Esperienza Field Work di Clara al Mahinya College in Tanzania con il FARE Project by Co.P.E.

Esperienza Field Work di Clara al Mahinya College in Tanzania con il FARE Project by Co.P.E. 

PROFILO

Nome:Clara   Cognome: Galvani    Nazionalità: italiana     Età: 22

 

INFORMAZIONI GENERALI

Periodo: 15 giugno 2019 – 6 settembre 2019

Bando: Erasmus Field Work

 

PRIMA DELLA PARTENZA

 

1. Perché hai deciso di intraprendere quest’esperienza?

Field Work essendo un’esperienza costruttiva sia da un punto di vista formativo che umanitario era in linea con i miei piani di studio e non. 

 

Uffici e burocrazia

  1. Hai avuto problemi durante le procedure burocratiche, a comunicare con gli Uffici, ad avere le informazioni di cui necessitavi?

Gli uffici mi hanno sempre risolto i dubbi presentati. Anche l’ONG ospitante mi ha fornito abbastanza informazioni, nonostante queste fossero parzialmente corrispondenti alla realtà. 

2. Valuta con un voto da 1 a 10 la qualità e l’efficienza degli Uffici prima della partenza: 8

 3. Descrivi brevemente quali erano gli obbiettivi del tuo viaggio, le tue aspettative e le informazioni con le quali partivi. 

Prima del mio arrivo in Tanzania, sapevo che in tre mesi avrei dovuto testare una quantità rappresentativa di vacche e zebù presenti negli allevamenti della regione di Ruvuma (la regione che si trova nel sud della Tanzania), per verificare la presenza di alcune malattie zoonotiche, quali Brucellosi, Tubercolosi, Rift Valley Fever e East Coast Fever. I dati raccolti mi sarebbero serviti per il mio progetto di tesi in malattie infettive.

Mi aspettavo di operare in una situazione rurale, pensavo sarebbe stato possibile seguire il veterinario presente del villaggio e accompagnarlo nelle sue visite. 

Prima di partire, le informazioni che mi erano state fornite non erano molte. Sapevo che una volta arrivata a Dar es Salaam mi sarebbero aspettate circa diciotto/venti ore di autobus, che avrei vissuto con altri ragazzi italiani (espatriati) all’interno del college della ONG Co.P.E. e che la mia collocazione era Mahinya, un villaggio nella provincia di Songea. 

 4. Descrivi brevemente il progetto di cui facevi parte  

Il Co.P.E. aveva in atto un progetto di ambito agricolo-zootecnico, il FARE, che è stato chiuso il 14 agosto. 

FARE sta per Fair Agro-Zootechnical Regional Empowerment in Tanzania. Questa iniziativa intende implementare un sistema di governance che favorisca il dialogo e le sinergie tra settore pubblico e privato per sviluppare l’industria lattiero-casearia e migliorare la qualità dei servizi veterinari locali attraverso formazione, ricerca, creazione di nuove opportunità di occupazione e sostegno all’imprenditoria consortile, con particolare enfasi alla componente di genere.

Io mi sarei occupata dello screening di malattie infettive, perché per incrementare l’industria lattiero-casearia è necessario che gli animali siano esenti da malattie trasmissibili tramite il latte. 

Avrei fatto parte di un team e mi sarei dovuta occupare della raccolta del sangue sul campo e del lavoro in laboratorio.

 

DURANTE IL PERIODO ALL’ESTERO 

 

  1. Parlaci del tuo villaggio, Mahinya

Mahinya è situata a quaranta minuti di macchina e un’ora e mezza/due di Dalla Dalla (autobus minuscolo che percorre le periferie della città) da Songea, a nord rispetto a questa città. La casa del Co.P.E. (nyumba ya Co.P.E.) si trova nel Mahinya college.

Il Mahinya college è un comprensorio costruito interamente da Co.P.E. che comprende i dormitori degli studenti, le aule per le lezioni, un laboratorio, le strutture che accolgono i lavoratori del college e gli uffici della direzione. 

Per quanto riguarda gli animali, il college possiede cinque vacche (due zebù e tre incroci tra zebù e frisona), una porcilaia con trenta maiali circa, una stalla con venti animali tra pecore e capre, un pollaio molto affollato con ovaiole e un pollaio con galline locali, due tacchini, quindici conigli e un laghetto con pesci (Tilapia). Inoltre, vengono coltivati alcuni terreni, sono presenti soprattutto campi di mais e quest’anno l’Associazione ha iniziato a coltivare caffè, canna da zucchero e una verdura che in swahili è chiamata “chinese”. Gli animali servono principalmente a livello didattico, ma lo scopo dell’associazione è quello di raggiungere una situazione di autosostentamento tramite la produzione di latte, carne e uova. Questo obbiettivo, tuttavia, non è ancora stato raggiunto. 

La casa del Co.P.E. era sempre molto affollata infatti ospita lavoratori espatriati, ragazzi che svolgono il servizio civile e volontari.

In casa avevamo un po’ di corrente elettrica, giusto la quantità per caricare i telefoni, ma insufficiente per fare altro come, ad esempio, utilizzare il phon. Non avevamo acqua calda, quindi per fare la doccia facevamo bollire pentoloni d’acqua di fiume. Tutto, anche le cose più semplici, richiedevano il doppio del tempo che richiederebbero normalmente.

 2. Raccontaci uno spostamento tipo 

Ogni spostamento su questo territorio non è facile.

I mezzi per spostarsi sono principalmente gli autobus; ci sono anche voli interni, ma i prezzi sono particolarmente alti. 

Un viaggio in autobus è indubbiamente un’esperienza: la quantità massima di passeggeri viene sempre raggiunta e, spesso, superata, siccome i bambini non sono calcolati; ho visto addirittura due seggiolini occupati da una donna insieme ai suoi quattro figli. 

Durante il tragitto vengono fatte alcune soste durante le quali i passeggeri non posso scendere, ma dai finestrini si può comprare cibo. È possibile trovare ogni sorta di alimento: frutta, verdura, frutta secca, carne cotta (pollo, pecora, vacca… una volta ho visto vendere GRILLI FRITTI), samosa fritti (tipico snack, fatto con una pasta sfoglia ripiena di carne e verdura), chips mayai (frittata con patatine fritte), mishkaki (spiedini) e, quando si passa nelle zone vicino ai laghi, l’autista fa salire in autobus una donna che vende pesce fritto. 

Essendo viaggi molto lunghi, alcune persone fanno addirittura la spesa e comprano per esempio taniche con 5 L di olio di girasole, pesce essiccato ecc.

Le soste per il bagno sono poche e molto veloci, quindi è consigliabile approfittarne di tutte e spesso bisogna “combattere” per conquistare un posto in bagno. Mi hanno raccontato che quest’anno delle volontarie sono state lasciate a piedi durante una pausa bagno.

Altre volte invece la sosta minzione è fatta in mezzo alla strada quindi senza allontanarsi troppo si fa pipì en plein air. 

Durante i miei spostamenti ho incontrato qualche problema a Dodoma quando volevo condividere la stanza con una mia amica, Laura, siccome in Tanzania l’omosessualità è un reato punibile con il carcere e, essendo io e Laura due donne sole, dormire nella stessa stanza non era visto di buon occhio. 

 3. Qualche dettaglio sulle abitudini dei tanzaniani: vita quotidiana, ma anche agricoltura, allevamento, vita sanitaria ed alimentare.  

 

Orario. Trovo affascinante il modo in cui viene calcolato l’orario. Vicino all’equatore le ore di luce sono tutto l’anno circa dodici. La loro ora 1 corrisponde alla prima ora di luce quindi alle 7 del mattino, mentre le 8 del mattino sono le ore 2 ecc. In sostanza, al nostro orario bisogna togliere sei per ottenere l’ora del luogo. Questo mi ha creato non pochi misunderstandings, soprattutto nel momento in cui comprando i biglietti per l’autobus dovevo capire a che ora partire. 

Scarse fantasie culinarie. La gente mangia tutti i giorni e tutta la vita le stesse cose e non si stanca mai, non ho mai visto provare a cucinare in un modo leggermente diverso, facendo anche solo una differente combinazione dei piatti.

Praticamente ogni giorno si mangia lo stesso piatto del giorno prima e del giorno dopo. 

Inoltre ogni cosa va mangiata nel momento “giusto”, per esempio, i chapati che sono una sorta di piadina cotta in pentola con olio, si mangiano a colazione e a cena, chiederli per pranzo significa uscire dagli schemi e questo causa spesso disorientamento o ilarità. 

 

Cibo dal finestrino. Tutti gli spostamenti sono effettuati in pullman, perciò sono sempre molto lunghi anche perché alcune strade potrebbero essere sterrate (non molte ormai). Per questo motivo, lungo tutto il percorso, si è soliti incontrare persone che vendono cibo, attraverso i finestrini. È possibile trovare frutta, spiedini di carne e piccoli spuntini tipici, ma anche pietanze più complicate come chips mayai, pollo arrosto, riso, fagioli… 

Poter trovare cibo ogni tanto era l’unica gioia di quei lunghi viaggi. 

 

Salutare continuamente. La cosa più affascinante è indubbiamente la “cultura del saluto”. Quando le persone si incontrano, sebbene non sia la prima volta che si vedono (nella stessa giornata), si salutano, e questo non richiede pochi secondi come ci si potrebbe immaginare e come richiederebbe un semplice “ciao”. 

 

Il toccare molto. Nella cultura tanzaniana non è insolito il contatto fisico anzi questo è spesso ricercato. Quando ci si presenta non ci si dà una semplice stretta di mano, ma ci si saluta abbracciandosi o tenendosi per mano per molto tempo. 

Anche il camminare tenendosi per mano a lungo è un segno di amicizia che si fa soprattutto tra uomini, i quali camminano spesso mano nella mano. 

 

Organizzazione inesistente. La vita viene affrontata alla giornata. Se si provano a fare organizzazioni lunghe, al 99% queste falliscono. Quello che ho visto è che la gente è abituata ad affrontare le difficoltà man a mano che queste si presentano. Questo modo di vivere crea numerosi ostacoli a chiunque sia abituato a vedere lontano.   

 

Aspettare molto. Non essendo abituati ad organizzarsi è di routine avere inconvenienti ed aspettare. Per la maggior parte dei tanzaniani non è un problema aspettare, potrebbero stare seduti tranquilli per ore senza preoccuparsi minimamente. Spesso mi è capitato di dare appuntamento ad un orario e di dover aspettare due o tre ore, o di ritrovarmi in macchina con local e dover aspettare ore davanti a un posto, poi ancora ore in un altro luogo… All’inizio mi innervosivo, siccome non capivo perché stessi aspettando o cosa stessi aspettando, quindi chiedevo continue spiegazioni. Dopo poco tempo, però, ho smesso di farmi queste domande: aspettavo e basta. 

 

Portare le cose in testa. Fin da piccola mi era capitato di vedere nei cartoni, nei film e nei documentari che in Africa si portano grosse ceste in testa, ma pensavo che in realtà non fosse così. Mi sono davvero sorpresa nel vedere che effettivamente le donne portano grossi carichi sul capo: non si tratta solo di trasportare secchi stracarichi o ceste piene di frutta, bensì anche sacchi di legna da ardere e grossi contenitori ripieni delle cose più svariate (carbone, acqua, sabbia…). 

 

Non si arrabbiano e ridono sempre. In tre mesi non ho MAI visto un tanzaniano arrabbiato, al massimo ho visto qualcuno serio ma mai innervosito o alterato. Non è nel loro modo di fare innervosirsi, qualsiasi problema viene affrontato “pole pole” cioè “piano piano”, con tranquillità. 

 

Foto con bianchi. Mi è capitato un po’ in tutta la Tanzania di incontrare persone che mi chiedessero di fare foto con me o con altri miei amici bianchi. 

È dovuto al fatto che nell’entroterra non si vedono molti turisti. 

Inoltre quando mi capitava di mangiare presso i villaggi, la gente era sempre molto felice di potermi dare un pasto a “casa” sua. Spesso dopo poco tempo che mi trovato in un luogo a mangiare arrivava gente dal villaggio che iniziava a fissarmi. La voce che una musungu (bianca) era nei paraggi si spargeva velocemente. 

I bambini nei villaggi più piccoli mi accerchiavano per parlarmi e spesso mi toccavano le parti di pelle che avevo scoperte, come gli avambracci o mi davano dei leggeri pizzicotti siccome erano molto stupidi dal pallido colore della mia pelle. 

 

Io ed il ragazzo che sta facendo il servizio civile a Mahynia, Simone, abbiamo anche partecipato al matrimonio della sorella della nostra dada, Alfreda (la signora che nella casa del Co.P.E. ci preparava i pranzi). Gli sposi erano Agnes e Giacomo.

La dada era molto onorata del fatto che avessimo accettato l’invito, sia perché sapeva che avremmo aiutato a pagare il matrimonio e avremmo portato il regalo più bello e costoso (regalo che lei ci ha anticipatamente ordinato), sia perché portare due amici bianchi a un matrimonio in villaggio è qualcosa di davvero super. 

Durante la celebrazione, che è stata qualcosa di stravagante e fantastico, Simone ed io siamo stati messi in un posto d’onore, assieme ai parenti stretti, affianco agli sposi (nonostante non li avessimo mai visti). 

Ci siamo dovuti presentare davanti a tutti e per portare i regali verso “l’altare” degli sposi abbiamo dovuto procedere tenendo in mano i doni e ballando a ritmo di musica. 

Dopo la cerimonia Alfreda per mangiare ci ha riservato un posto speciale nella sua capanna. Mentre il resto degli invitati mangiava per terra attorno al fuoco. Non tutti gli invitati potevano accedere al pasto, solo a quelli che avevano portato un regalo (che poteva anche esse solo un secchio di plastica) veniva dato loro un bigliettino che permetteva d’avere un piatto di riso con carne di capra.

Dopo il pasto la dada ci ha detto di aspettare in un angolo della capanna, ci ha detto di stare seduti e comodi e ci ha potato una birra per farci stare buoni. Dopo pochi minuti è arrivato il “fotografo” e una flotta di persone che ci si sono disposte tutte attorno alle nostre sedie.

A turno la gente pagava 1TZS per avere una foto con noi, saranno state scattate un centinaio di foto. 

 

Bianco = ricco 

Un pregiudizio alquanto fastidioso è l’immediata associazione del colore della pelle con la ricchezza. Si dà per scontato che una persona bianca sia ricca e, in quanto tale, tutte le persone con le quali si ha a che fare si aspettano di ricevere qualcosa di più. Tutti ti chiedono e pretendono un “regalo”. Al mercato o in qualsiasi negozio quasi sempre i prezzi vengono raddoppiati. Indubbiamente il più basso stipendio italiano supera di dieci volte uno stipendio medio tanzaniano, ma il fatto che chiunque pretenda qualcosa da te diventa col tempo fastidioso. 

A volte facevo fatica a capire se con alcune persone si stesse creando un rapporto di amicizia o se la vicinanza fosse dovuta solo alla convenienza che da questo rapporto si poteva trarre.

 

4. Ti è capitato di dover usufruire dei servizi sanitari in Tanzania?  

Purtroppo sì! 

A Mwanza con Laura siamo state 2 giorni in ospedale. Quando siamo partite per il viaggio lei aveva la malaria ma aveva già comprato le medicine quindi abbiamo deciso di partire lo stesso. Una volta arrivate però ha avuto un crollo incredibile così l’ho portata all’ospedale. 

La procedura non è facile: bisogna contattare l’assicurazione che poi contatta l’ospedale e chiama un medico, ma il tutto richiede tempo e Laura stava molto male. 

Dopo 1 ora dal nostro arrivo un dottore l’ha “visitata” ovvero le ha solo chiesto che sintomi avesse e dopo siamo riuscite ad ottenere un lettino.

Una volta in stanza numerosi infermieri ci venivano a vedere, senza fare alcun intervento, ma giusto per vederci e farci domande assurde, tipo “dove hai comprato il telefono? Che marca è?” ecc. o a chiederci se potevano tornare in Italia con noi, un infermiere era juventino e voleva venire a Torino e quando ha capito che Laura studia a Torino non ci ha più mollate.

Alla fine la dottoressa le ha detto che aveva un’infezione e che doveva prendere 2 antibiotici: 1 per la sepsi e 1 contro una probabile amebiasi. 

Dopo una settimana di antibiotico Laura stava ancora male, ed essendo a Dar es Salaam (non è la capitale ma in realtà è la città più grande e moderna della Tanzania) ha deciso di tornare in ospedale e lì le hanno detto che aveva la Dengue. 

 

5.Una breve descrizione della tua attività di ricerca, come si è effettivamente svolta 

 

La mia attività di ricerca prevedeva il prelievo del sangue in dodici villaggi e l’analisi dei campioni il lab. 

Nel primo periodo, quando ancora non erano arrivati i reagenti per Rift Valley Fever, ho aiutato l’Associazione nella gestione di un progetto “FARE”, grazie al quale è stato possibile aprire alcune centrali del latte. Nelle centrali si raccoglie il poco latte che gli allevatori producono e, dopo averlo analizzato, viene usato per la prodizione di yogurt e per la grande distribuzione sul mercato. 

 

A metà luglio ho finalmente iniziato la mia attività sul campo. Il mio team era composto da un veterinario locale, Dixon, una ragazza italiana che studia produzioni animali, Anna, un rappresentante dell’ufficio veterinario regionale della Tanzania, Nelson e l’autista, Fanueli. 

Per dodici giorni il nostro compito è stato quello di girare, villaggio per villaggio, al fine di raccogliere il sangue dalle vacche che gli allevatori mettevano a disposizione. 

Gli allevatori, qualche giorno prima del nostro arrivo, venivano avvertiti e veniva spiegata loro la nostra attività, venivano “istruiti”, usando le parole del veterinario regionale. Questa attività era di fondamentale importanza, siccome quasi la totalità degli allevatori non ha avuto un’istruzione, in pochi sanno leggere e scrivere perciò, per evitare fraintendimenti, era fondamentale spiegare loro cosa stavamo facendo. Non era raro che qualcuno associasse la nostra attività alla stregoneria o che pensasse che dopo il nostro intervento gli animali sarebbero potuti morire o che il sangue a noi servisse per guadagnare soldi. 

Durante l’attività di prelievo, io sottoponevo agli allevatori un questionario, che avevo preparato in Italia con l’aiuto della mia relatrice di tesi, la Professoressa Alessandra Scagliarini, e poi tradotto in swahili, una volta arrivata in Tanzania. I risultati raggiunti, saranno il materiale di ricerca del mio progetto di tesi.

Compilare i questionari non è stato facile, soprattutto perché, a parte i veterinari, che però erano occupati nei prelievi, era raro trovare qualcuno che conoscesse l’inglese e che potesse aiutarmi con la compilazione. 

Così, la maggior parte delle volte, le domande dovevo leggerle io, il mio swahili, non molto comprensibile, scaturiva spesso grosse risate. 

Giusto per ricordare una delle mie migliori gag… una delle domande era “bevi latte?” che in swahili sarebbe “unakunywa maziwa?”, ma io spesso dicevo “unakunya maziwa” che letteralmente vuol dire “caghi latte?”. Ovviamente, i veterinari mi hanno fatto notare questo errore solo dopo qualche giorno... 

Una volta finita quest’attività e una volta arrivato anche il kit ELISA per testare RVF e installato lo spettrofotometro ho potuto iniziare i test. 

 

AL RIENTRO

 

  1. Un bilancio di questo tre mesi.

Durante questi 3 mesi ci sono stati molti alti e bassi. 

Forse la cosa che mi ha più stupita è la lentezza con la quale si procede per fare qualsiasi cosa. Prima di partire il professor Gentile aveva parlato spesso “dell’african style” e avevo capito che i tempi per fare qualsiasi cosa sarebbero stati più lunghi del solito, tuttavia non pensavo si sarebbero allungate di COSÌ TANTO le tempistiche. 

Tuttavia nel complesso l’esperienza è stata davvero SUPER sia per quanto riguarda la formazione in ambito lavorativo che come esperienza di vita.

Inoltre sono felice di aver avuto la possibilità di vivere in un paese accogliente e solare come la Tanzania. 

Bologna 05/11/19