Stato interviene per supplire alle inefficienze del mercato ma è a sua volta inefficiente, si innesca un circolo vizioso che genera sfiducia nei mercati e compromette la capacità fiscale dello Stato stesso. L’Argentina, a causa dell’inefficienza e dell’insostenibilità delle politiche assistenzialiste dei governi di ascendenza peronista, è incorsa negli scorsi decenni in frequenti default, è dovuta ricorrere al finanziamento monetario del debito per l’ormai oggettiva impossibilità di accedere al credito internazionali, dato che i mercati finanziari hanno manifestato un’estrema sfiducia nei confronti della solvibilità dello Stato, e ciò ha comportato un’inflazione altissima (endemico problema di quel Paese, in verità). L’inflazione, a sua volta, ha contribuito ad aggravare la povertà. La ricetta di politica economica violentemente anti-statalista dell’attuale presidente argentino Javier Milei (che ha dichiarato recentemente che «lo Stato è il nemico, lo Stato è un’associazione criminale in cui un insieme di politici si mettono d’accordo e decidono di utilizzare il monopolio per rubare le risorse del settore privato», attraverso la tassazione) punta alla massima liberalizzazione del mercato e a tagli drastici alla spesa pubblica sociale per sanità, assistenza e istruzione, realizzando il pareggio di bilancio. In questo modo lo Stato argentino sta effettivamente riducendo l’inflazione in modo ammirabile: nel 2024 l’inflazione, che a gennaio era stimata su base annua a oltre il 620%, è scesa a dicembre a poco più del 117% (sempre su base annua) mentre le stime per il 2025 indicano come obiettivo un’inflazione al 45%. Tuttavia, l’altra faccia della medaglia di questa politica di austerità fiscale è sempre la povertà: sotto la presidenza Milei la stima della popolazione in condizioni di povertà è salita a oltre il 52%.
Anche ammesso, ma non concesso, che negli ultimi cinquanta anni circa la crescita economica di Paesi prima considerati sottosviluppati abbia contribuito a diminuire, a livello globale, il numero degli individui in condizioni di povertà assoluta (cioè con una capacità di spesa non superiore a 2,15 dollari al giorno, secondo i parametri di misurazione impiegati a partire dal 2022), l’emergenza della – comunque esistente – diseguaglianza economica non allontana ma anzi rilancia il problema dell’effettività dei diritti.
Questo tema della «povertà» fa emergere allora una connessione molto forte tra le questioni attinenti alla disciplina della finanza pubblica e le narrative politiche e le teorie giuridiche dei diritti: quelli collettivi, sociali, individuali, fondamentali, costituzionali, civili, politici, i diritti di libertà positiva e negativa, ma anche i diritti che esprimono i bisogni di indipendenza, autonomia, non-soggezione e non-dominio. Ai diritti si accompagnano naturalmente i doveri, primo fra tutti quello di contribuire alle spese pubbliche in condizioni di eguaglianza (sostanziale e non solo formale) e in ragione della propria capacità economica, come dispone l’art. 53 della Costituzione italiana.
Lo studio giuridico della finanza pubblica, della disciplina delle entrate e delle spese pubbliche e della loro correlazione nei bilanci delle P.A., sottintende in verità un’analisi di come i modi, le regole, i dispositivi istituzionali che presiedono al reperimento e alla redistribuzione delle risorse finanziarie qualifichino in modo sostanziale i cataloghi normativi dei diritti, determinandone le condizioni di accesso e l’intensità di godimento da parte dei consociati. E ciò in termini, in primo luogo, di eguaglianza. Diritti finanziati in modo diseguale, saranno goduti in modo altrettanto diseguale; una gestione discriminatoria, o anche solo inefficiente, delle spese pubbliche causerà diseguaglianze profonde nell’accesso ai diritti, nell’intensità del loro godimento; e così via. Tutta la costellazione di diritti, ma anche dei relativi doveri pubblici o privati, che caratterizza lo Stato costituzionale di diritto, dipende dalla finanza pubblica: l’effettività di tali diritti è determinata non solo in termini quantitativi dalla disponibilità maggiore o minore di risorse da destinare alla spesa, ma anche in termini qualitativi: si tratta della «qualità» (in termini di efficacia, efficienza, economicità ed equità) di quell’apparato tecnico che è costituito da atti e procedure programmatorie, decisionali, gestionali, dai meccanismi redistributivi espliciti o impliciti nei sistemi di finanziamento, dai modelli normativi di revisione della spesa. A questi aspetti, anche tecnici, rimandano ad esempio, direttamente o indirettamente, la maggior parte delle dottrine che la Corte costituzionale italiana, nell’esercizio del suo balancing power, ha sviluppato in merito, prima, ai c.d. diritti finanziariamente condizionati e poi, più di recente, alle c.d. spese costituzionalmente necessarie.
Inoltre, la tematica dell’eguaglianza distributiva dei diritti presenta un risvolto importante in materia di indicatori macroeconomici, e in particolare di quelli utilizzati per orientare le politiche pubbliche. La «giuridicizzazione» di alcuni indicatori di finanza pubblica che, da strumenti di conoscenza scientifica, di ausilio per la valutazione e l’adozione di decisioni politiche o di controllo, sono diventati veri e propri strumenti normativi di indirizzo politico-amministrativo (attraverso appunto l’attribuzione di effetti precettivi e vincolanti al «fatto» che tali indicatori assumano o meno determinati valori: si pensi ad esempio al rapporto deficit/PIL o al rapporto debito/PIL) solleva questioni importanti. Il «governo dei numeri» – va ricordato – è un fenomeno oggetto di studi e di significativi progetti di ricerca anche presso questo Ateneo, perché solleva interrogativi importanti in merito all’incidenza che queste tecniche di indirizzo possono avere sulla configurazione tecnocratica della forma di governo o in merito alle loro ricadute in termini di legittimazione e di responsabilità, dato che l’impiego dell’indicatore macroeconomico o statistico tende a porsi e presentarsi come espressione e garanzia di una «oggettività scientifica» della regola giuridica, della decisione politica o dell’agire amministrativo. Ed ecco perché questa giornata è stata organizzata insieme al collega Prof. Corrado Caruso che è responsabile di un importante progetto di ricerca PRIN intitolato «Governing by numbers: the impact of indicators on constitutional system».
L’attribuzione di «valore» normativo a indicatori statistico-econometrici come il rapporto tra il disavanzo del settore pubblico e prodotto interno lordo, o il rapporto tra debito e PIL, o ad altri indicatori «astrusi» come il saldo strutturale di bilancio (che presuppone una complessa determinazione della componente ciclica di entrate e spese pubbliche), è ciò che ha caratterizzato tutto il processo di costruzione e applicazione delle «regole fiscali numeriche» per il coordinamento delle finanze pubbliche da parte dell’Unione europea e del suo patto di stabilità e crescita, dal lontano 1992 fino alle più recenti riforme del 2024. In questo quadro, al di là della riflessione più generale sul significato e la portata di un modello di governance basata su indicatori applicato alla finanza pubblica, una delle questioni irrisolte riguarda l’adeguatezza degli indicatori finora utilizzati, a cominciare dalla centralità assegnata al PIL. L’assenza di un uso «normativo» o «prescrittivo» di indicatori che valorizzino l’eguaglianza distributiva delle risorse e delle chance in base ai diversi fattori rilevanti (per gli individui, ad es. età, genere, lavoro, ma anche per i territori) costituisce un’evidente lacuna dell’attuale modello di governance economica. L’Accademia dovrebbe riflettere già soltanto sulla razionalità e opportunità di tale lacuna, nello scenario socio-economico attuale, e dovrebbe forse impegnarsi maggiormente nell’elaborare indicatori relativi alla equità della distribuzione delle risorse e nel promuovere un uso normativo di tali indicatori: il che, ne siamo naturalmente consapevoli, presuppone affrontare (e risolvere, almeno in parte) questioni molto delicate e complesse come l’individuazione di quale sia la dimensione ottimale che devono avere i destinatari della redistribuzione (meglio redistribuire per aree geografiche, nazionali, per corpi intermedi o per singoli individui?), oppure l’individuazione di quali siano i modelli di giustizia redistributiva migliori, più praticabili, più adeguati a diversi contesti (giustizia ripartitiva, compensativa, correttiva, etc.) e quale possa essere la loro più efficiente combinazione.
Questo scenario, con la sua implicita domanda di maggiore equità, porta dunque a valorizzare nuovamente e urgentemente la funzione redistributiva della finanza pubblica su scala quantomeno europea. Lo Stato e le organizzazioni di Stati, tornati al centro dell’interventismo economico-politico prima con la pandemia mondiale e poi con la guerra russo-ucraina sul continente europeo, si confermano un centro di riferimento anche per questa parte del discorso pubblico che riguarda la povertà. Ed ecco allora evocate le altre due figure del trittico come compone il titolo di questo incontro: Sovrani e Prìncipi. Analizziamoli di seguito.