La sovranità costituisce un potente paradigma concettuale della politica e del diritto, il paradigma nel cui orizzonte sono state pensate la politica e il diritto a partire dalla formazione degli Stati moderni occidentali, la chiave della legittimazione e della concettualizzazione del potere a partire quantomeno dal pensiero della fine del Cinquecento, con l’opera di e.
È anche il paradigma giuridico-politico più in crisi dell’epoca contemporanea e maggiormente attraversato da contraddizioni e ambiguità. Si può dire che la sovranità, come concetto di potere assoluto, indivisibile, legittimante un centro unico di imputazione e di esercizio del potere, sia – in quanto tale – in dissoluzione sin dal momento in cui è stato forgiato dal pensiero e dalla pratica politici. Come ben illustrato di recente in un libro del Prof. Enzo Cannizzaro, La sovranità oltre lo Stato (Bologna, 2020), la teoria giuridica della sovranità altro non è in fondo, almeno nel suo sviluppo storico, se non una teorizzazione dei suoi limiti e della progressiva «dislocazione» della sua titolarità (non della sua essenza) dall’unico corpo della persona fisica del re a diversi altri corpi: primo tra tutti quello sociale della nazione o del popolo, o articolazioni della persona giuridica Stato individuate in base alla divisione dei poteri o diverse strutture organizzative (centrali, periferiche, finanche sovranazionali) stabilite secondo criteri di competenza funzionale e/o territoriale. La sovranità è ora della legge, ora della Costituzione e dei valori che essa custodisce; ora è data dalla titolarità della competenza: a stabilire le regole, oppure a decidere sullo stato di eccezione (secondo la celebre definizione datane dal Carl Schmitt nella Teologia politica del 1933).
La vis della sovranità da assoluta si è frantumata, è stata resa liquida e ubiquitaria. La sovranità viene percepita per lo più come ormai (apparentemente?) circoscritta e rarefatta dal diritto, almeno su quello che possiamo chiamare il lato interno della sovranità, cioè l’esercizio del potere all’interno dello Stato-nazione e sui cittadini. Il potere del diritto statuale (che rimane in ogni caso, nella sua essenza più nascosta e profonda, una forma di coazione e di violenza, seppure arginata e controllata) è, nello Stato costituzionale di matrice liberal-democratica, un potere da lungo tempo non più assoluto, soprattutto perché suddiviso tra plurimi e diversi centri di potere. Va comunque ricordato che anche sul lato interno le dinamiche politiche (non da ultimo quelle di cui sono stati protagonisti, nel tempo recente, movimenti e partiti c.d. sovranisti) conducono talvolta ad aspre tensioni istituzionali tra i tre canonici poteri della teorizzazione di Montesquieu, esecutivo legislativo e giudiziario: tensioni che lasciano intravedere una certa insofferenza della «sovranità interna» per questa «destrutturazione» istituzionale.
Sul «lato esterno» della sovranità dello Stato, quello cioè dei rapporti reciproci tra le comunità politiche e gli ordinamenti giuridici nazionali, cioè sul lato del diritto internazionale, la sovranità rimane invece percepita come «forte» e centrale, banalmente perché senza gli «Stati sovrani» sarebbe impossibile pensare il diritto internazionale stesso, che è in primo luogo diritto dei rapporti tra Stati. Anche in questo caso, però, va ricordato che l’esercizio della «sovranità esterna» è stato inserito in una rete di organizzazioni e di sovrastrutture giuridiche sovranazionali che, anche se prive di poteri realmente coercitivi, hanno trasformato e stanno trasformando il volto della sovranità, sia di quella esterna sia, in parte di riflesso, anche di quella interna (giacché i due lati sono saldati insieme). Anche il rapporto tra Stato e attori economici transnazionali, tra Stato e mercato globalizzato, mette in luce come lo Stato sovrano sia ormai un «player» che, in un macro-scenario che si può leggere attraverso la teoria dei giochi ha, almeno sotto certi aspetti, una «potenza» e una capacità di intervento e di influenza non dissimili da quelle di altri «giocatori», di altre organizzazioni private o business corporation, con le quali entra in competizione o conflitto, oppure deve collaborare o trova opportuno farlo. Anzi, in determinati casi – quelli che in questa sede ci interessano di più, cioè quelli che riguardano il potere economico-finanziario – i soggetti privati appaiono molto più «potenti» dello Stato. Basti pensare a società multinazionale di investimento finanziario e di gestione patrimoniale come Black Rock, con sede a New York, che a fine 2024 aveva una capitalizzazione stimata di circa 11.500 miliardi di dollari (oltre cinque volte il PIL italiano), una gestione di flussi finanziari in entrata di oltre 640 miliardi di dollari e ricavi annuali per oltre 5 miliardi di dollari.
Ma lungi da risultare eclissata, la sovranità statuale negli ultimi anni è divenuta un tema permanente e costantemente rivitalizzato (e controverso) del dibattito politico e giuridico: dal c.d. sovranismo e dalla critica della dimensione della sovranazionalità (in particolare quella europea), alla riaffermazione della guerra (in molte forme diversificate) come strumento nella disponibilità della politica degli Stati sovrani che pure siedono nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
E uno degli ambiti in cui il tema della sovranità è riemerso prepotentemente è quello della finanza pubblica: molti gli studi pubblicati negli ultimi dieci anni circa aventi ad oggetto riflessioni intorno alla sovranità finanziaria, fiscale, tributaria. A parte il monopolio della forza, è vero che alcuni degli attributi storicamente «classici» della sovranità, come il tributo e la moneta, nel contesto europeo e internazionale sono stati e continuano a essere oggetto di processi che ne erodono il controllo da parte degli Stati o che privano gli Stati direttamente della loro titolarità, per ciò che riguarda la normazione e/o l’applicazione.
La sovranità monetaria, per quasi i due terzi dei Paesi UE (venti Stati su ventisette) è stata trasferita all’Unione europea, alla Banca Centrale Europea (BCE) e al sistema delle banche centrali (SEBC). Il coordinamento delle politiche economiche, fiscali e di bilancio nazionali che dal Trattato di Maastricht fino ad oggi ha caratterizzato il policy making europeo in materia di finanza pubblica nasce, in buona parte, dall’esigenza di sostenere la moneta unica.
Per quanto riguarda la sovranità tributaria, questa ha dovuto fare i conti, da un tempo ben anteriore all’avvento dell’euro, con una complessa interazione tra fiscalità statuale, mercato, e organizzazioni sovranazionali.
Da un lato vi sono i processi unionali, seppure limitati, di ravvicinamento delle legislazioni, di armonizzazione fiscale e di coordinamento dei sistemi tributari nazionali, avviati e proseguiti negli anni per ridurre le barriere fiscali interne e favorire il funzionamento del mercato unico europeo e la libera circolazione di beni e servizi e fattori della produzione (capitale, lavoro, tecnologie).
Dall’altro lato, il tributo è stato sicuramente oggetto di un processo di progressiva «mercificazione» da parte degli Stati: ridotto a fattore economico di costo generato dal settore pubblico, la modulazione al ribasso del tributo-merce da parte dei governi di alcuni Paesi è servita per cercare di attrarre capitali e investimenti dall’estero, specie da parte delle grandi multinazionali dell’economia digitale. Ciò ha condotto a forme di concorrenza fiscale internazionale tra Stati, dissimulanti, talvolta, vere e proprie «guerre fiscali».
L’elaborazione di strumenti per contrastare le pratiche di pianificazione fiscale delle imprese, facenti leva sul basso livello di tassazione di alcuni Paesi e sulla concorrenza fiscale tra ordinamenti, anche in questo caso è necessariamente passata attraverso la dimensione sovranazionale. Hanno contribuito, in questo senso, l’implementazione del divieto europeo di aiuti di Stato e poi soprattutto la soft law della Organization for Economic Co-operation and Development (OECD), che associa 36 Paesi. È rilevante soprattutto il progetto BEPS (contro la base erosion and profit shifting), sviluppato negli ultimi dieci anni circa nell’ambito del G20, che ha promosso due strumenti, il c.d. Pillar one e il c.d. Pillar Two, diretti a riconfigurare il coordinamento fra le tassazioni degli «Stati sovrani» nel contesto dell’economia digitale globale. Il primo punta a «spostare» la potestà impositiva nelle c.d. market jurisdictions, cioè a radicare il potere di tassare i redditi delle imprese multinazionali di maggiori dimensioni (con ricavi globali superiori a 20 miliardi di euro e un margine di utile prima delle imposte superiore al 10%) nel luogo di consumo dei beni e servizi e non più nel luogo di loro produzione o di stabilimento della corporation. Il secondo punta a far introdurre una global minimum tax, un sistema di tassazione coordinato dei vari Stati partecipanti, in modo che i gruppi multinazionali con un fatturato consolidato complessivo di almeno 750 milioni di euro siano effettivamente assoggettati a una tassazione con un’aliquota di almeno il 15%. In questo modo si cerca di limitare la concorrenza fiscale tra Stati e di ridurre la convenienza delle imprese multinazionali ad operare in giurisdizioni a bassa o nulla fiscalità.
Le condizioni di esercizio della sovranità tributaria, insomma, appaiono complesse, e le sue forme sempre più articolate e, per certi versi, contraddittorie. Certo è che le pressioni derivanti dall’interazione con il mercato mondializzato hanno contribuito a far perdere alla fiscalità una parte importante della sua funzione redistributiva e di componente cardine per la realizzazione di un sistema «giusto» di concorso alla spesa e al bilancio pubblici. La concentrazione dei capitali in capo a poche grandi imprese globali e la dislocazione dei rispettivi redditi in una molteplicità di flussi e territori favoriscono una sostanziale diseguaglianza dei prelievi tributari che mina anche la funzione sociale del tributo (e ciò riporta, indirettamente, al tema della povertà).
Oltre alla sovranità del tributo, vi è poi quella del debito. La crisi del secondo decennio del XXI secolo è stata soprattutto la c.d. crisi dei debiti sovrani che ha prodotto, come conseguenza, un massiccio rafforzamento dell’apparato normativo e tecnico della governance europea sulla finanza pubblica nazionale. Poi, con la crisi pandemica, l’indebitamento dell’Unione è stato salutato come la prima embrionale espressione di un federalista «momento hamiltoniano» che evoca scenari di progressiva cessione di «sovranità fiscale» dagli Stati all’UE, al fine di condividere un’unitaria politica del debito per gli investimenti (una condivisione certo più forte rispetto a quella della politica tributaria, ancora di fatto assente).
La domanda su chi detenga la sovranità economico-finanziaria in Europa tocca dunque un nervo scoperto, perché lascia intravedere una situazione in cui si intrecciano confusamente diverse posizioni di «potere». L’espressione «debito sovrano» è significativamente ambigua. Chi è infatti l’autentico «sovrano»?
È sovrano il singolo Stato, debitore pubblico, privo di sovranità monetaria ma dotato ancora nominalmente della potestà tributaria, anche se le condizioni di possibilità della sua politica economica e della sua crescita dipendono dal rispetto di complesse regole tecnocratiche dettate dall’Unione europea, o dagli investimenti che questa cofinanzia attraverso il PNRR? Oppure il vero sovrano, soprattutto nei confronti degli Stati ultra-indebitati, è il creditore privato, quell’entità astratta che sono i mercati finanziari, gli investitori – tra i quali campeggiano i sistemi bancari di altri «Stati sovrani» a loro volta indebitati, compresi quelli di Paesi terzi – dalla cui fiducia dipendono la sostenibilità del debito statale e la sua capacità di rinnovarsi nel tempo? È più sovrano lo Stato che può concedere de-tassazioni ai mercati, che può trovarsi costretto a «trattare» con i mercati il livello della pressione fiscale per non perdere attrattività o fiducia economica, che è sottoposto al mercato-giudice o ai giudizi delle agenzie di rating in merito alla sua sostenibilità finanziaria? Oppure sono più sovrani i mercati che, se da un lato possono speculare contro lo Stato, dall’altro però rischiano anch’essi di perdere nel caso in cui questi entri in una fase di default che porti al collasso del sistema bancario, al crollo della domanda e al fallimento dell’intera economia aggregata di un Paese con effetti a catena sugli altri?
È più sovrana l’Unione europea che pone regole al (ma non governa il) debito degli Stati membri, in particolare quelli dell’Eurozona, e che si indebita nei confronti dei mercati finanziari internazionali per finanziare gli investimenti dei propri membri, ma non ha il potere di esigere tributi? O sono più sovrani gli Stati nazionali che rimangono garanti di ultima istanza degli eurobond, dal momento che sono gli unici ad avere quella sovranità fiscale e quella potestà di imporre tributi che permetterà in futuro all’Europa di disporre delle risorse a bilancio necessarie per rimborsare il debito?
D’altra parte senza una Fiscal Union, senza un’autentica capacità fiscale europea, senza un’autonoma leva tributaria europea che garantisca una stabile e non contingente capacità europea di indebitamento su larga scala, molti sostengono che l’unica «sovranità» in materia finanziaria che l’UE ha sicuramente e definitivamente acquisito, ovvero la sovranità monetaria, si riveli inefficiente e per così dire «zoppa», perché sarebbe incapace di coordinarsi in modo unitario ed omogeneo con le «altre sovranità» che concorrono a definire la politica economica complessiva.
Come è facile intuire, nonostante la propria pretesa originaria di assolutezza e di unitarietà, la sovranità tende fisiologicamente a strutturarsi in una rete diffusa di rapporti simbiotici e di poteri reciproci: la sovranità praticata è sempre stata ben distante dalla sovranità come concettualizzazione e come simbolizzazione (anch’esse, peraltro, funzionali alla pratica del potere), ma l’attuale pratica della sovranità ne mette ormai manifestamente in discussione concetti e simboli, e ciò la indebolisce.
Questa de-costruzione della sovranità (qui riguardata soltanto, e di sfuggita, dal punto di vista economico-finanziario) fa emergere sullo sfondo l’ultima figura del trittico che abbiamo immaginato: il Prìncipe.