Giancarlo Sissa

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1997 “Laureola” (postfazione di Alberto Bertoni, Book Editore, Castel Maggiore, Bologna)
1998 “Prima della TAC e altre poesie” (prefazione di Giovanni Giudici, Ed. Marcos y Marcos, Milano)
2002 “Il mestiere dell’educatore” (postfazione di Alberto Bertoni, Book Editore, Castel Maggiore, Bologna)
2004 “Manuale d’insonnia” (postfazione di Roberto Galaverni, Nino Aragno Editore, Torino)
2004 “Poesia a Bologna” (raccolta di testimonianze autobiografiche di poeti attivi a Bologna) (Gallo et Calzati Editori, Bologna)
2008 “Il bambino perfetto” (postfazione di Antonio Prete, Piero Manni Editore, Lecce)
2015 "Persona minore" (collana FareVoci, diretta da Giovanni Fierro, qudulibri, Bologna)

NB le poesie di Giancarlo Sissa sono tradotte in diverse lingue europee

(con lo scialle nero)


Con lo scialle nero
sulle spalle, quel velo,
tre chicchi di riso
tre passi di danza
oltre la nebbia che sale dal fosso
il prato afferrato alla zolla
e il cane bagnato, senza padrone,
poi il ferro del treno, buio e lontano
una menzogna, qualche chicco di riso
e addormentata nel sacco la scorta di grano;
un pretesto e sorridi
con le scarpe infangate,
sulle assi stese per ponte
è venuta la notte dagli odori
di finocchio e di limo
e quel velo non dorme
che pensa la città polverosa,
in realtà, qui è la nebbia che ondeggia
lungo il serpente dei fossi
e i treni non fischiano
o almeno mi sembra
e tu, lo confessi, non dormi
da tempo, quel velo
tre chicchi di riso
tre passi di danza
e la lampada spenta;
poi esci nei campi
con lo scialle legato sui fianchi
sulle spalle curvate quel velo,
e la musica sale e non disturba nessuno,
tre passi di danza
e tre chicchi di riso


(da “Quaderno Bolognese” 1992)

Pont Neuf


E cosa importa si porti vino
a un tavolo dove non se ne beve
solo lettere scriviamo e malaccorte
ma vere come il bere del mattino
o nebbia la nebbia che si porta
altrove le parole - ma lo fa piano -
come a notte la tua mano cioè
quel posto dove riposo e amo


e solo lettere scriviamo e malaccorte
- o notte - ma le scriviamo forte


così a lungo io t'ho aspettata
fino al che saremo un'altra cosa
o quella semplice che non sappiamo
- carezza senza morte - sul Pont Neuf
la luce nella neve era rosa. 


(da “Laureola” 1997)

(posso giocare a calcio)


Posso giocare a calcio
per ore con i bambini
e sentire quasi amore
per lo sgambetto per la finta
o il tiro a rete persino
per il loro afrore
e resistere alla sete
urlare torna, fallo, marca,
non devo spiegazioni
in fondo come loro intento
a sudare le mie tentazioni
o bere a collo dalla bottiglia
appena riempita alla fontana
ma solo a partita finita,
posso togliermi la camicia
e inginocchiarmi sul pavimento
a spingere una automobilina
su una pista di cartone
inventare una stupida canzone
e sentirmi contento
o aspettare la merenda
alzare il dito ammirare
sfinito il caso della pallina
da ping pong in equilibrio
sul dizionario di francese
placare risse, asciugare offese
recuperare dal bidone
il quaderno di matematica
fare finta di capirne d’informatica
sentire quando il dolore
si fa lato scosceso della realtà
guardarli in faccia con lealtà
ascoltare le madri, stringere
la mano ai padri ogni volta
stupito di non avere mai capito
perché se mi sento vivo io
con i loro ragazzi loro
debbano poi lamentarsi sempre
di mille cazzi


(da “Il mestiere dell’educatore” 2002)

(del resto non ho nulla)


Del resto non ho nulla
in contrario a che mi pensino
una specie di lupo solitario
uno sconfitto dalla vita
che si allontana a sera sulla bicicletta
riverniciata a mano, la mia giornata
- ma loro non lo sanno -
non è finita,
ho tutto il tempo
di pensare perché mai
non ci hanno saputo amare,
penso alle scarpe da ginnastica
sudate, al sorriso superiore
dell’assistente sociale, mi sento
uno strano animale che beve
birra di notte e il giorno dopo
corre al lavoro a prendere
le sue botte, penso al taglio
sulla guancia, alla mano rotta,
alla clavicola sconnessa,
e non so più nemmeno se la colpa
sia sempre la stessa: d’arrampicarmi
sugli alberi per recuperare
il pallone o sui sogni per non vivere
da coglione e del resto
non mi presto al dibattito
né al compromesso non so
fingere me stesso, in fondo
il viaggio dell’acrobata
è verso l’alto e piuttosto
di cadere salto, per questo 
mi ascoltano i bambini anche
se grido, per me non sono cretini, 
e dunque non ho nulla
in contrario, mi pensino pure
un pirla visionario con la bicicletta
riverniciata a mano: non l’ho rubata
è un regalo di chi amo


(da “Il mestiere dell’educatore” 2002)

Senza vanità


Eppure avevi detto - non in chiesa
piuttosto buttatemi in un fosso e basta
che tanto fa lo stesso - e invece
tradito dal vino dalle carte dall’amore
stordito in un letto d’ospedale
asso di bastoni a ricordare i nomi
dei figli rifiutando l’estrema unzione
- via i preti! fuori dai coglioni! - 
in un sussulto anarchico sorriso
irriverente di liberazione il ciglio
levato a sbeffeggiare la conversione
sul confine della vita della morte
strana, stranissima sorte - Garibaldi
mi chiamavi - e proprio in chiesa
ti hanno portato, uno solo dei tuoi figli
non è entrato, cocciuto in un silenzio
orfano d’ascolto e di riposo … il solo
a capire che forse un po’ stronzo eri
ma libero, fra tanta ottusità, e
se mai c’è Dio, al suo cospetto
senza vanità


 (da “Manuale d’insonnia”, 2004)

Gli elementi del diluvio

 

Poi venne il diluvio dei corpi. Il seme dell'universo. La terra franava sotto i piedi, tutto si allagava dal basso. Solo il buio si fece terra del sogno. Ogni cosa fu la farfalla di un giorno. L'onda specchiava il tradimento e fece di ogni parola un gesto. Così piovve dal buio e marcirono foglie nelle stanze - ha finestre disabitate tutto quello che ci riguarda -. Poi venne l'alba senza pazienza. La luce senza ombre delle sale operatorie. E quell'uomo si edificò fra costola e costola case di dolore, giardini dello sgomento. La paura cadde dalla sua fronte come neve nera. E dal fango sbocciarono colombi - riemersero colombi dal buio della terra -. Non dal cielo ma dall'abisso, non dall'altissimo ma dal profondo desiderò l'immensa madre. Nel petto un rumore di tortore è quanto resta dell'antica bestia. 


(da “Il bambino perfetto”, 2008)

Porto Corsini

 

Fai conto che io sia sempre più lontano dal fischio delle navi e dalla tempesta d'inverno che sbatte nel porto - la nave russa di chiglia rossa e nera non ci rappresenta - e che quanto si poteva insultare e scordare stia come veleno nella metà dell'angelo esposta. E' questo che intendevi dire maledicendo sotto di me il sudore nella bocca? Che fiumi si sono aperti nel tuo corpo? Ho visto cani uscire da noi nel silenzio dell'ombra, non la cicatrice sulla scapola, non il fulgore di una vera maledizione ma il tè del mattino, i tassì di un altro pianeta, il cielo abbassarsi fino alla tua impronta sul letto. Nella carne cruda della tua ferita spossavo le penombre dello sguardo. La bambina che ci sorride per strada è il riflesso dei passi  - la figlia crocifissa –


(da Taccuino del sud”, di prossima pubblicazione)

Eva Yerbabuena


                                                        A Valentina

Mi chiedi se posso … fare cosa?
dire se il corpo piange un buio
che spacca in cuori il canto?
pioverà la notte, ma intanto
questa donna è un ventaglio
che batte il suo alfabeto
sui fianchi del pianeta – o nella sera il taglio
                                       e sangue la sua seta
                                       se le tuona in petto
                                       chissà che mare –
ombra che dalla terra stacca
e prende a ballare – colomba
di duende – che non sa riposare
o l’anima che dal nero sorge – così dev’essere
                                                 sapersi tempo senza
                                                 precauzione  e il seno 
                                                 sporge a un suo balcone
ideale di fame, di miniera, di gioia
furibonda … da giovane cane
o nera onda “ed ecco il mio esercito
di palmas e di bicchieri” – in marcia nel buio dei misteri
                                           che batte batte battte la paura
                                           e la disdetta di uno sconosciuto
                                           ieri – o segni di carbone
accesi a ogni passo nella notte
arsa dal mattino – smarriti come a un sogno
gli occhi di un bambino – perché
qui ammala la perfezione e si dispera in devozione
                                         - qui si fanno insulto silenzio
                                         e redenzione e solo guarisce in pianto
                                         la sua passione il canto – 
e sta come in uno specchio
l’arcana pena e accoglie
fiori e frutti nella gonna
che avvelena – farfalla o mariposa che rapisce
                         l’invisibile incontro della sposa
                         santa con l’impossibile che tace
                         e canta – e no, io non posso …
la perfezione non la so davvero
raccontare, tu meglio di me
lo sai e fai, che per amore
ti sei lasciata raccontare. 


(da “La costellazione delle altalene”, di prossima pubblicazione)