Da più parti si è rilevato come da ultimo il diritto nazionale abbia guardato con sfavore alla Corte dei conti, nel suo duplice ruolo di giudice e controllore del buon andamento della pubblica amministrazione.
Come noto, infatti, il d.l. n. 76/2020 ha introdotto alcune consistenti riforme, talune a carattere permanente (configurazione del dolo nella responsabilità amministrativa) altre a carattere temporaneo (disciplina dello scudo erariale).
Nel dettaglio, ma in sintesi, possiamo così sintetizzarle.
Per un verso, il legislatore ha risolto il tradizionale dilemma: “dolo contrattuale o dolo in senso penalistico”? Ricorderete che mentre il dolo contrattuale si identifica nella sola volontarietà della condotta antidoverosa (cosciente violazione di una specifica obbligazione preesistente), il dolo in senso penalistico, invece, richiede la volontarietà tanto della condotta antidoverosa quanto dell’evento dannoso. Ecco, l’art. 21 del d.l. 76/2020 ha risolto il dilemma, accogliendo la tesi del dolo in senso penalistico: «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso».
Per altro verso, invece, il legislatore ha introdotto una disciplina provvisoria (ma variamente prorogata) funzionale a limitare al solo dolo la responsabilità amministrativa per condotte commissive (“scriminando” quindi la colpa grave). Quale la ragione? La colpa grave è stata dai più percepita come la ragione primaria di quella patologia che prende il nome di “paura della firma”. D’altronde, secondo una parte della dottrina amministrativistica, nel campo della responsabilità amministrativa la colpa grave è stata impiegata in un giudizio «assunto e ricostruito a posteriori e sovente senza ricorrere ad un effettivo giudizio di confronto con il quadro informativo prognostico», il più delle volte utilizzando «perifrasi stereotipate, adottate in forme ripetute, sovrapponibili, e sovente copiative».
Infine, il legislatore ha colpito anche le funzioni di controllo della Corte dei conti, portando a declino il c.d. controllo concomitante. Col d.l. n. 44/2023, infatti, sono stati esclusi dall’ambito applicativo del controllo concomitante i piani, programmi e progetti previsti o finanziati dal PNRR e dal Piano nazionale per gli investimenti complementari.
Ora, dato che la Corte dei conti è palesemente under pressure si può dire che la prospettiva sia quella di fare a meno del giudice contabile?
Non è questa la sede per trattare di un tema così complesso, che d’altronde immetterebbe nel discorso anche una riforma costituzionale piuttosto spinosa, considerato che la Corte dei conti ha copertura (e pretesa) nella Costituzione agli artt. 100 e 103. Ciò che invece possiamo dire è che il principio costituzionale del buon andamento, nelle sue multiformi declinazioni, reclama comunque la sussistenza di un soggetto deputato alla vigilanza sulla “buona spesa”: dunque, lo si chiami o meno Corte dei conti, esso pare imprescindibile.
D’altronde, questo assunto può essere facilmente ricavato anche dal diritto europeo. Vediamo in rassegna qualche previsione di utile considerazione.
Art. 317 TFUE: «Gli Stati membri cooperano con la Commissione per garantire che gli stanziamenti siano utilizzati secondo i principi della buona gestione finanziaria».
Reg. (UE) 2020/2092 relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione.
Considerando n. 3: «Lo Stato di diritto impone che tutti i pubblici poteri agiscano entro i limiti fissati dalla legge, in linea con i valori della democrazia e nel rispetto dei diritti fondamentali quali stabiliti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea […]. Esso esige, in particolare, che i principi […] della tutela giurisdizionale effettiva, compreso l’accesso alla giustizia, da parte di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali debbano essere rispettati».
Considerando n. 7: «Quando gli Stati membri eseguono il bilancio dell’Unione, comprese le risorse assegnate attraverso lo strumento dell’Unione europea per la ripresa istituito a norma del regolamento (UE) 2020/2094 del Consiglio, nonché mediante prestiti e altri strumenti garantiti dal bilancio dell’Unione, indipendentemente dal metodo di esecuzione che utilizzano, il rispetto dello Stato di diritto è un presupposto essenziale per il rispetto dei principi di una sana gestione finanziaria, sanciti nell’articolo 317 TFUE».
Considerando n. 8: «Gli Stati membri possono garantire una sana gestione finanziaria solo se le loro autorità pubbliche agiscono in conformità della legge, i casi di frode, inclusi i casi di frode fiscale, evasione fiscale, corruzione, conflitto di interessi o altre violazioni del diritto, sono effettivamente perseguiti dai servizi responsabili delle indagini e dell’azione penale, le decisioni arbitrarie o illegittime delle autorità pubbliche, comprese le autorità di contrasto, possono essere soggette a un effettivo controllo giurisdizionale da parte di organi giurisdizionali indipendenti e della C. giust. UE».
Art. 325 TFUE (recante il principio di assimilazione, in virtù del quale gli interessi finanziari dell’UE sono assimilati a quelli nazionali): «Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari».
Dunque, un dato appare innegabile: l’UE pone senz’altro al centro le autorità di controllo e di sindacato degli Stati membri.
Di qui una prima conclusione: se la Corte dei conti nella sua soggettività non è irrinunciabile, ciò che è però irrinunciabile è che vi sia uno “strumento” di controllo e sindacato.
A questo punto mi pare opportuno darvi conto del ruolo che la Corte dei conti si è ritagliata sul piano del controllo e del sindacato nell’ambito di vicende che hanno interessato l’uso dei finanziamenti comunitari.
Al riguardo, i profili da analizzare sono essenzialmente due.
Anzitutto, abbiamo il tema dei c.d. “contributi comunitari indiretti”, vale a dire quelli che entrano nel bilancio dell’amministrazione nazionale (statale, regionale o locale) per poi essere attribuiti agli aspiranti tramite apposite procedure. In tal caso, il “danno erariale europeo” che dovesse occorrere avrebbe la forma del “danno indiretto”: si tratterebbe infatti di danni indirettamente patiti dall’UE a fronte di contributi transitati nel bilancio statale.
In secondo luogo, abbiamo il tema dei c.d. “contributi comunitari diretti”, vale a dire quelli che non entrano neppure temporaneamente nel bilancio delle amministrazioni nazionali ma sono gestiti in toto, a partire dal bando e fino al momento dell’erogazione, dalla stessa Commissione UE. In tal caso, il “danno erariale europeo” che dovesse occorrere (per percezione di fondi in assenza dei requisiti per poterne beneficiare) avrebbe la forma del “danno diretto”.
Ora, in merito al danno indiretto all’erario comunitario, la giurisdizione della Corte dei conti è da sempre ammessa: tra l’amministrazione erogante (quella nazionale) e la persona fisica o giuridica destinataria dei fondi pubblici si instaura un rapporto di servizio che – nei casi di indebita percezione o cattiva utilizzazione dei fondi e stante la natura del danno arrecato all’ente pubblico – radica da sé, la giurisdizione della Corte dei conti.
Più spinoso è stato il tema del danno diretto all’erario comunitario. Poniamoci qualche interrogativo: la Corte dei conti è giudice nazionale competente a conoscere esclusivamente del pregiudizio all’erario nazionale? ancora, è inammissibile la giurisdizione della Corte dei conti attesa la concorrente promovibilità, innanzi alla Corte di giustizia, di un’azione diretta della Comunità europea volta al recupero del finanziamento?
La risposta agli interrogativi che precedono è negativa: dunque, la Corte dei conti ha giurisdizione anche in materia di danno diretto all’erario comunitario. Vediamo perché. La soluzione è stata resa dalla C. conti Lombardia del 2004 e dunque da un cruciale arresto delle Sezioni Unite della Corte di cassazione del 2014.
Anzitutto, le Sezioni Unite hanno escluso che sussista un rapporto di conflittualità e di esclusività fra l’ambito della giurisdizione italiana e quella comunitaria. D’altronde, ai sensi dell’art. 274 TFUE, «Fatte salve le competenze attribuite alla Corte di giustizia dell’Unione europea dai trattati, le controversie nelle quali l’Unione sia parte non sono, per tale motivo, sottratte alla competenza delle giurisdizioni nazionali». Al più il problema che si potrebbe porre è quello del ne bis in idem (vale dunque il tradizionale monito secondo cui se la sentenza adottata da altro giudice ha risarcito il danno, verrebbe meno l’interesse ad agire del procuratore).
Ciò però ancora non basta per riconoscere la giurisdizione della Corte dei conti.
Che dire infatti dell’interpositio legislatoris?
Ebbene, neppure questo è un problema. Ai sensi dell’art. 1, comma 4, l. n. 20/1994 «La Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti pubblici anche quanto il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza». Tale disposizione dunque consente di ricomprendere nella nozione di «amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza» anche l’UE.
E se la richiamata disposizione della l. n. 20/1994 fosse riferibile soltanto ad amministrazioni nazionali?
Al riguardo, viene in soccorso il richiamato principio di assimilazione, in forza del quale gli interessi finanziari europei devono essere assimilati a quelli nazionali, con la conseguenza che gli Stati membri devono agire con gli stessi mezzi e con le stesse misure che sono previste dal diritto interno per la protezione degli stessi beni giuridici. Dunque, ancora una volta hanno ragione le Sezioni Unite: l’obbligatoria applicazione del principio di assimilazione comporta necessariamente l’estensione della giurisdizione della Corte dei conti anche alla materia di danno (diretto e finanche indiretto) all’erario comunitario.
Il tempo è tiranno, dunque chiuderei con una considerazione di massima, ancora un po’ imprecisa, ma forse efficace: a dispetto delle tendenze domestiche, appare dunque chiaro che, nella prospettiva del diritto europeo, la Corte dei conti rappresenta uno strumento (tra quelli immaginabili) necessario per garantire la sana gestione delle finanze pubbliche.