I prìncipi

Il prìncipe non è soltanto un sovrano in potenza, un non-ancora sovrano, ma – per come lo intendiamo in questa sede – occupa una posizione differente ed è dotato di un differente potere. Pertanto, teniamo idealmente distinte le due figure, anche se possono sovrapporsi e coincidere.

Princeps è infatti il titolo che spetta all’imperatore romano, al tempo iniziale dell’impero, sotto Ottaviano Augusto (solo nel tardo impero, con Diocleziano, l’imperatore sarà dominus, il princeps è invece il «primo», sottinteso tra pari, il princeps senatus). La storia dei concetti e l’esperienza mostrano come l’essere sovrani non sia un titolo esclusivo e come abbia potuto essere trasferito dal re al popolo; quello di prìncipe no, sarebbe impensabile. L’etimo mostra come la superiorità del sovrano (dal latino medievale superanus, in francese souverain) sia collegata a una posizione, uno «stare sopra» del potere che evoca il soperchiare, la supremazia dalla forza. Il potere del principe è invece nell’auctoritas, nella superiorità in primo luogo morale che si accompagna, ma non si confonde, con la potestas e l’imperium. E l’autorità-autorevolezza del prìncipe è connessa, prima che ai suoi poteri, ai suoi doveri. Certo, la figura del prìncipe rimane caratterizzata e qualificata da un elemento personalistico, aristocratico: la sovranità è una qualità fungibile e dalla persona fisica è stata poi trasferita ad entità astratte; l’autorità del prìncipe, invece, per quanto possa essere appannaggio anche di organizzazioni e non solo di persone fisiche, non è così facilmente traslabile. Ed è per questo che nel principato è intrinsecamente connaturato il rischio di un’involuzione dell’autorità in autoritarismo

Ora, utilizzare una figura o una nozione come quella di prìncipe o di principato potrebbe sembrare del tutto inattuale oggi, o possibile solo a prezzo di uno snaturamento della sua essenza. In effetti, al sovrano statale dimidiato negli attributi economico-finanziari della sovranità (moneta, tributo, «potenza» di spesa) si contrappongono oggi molti «prìncipi» muniti di un’autorità che si manifesta però in un immenso potere economico prima che politico, e che viene loro dal capitalismo industriale e finanziario: un’autorità non certo morale ma che nasce da un successo sul piano economico-sociale che legittima prima e a prescindere dalla legittimazione che si esprime, poi eventualmente, nelle forme della democrazia politica. Sono gli oligarchi, il nuovo principato è, innanzi tutto, l’oligarchia economica.

La recente parabola del potere americano, con le elezioni del 47° Presidente degli U.S.A., può essere letta anche in questa prospettiva: oligarchi capitalisti che, rompendo gli schemi, riescono a farsi legittimare dalle procedure della democrazia popolare a «fare i sovrani». Il recente, plateale esercizio di alcuni poteri presidenziali (mediante gli executive orders) è emblematico, perché hanno ad oggetto azioni che sembravano precluse all’esercizio della sovranità statuale degli Stati dell’Occidente democratico: rinominare le zone geografiche, pretendere di annettere o comprare territori di altri Stati, utilizzare il tributo più antico ma anche quello intrinsecamente più connesso al commercio, il dazio, come vera e propria arma di pressione geopolitica, arrivando così a far parlare di «guerra dei dazi».

Si tratta, invero, di un’eccezione al modo in cui l’oligarchia economica, quale nuovo principato, solitamente ha guidato e indirizzato l’esercizio del potere politico, cioè non dall’interno ma occupando uno spazio che normalmente rimane esterno ad esso, sebbene per nulla estraneo alle istituzioni di governo. È un’eccezione in sé molto significativa perché, insieme all’esperienza italiana dei governi dell’imprenditore Silvio Berlusconi tra la metà degli anni Novanta del XX secolo e il primo decennio del XXI, anticipa forse quella che potrebbe rivelarsi col tempo una nuova modalità di relazione tra l’impresa capitalistica e la forma di governo delle democrazie occidentali, nell’epoca che ha visto scomparire definitivamente la borghesia. Non più il potere «occulto», il «dietro le quinte» delle corporation che influenzano una classe professionale di politici, ma l’espressione visibile e individualizzata (un «corpo del sovrano») di un gruppo capitalistico, spesso a base familiare o «tribale» (il clan: si rimanda all’interessante analisi di F. Armao, L’età dell’oikocrazia, Milano 2020), dal quale emerge appunto un leader carismatico che veste i panni del sovrano: rimane un privato imprenditore che acquisisce però la disponibilità dei dispositivi e delle istituzioni della sovranità statuale (temporaneamente, sì: ma per quanto?).

Ma l’idea del principato può essere accostata non soltanto all’oligarchia economica. Vi è anche l’oligarchia dei tecnocrati, delle «élites delle competenze», anch’esse organizzate tendenzialmente secondo una logica «clanica», e che provengono da un’area, quella delle Istituzioni internazionali e del capitalismo finanziario, che è poi non lontana e anzi limitrofa a quella che esprime gli oligarchi economici. Il tecnocrate esprime forse una leadership forse meno carismatica per le masse, ma ugualmente capace di influire su dinamiche e forze politiche, le quali anzi guardano al tecnocrate come figura autorevole che, se disposta a reggere lo scettro della sovranità per il bene comune nei periodi di crisi, può insediarsi nelle istituzioni di governo a prescindere dal rispetto delle tradizionali procedure di legittimazione politica (l’esperienza italiana degli anni Dieci di questo secolo è chiarissima in tal senso).

Provando ad accostare la figura di principe alle organizzazioni sovranazionali, anche l’Unione europea potrebbe essere intesa come una struttura organizzativa che, circoscrivendo il discorso alla sfera economico-finanziaria, cerca di compensare il difetto e le lacune parziali di sovranità costruendosi un ruolo di «prìncipe», nei confronti dei propri partecipanti. L’Unione indirizza, raccomanda, coordina, promuove, detta principi e regole, mai governa con la forza dello Stato sovrano: esercita insomma un potere che rimanda in un qualche modo all’idea di una auctoritas che viene prima e quindi prevale (la primauté dell’ordine giuridico europeo), sebbene – certo – un tale potere sia molto più articolato e complesso e non si esaurisca soltanto in essa.

Certo, si potrebbe dire (e ciò coglie sicuramente una parte di verità) che questa autorità è in realtà anche una deminutio di potere, voluta proprio dagli Stati sovrani, che hanno imposto sempre più un metodo puramente intergovernativo nella gestione delle Istituzioni comunitarie. Allora, come in un gioco di specchi, dietro l’apparenza di un’Unione che si erge a prìncipe (povero o non ricco, ma autorevole) delle economie e delle finanze pubbliche degli Stati sovrani, vi sono i governi di alcuni di quegli stessi Stati, che acquistano legittimità (tra)vestendosi da principe europeo. È infatti evidente l’impatto che, ad esempio, alcuni Stati fondatori della CEE (Germania e Francia in primis) hanno avuto, nel Novecento e fino ai primi due decenni almeno di questo secolo, sullo sviluppo del diritto dell’UE, delle sue Istituzioni e della sua cultura giuridico-istituzionale. L’ordoliberalismo tedesco è inscritto nei valori dei Trattati, l’organizzazione della BCE e la politica monetaria sono modellate su quelle della Bundesbank, e così via. Le dòleances frequenti secondo cui è stata la Repubblica tedesca, o l’asse franco-tedesco, a decidere le politiche europee (specie quelle economico-finanziarie degli ultimi vent’anni), dipendono appunto dal ruolo di principes che alcuni Paesi hanno di fatto assunto all’interno dell’organizzazione e della distribuzione del potere dell’Unione, innanzitutto per il ruolo e la qualità della loro economia.

In altre parole, potremmo dire che alcuni sovrani sono ricchi, altri un po’ meno ricchi, altri sono proprio poveri, ma tutti condividono l’esercizio di un potere e di una responsabilità, nell’architettura europea. La mera ricchezza economica non è però sufficiente a legittimare, in sé e da sola, una preminenza nell’esercizio di questo potere. In questa struttura, uno Stato, o un gruppo di Stati, non è più legittimato degli altri a guidare e indirizzare la navicella comune in base all’appropriazione (o alla riappropriazione) degli strumenti classici del potere sovrano (appunto monopolio della forza, tributo e moneta statale), di per sé impossibile o possibile a costi sociali, politici ed economici molto elevati, dopo il Trattato di Lisbona che ha sancito il diritto di uscire dall’Unione (così insegna la Brexit). La tentazione è dunque quella di emergere come prìncipi tra pari, parimenti sovrani.

Non possiamo approfondire ulteriormente queste suggestioni, al punto da trarne delle riflessioni sistematiche. Esse però lasciano forse intravedere che, in una riforma complessiva e costituzionale delle Istituzioni dell’UE – che prima o poi si imporrà per necessità storica prima che per contingenza politica – sia assolutamente ineludibile pensare e costruire una configurazione chiara e ben strutturata delle posizioni e dei rapporti tra le tre figure ideali evocate nel titolo di questo seminario. Il popolo dei poveri ha oggi in Europa una rappresentanza che non è decisiva nelle questioni di politica economica e finanziaria, posto che il Parlamento europeo in questo ambito ha un limitato o nullo potere decisionale. Gli Stati sono sovrani che, senza lo sforzo di un esercizio in comune della propria sovranità, tra cui proprio quella fiscale e finanziaria, tornerebbero a uno stato di bellum omnium contra omnes sul suolo europeo e su scala mondiale, che li indebolirebbe con esiti «suicidari». Vagheggiare però un’Unione che sia uno Stato-federale, dotata dei crismi di un’autentica sovranità, interna ed esterna, con un Parlamento dotato della pienezza dei poteri delle liberaldemocrazie novecentesche, appare oggi non solo improbabile, ma forse anche inadeguato al contesto. Le condizioni per una cessione e rafforzamento della sovranità internamente alla compagine europea paiono inesistenti, non potendosi immaginare una «sovranità europea» che occupi il medesimo spazio, territoriale e giuridico, delle sovranità nazionali. Forse un più realistico e meno utopico passo avanti nella federalizzazione politica e giuridica europea potrebbe passare proprio dal rafforzamento del ruolo dell’intera Unione (e non di singole nazioni all’interno di essa) come princeps, non come sovrano. Una sorta di «principato collettivo», che deve essere capace di mediare e sintetizzare dialetticamente le diverse posizioni nazionali, ove occorre, in un’unica funzione: ciò che, beninteso, in parte avviene già, grazie all’edificazione di un ordinamento giuridico progressivamente integrato e sempre più euro-nazionale. Ma il «prìncipe europeo» risulta spesso inautentico e indebolito sia dai protagonismi e dai dissidi tra le sovranità nazionali, sia dall’assenza di una forza finanziaria adeguata alla sfida geopolitica che ha davanti. Appare ancora largamente incompiuta e non adeguatamente interiorizzata la consapevolezza che solo costruendo un’autorità e un’autorevolezza sovranazionali e comuni, intorno alla condivisione di valori fondativi comuni (a cominciare da quello «Stato di diritto» difeso, forse troppo debolmente, dal Regolamento 2092/2020), le sovranità nazionali potranno mantenere da un lato la propria autonomia e avvantaggiarsi al contempo dall’altro di una dimensione di scala e di un moltiplicatore d’impatto delle proprie politiche adeguati all’attuale (dis)ordine mondiale.

Lo aveva intuito, già nel lontano 1943, uno dei padri fondatori della Comunità economica europea, Jean Monnet, a cui è intitolata l'azione europea nell'ambito della quale sono stati organizzati prima il Modulo didattico European Public Finance Law (EPFiL) e poi la Cattedra Public Finance Law and European Integration, che questo seminario da una parte chiude e, dall’altra, avvia. Diceva Jean Monnet con lungimiranza – e l’affermazione oltre ottant’anni dopo non può lasciare indifferenti, alla luce dell’attualità che viviamo: «Non ci sarà pace in Europa se gli Stati verranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale [...]. Gli Stati europei sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la necessaria prosperità e lo sviluppo sociale».

Pochi anni dopo, un altro intellettuale considerato padre fondatore dell’Europa, Denis De Rougemont, scriveva parole che appaiono purtroppo ancora oggi drammaticamente attuali (L'Europe en jeu, 1948, ed. italiana Vita o morte dell’Europa, 1949): «Oggi l’Europa a chi la guardi dall’America, e credo anche dalla Russia, appare più piccola di quanto in realtà non sia: fisicamente costretta tra due grandi imperi le cui ombre immense si affrontano sopra di lei, corrosa e sgretolata ai suoi confini e moralmente rinchiusa in sé stessa. […] Bisogna scorgere nel nazionalismo la malattia dell’Europa, l’anti-Europa per eccellenza. Paragonerei il nazionalismo a una specie di corto circuito della normale tensione che è indispensabile mantenere fra il particolare e il generale. Da una parte, infatti, il nazionalismo distrugge le diversità viventi, sotto il pretesto di unificarle (e allora non è più lecito parlare di unione, perché non c’è più niente da unire); dall’altra, dichiara sovrana la nazione in tal modo unificata, e la indurrà a comportarsi di fronte all’Europa come un gruppo resosi pienamente assoluto, come un volgare individuo le cui pretese di libertà non conoscono più scrupolo alcuno. […] Per contro, il federalismo vuole unire e non unificare. E appunto perché rispetta all’interno di una nazione l’enorme diversità dei gruppi, è pronto ad aprirsi a più vaste unioni […]. Dopotutto, se è stata l’Europa a secernere questo nazionalismo contagioso, tocca a lei l’invenzione di un antidoto. Soltanto l’Europa, in forza appunto delle sue diversità, è in grado di trovarlo; e di trovarlo non solo per la sua propria salvezza, ma per la salvezza e la pace del mondo intero».