Pasquale Vitagliano. È nato a Lecce. Vive a Terlizzi (BA) e lavora nella Giustizia. Giornalista e critico letterario per riviste locali e nazionali. Ha scritto per Italialibri, Lapoesiaelospirito, Reb Stein, Nazione Indiana, Neobar, Nuovi Argomenti. Menzione speciale nel 2005 al Premio di Poesia Lorenzo Montano Città di Verona – Sezione Opera Inedita. Nel 2006 è tra i “Segnalati” nello stesso premio – Sezione Poesia Inedita. Sul settimanale Diva e donna ha scritto di cinema e letteratura per la rubrica Scandali e Passioni. Nel 2006 ha curato la sezione riservata a Italialibri dell’Antologia della Poesia Erotica (Atì editore). Ha pubblicato le raccolte Amnesie amniotiche (Lietocolle, 2009) e Il cibo senza nome (Lietocolle, 2011). Nel 2010 la silloge di poesie civili Europa è stata inserita nell’antologia Pugliamondo – un viaggio in versi, curata da Abele Longo (Edizioni Accademia di Terra d’Otranto Neobar). Nel 2011 ha partecipato alle opere collettive Impoetico mafioso – 100 poeti contro la mafia, curata da Gianmario Lucini (Edizioni CFR) e La versione di Giuseppe – poeti per Don Tonino Bello, curata da Abele Longo, (Edizioni Accademia di Terra d’Otranto). Nel 2012 la silloge Dieci Camei è stata inserita nell’antologia Retrobottega 2, curata da Gianmario Lucini (Edizioni CFR). Sempre nel 2012 è uscito il romanzo d’esordio, Volevamo essere statue (Sottovoce). E’ presente nell’antologia di racconti del Dicò Erotique per Lite-edition, curata da Francesco Forlani su ispirazione del Dizionario di sessuologia pubblicato dal francese Jean-Jacques Pauvert. E’ tra i poeti antologizzati nello studio A Sud del Sud dei Santi. Sinopsie, Immagini e Forme della Puglia Poetica, a cura di Michelangelo Zizzi (Lietocolle, 2013). Nel 2013 è stato finalista nella XVI Edizione del Premio “Poesia di Strada” di Macerata. Sempre nel 2013 è uscita la silloge di poesie, Come i corpi le cose (Lietocolle). E’ tra gli autori che hanno curato l’opera critica La poesia nel secondo Novecento – Vol. 1 (Edizioni CFR, 2014). Collabora con le pagine culturali de La Città, quotidiano della Provincia di Teramo. Sulla rivista Incroci, diretta da Raffaele Nigro e Lino Angiuli, ha scritto di Diritto e Letteratura. Habeas corpus (Zona contemporanea, 2015) è la sua ultima raccolta poetica. Nel 2015 è tra i premiati nella sezione cultura e costume del Premio “Michele Campione” dell’Ordine dei Giornalisti della Puglia. Come critico ha partecipato all’Antologia Sotto il cielo più largo del mondo. Trenta poeti dauni, a cura di Canio Mancuso e Raffaele Niro, (I quaderni dell’Orsa, n. 14, Besa editrice, 2016). E’ tra gli autori del saggio critico La Memoria, a cura di Antonio Melillo e Giancarlo Micheli (Giuliano Ladolfi Editore, 2016). Per la rivista Carteggi Letterari sta curando la Mappatura dei poeti pugliesi del ‘900. Nel 2019 è uscita la raccolta Del fare spietato (arcipelago Itaca), che riceve una Menzione al Premio Montano Città di Verona. Nel 2020 è uscita Icone e labirinti, venti ritratti poetici (Terra d’ulivi). E’ capo-redattore della rivista letteraria Menabò. Collabora con la rivista Incroci diretta da Lino Angiuli e Raffaele Nigro e con La Gazzetta del Mezzogiorno.
È comparsa inattesa,
come una crepa,
sul bordo del tavolo,
nell’angolo;
come per caso,
presa di taglio
da una luce fredda,
come una resa:
l’inattesa scossa,
il tuffo, l’idea
che questa
è un’altra vita.
Rimossa la piastra poetica,
smontate le officine del secolo,
spostata sul ventre la guardia,
cos’altro resta da dire?
Rimetto tra le cose la parola,
metto a bagno i versi,
e premo sull’uscio del giorno,
perché sia giorno benedire.
Rivolgimi un nuovo saluto,
soltanto la vita è scampata,
adesso che Soup non è che soup,
per una pietà umana
nient’altro che parola,
senza più umanità.
Questa casa non ha odore,
non dico il sugo, la frittura,
il calore, che sarebbe kitsch;
dico che non si sentono passi
dietro i tavoli, sulle tovaglie,
sopra i divani, fuori delle stanze.
Non posso dire la differenza, come
gli inglesi, tra casa e casa, perché
camere e cucina non siano solo mattoni,
intonaco e cellofan, ma anche terra,
ventre e fame che si sazia alla fine
della vita sui muri fino ad annerirli
e a farli puzzare delle nostre giornate.
E invece questa casa è una rimessa,
i cartoni, le scatole di cibo senza nome
al posto dei libri sugli scaffali dismessi,
le foto senza alcun luogo, i quadri senza
soggetto, la polvere che ti mangia tutto.
Mi resta il bagno, utile e integro come una cesta.
Notte, è notte, è notte
pietra contro pietra,
foglio su foglio,
mattone dopo mattone,
ho spolpato la mia colpa
di essere – come dici tu –
perfettamente senza costrutto;
un talento inutile
riverso sul letto, un addio scordato,
secreto da una sagoma di carta
che esecra un duttile congedo
che chiama morte la più infantile
posa della vita.
Segreta è la lettura di questa vita apocrifa
che non tramanda la propria
verità palese, ma resta pensile
dentro una docile rete che pure
i denti non squarciano.
Sa di fame il morso delle mie parole.
Non è affatto calmo questo caos,
rifluisce alla sua natura di intemperie,
di disordine che non si lascia a terra,
che si porta la calce nei palmi.
Non è cinematograficamente corretta
questa inconsolabile lotta contro il petto,
senza alcun motivo musicale, amputata
di ogni colonna sonora che ti batteva
nella testa, ed ora sprofonda sorda nel ricordo.
L’hai presa da dietro la voglia di farla finita,
un’eclisse carnale che ti spegne la terra
messa a tappeto da un siderale sole notturno,
uno sparo rimbomba dentro una camera chiusa.
Può esserci una stanza
senza centro di gravità?
Dove per pura volontà d’altro
i mobili senza volontà ripetono
tutti i movimenti degli astri.
Puoi allora senza saperlo vedere
i divani subire la rotazione del sole,
così da sorgere lì dove c’erano i lumi,
retrocessi al nadir della loro rivoluzione.
Può essere dannata una vita senza pareti.
Ogni mattina al caffè,
mi chiedo se esista
il colore concreto,
non dico il giallo, o il giallo
di questo pacchetto di tè,
e neppure tutti gialli che ho visto.
Questi sono i gialli particolari
di cui mi parlano gli occhi.
Mi chiedo se esista
il giallo originale pari
solo alle forme geometriche
che esistono al di là
della loro tangibilità.
Ogni volta mi chiedo al caffè
se i colori e le forme
si portino dentro anche il mistero
dei buoni e dei cattivi,
al pari del primo frutto
di cui nessuno seppe mai il colore.
Anch’io un tempo sono stato
sensibile alle foglie,
le avrei volute studiare,
e catalogarne i nomi
per forma, margine e nervatura.
Ma oggi le foglie
non hanno più nome
perché con gli stessi nomi
chiamiamo cose diverse,
le soglie, le voglie, le spoglie.
Anch’io qui non parlo di foglie,
ma di idee morte e di vite passate,
di cose che volevano cambiare nome
perché erano morte,
ma che alla fine senza nome sono rimaste.
Forse solo le sedie
non hanno mai cambiato nome
perché non hanno forme diverse
e se le lasci intorno ad un tavolo
là le ritrovi, ferme e univocamente utili.
Mi sono fermato a lungo a pensare se
se ne debba parlare, raccontare l’esperienza unica,
sconosciuta prima e adesso irripetibile
di camminare sulla luna, sul suo suolo,
il terreno, non la terra, il suolo della luna.
Quasi ne ho dimenticato la sensazione,
del primo passo, come sulla sabbia,
ma meno duro, meno solido l’impatto.
E’ stato diverso il mio passo da quello di Colombo.
Anche quella era terra, la terra, la spiaggia bagnata,
il riflusso dell’acqua, eppure uguale alla luna.
Ma lui ha poi fatto passi stabili. Non è stato lo stesso
per me. Era come muoversi nell’acqua su un fondale senza mare,
ma intorno tutto era storto, il terreno, non la terra, il suolo della luna.
Sarebbe stato utile raccontare questa esperienza unica,
la prima, un inizio, la nascita, un tempo nuovo, se fosse
stata ripetuta, ripetibile, narrabile appunto come una storia nuova,
invece è rimasta unica, sola, isolata nella memoria e nelle immagini
che non mi appartengono più. Mi è sempre più difficile ricordare
quello che ho provato, quel primo passo, l’approdo, anche se
chiudo gli occhi le immagini si dissolvono ogni volta più rapidamente.
Adesso comincio a comprendere il silenzio di Aldrin.
Perché lui non ne abbia mai parlato. Perché ha scelto di tacere.
La sua è stata una scelta pratica. La mia non lo è stata per niente.
Anche perché, se ci penso, credo che sulla luna io non ci sia mai stato.
Ho passato l’estate a cercare antichi alieni,
altera la luna non sa chi siano loro,
e chi sia io disteso sul divano e lo sguardo
oltre la finestra illuminata nel buio della sera.
Se non fosse mito o leggenda ma un fatto vero
che Prometeo è sceso sulla terra per farci nascere,
che anche Osiride è risorto dopo tre giorni per tornare a casa,
che l’albero della vita altro non è che la scala genetica,
il problema non sarebbe risolto perché mai sapremmo
il loro vero nome, quello che non gli abbiamo dato noi.
Non sapremmo mai il loro primo nome, quello della nascita,
malgrado il gene della parola, quel foxp2 che Dio ci ha
iniettato qualunque sia il suo nome il tetragramma impronunciabile
o l’illeggibile nome degli dei antichi, alieni comunque alla terra.
Allo stesso modo finiremo noi alienati dalle nostre stesse forme di vita,
comprendendo che l’ufologia è la tappa finale del materialismo marxista,
prodotti noi stessi di questa immane raccolta di merci che è cominciata
nel cielo dove gli dei esistono davvero e potrebbero essere fatti
della stessa materia dei tegami.