Francesca Serragnoli

(Bologna 1972) Si è laureata in Lettere Moderne e in Scienze Religiose. Ha pubblicato le raccolte Il fianco dove appoggiare un figlio (Bologna 2003, nuova ed. Raffaelli Ed. 2012), Il rubino del martedì (Raffaelli Ed. 2010) e Aprile di là (LietoColle – collana Pordenonelegge, 2016), La quasi notte (MC, Milano, 2020). E’ stata tradotta in varie lingue, suoi testi sono apparsi in varie antologie estere e in volume in Argentina, Spagna e in Romania.

Foto di Daniele Ferroni

(Non mi lasciare nel traffico)

 

Non mi lasciare nel traffico
nel buio sordo di un attimo 
quando non ti volti più 
e caschi fra i rami 
come un tramonto colpito
nel petto da uno sparo
non lasciami andare sotto i portici
che non hanno braccia 
non farmi credere che la piazza
sia più bella dei tuoi occhi
che i gradini siano le tue ginocchia.


Da "Il rubino del martedì" (Raffaelli Editore 2010)

(C'è chi...)

 

C’è chi
quando è contento
lava anche tutti i piatti
e ci sta tutta la sera
girato di schiena
sul lavello
perché un sorso di felicità
muove tutto il corpo
e ognuno balla come sa.
La gioia è un ospite 
che accende il ridere 
come si accende un cerino nella notte.
Anche gli astronauti si voltano.


Da "Il rubino del martedì" (Raffaelli Editore 2010)

(Volevo che la tua notte)


Volevo che la tua notte
rimanesse con la mia
che tu sporgessi piano dal lenzuolo
come un’alba che rimane continuamente
il primo gesto 
di luce nel mondo.

Avrei raccolto da terra
il sole che ti cade dal viso
da quel sorriso eroso dal vento
che scende a picco sul mare.

Nei tuoi occhi andavano e venivano
le rondini, per posarsi
come quando le palpebre fanno 
quel rumore di ali che si aprono.

Volava via invece il tuo profumo
sepolto nei luoghi
che solo il cane 
che abbaia al vento conosce.

Così ti penso
una serata blu 
che stringe gli occhi fino a sparire
e subito bianca 
una luna a cinque dita
che mi tiene il mento
e mi guarda.



Da “Il rubino del martedì” (Raffaelli Editore 2010)

(L’alba è una donna)

 

L’alba è una donna
che s’infila le calze lentamente
come sapesse di essere guardata.
La luce batte 
sugli zoccoli degli uccelli
è un grido che non cade
nel cielo, nel corridoio di una casa
è una madre chiamata
entra in camera, ti copre
le gambe le spalle
ti sveglia e se ne va
scuotendo il muro ballando 
biondissima alla Marilyn Monroe.

Ti volti appena nato
come se niente fosse accaduto
i tuoi occhi sono così blu
da ingannare i fiori 
il loro andare ogni mattina incontro al cielo
mentre il giorno sembra 
mio nonno che fa un cenno con la mano
come dicesse vieni e sorride.

A G.



Da “Il rubino del martedì” (Raffaelli Editore 2010)

(E' sempre poco il tempo)


E’ sempre poco il tempo 
per guardare le stelle
di ora in ora le sento cedere come truppe 
stanche intorno ai fuochi. 
E’ il tempo del fucile spento 
la canna fredda tocca il mento
tengo il brivido, le mani in alto
il viso è un bambino scalzo
gli occhi come fionde tirano un sasso
non si sente il tonfo di niente
non fucilare il mio guardare
dov’è l’identità infinita?
Il nome che spacca la vetrata della vita?
Il lago specchia me ondulata
imposte rotte sbattono parole vecchie.
Il cielo non è un bar per gente sola
ordino per te la pioggia
e Gesù fra i rami dell’acqua
come un puscher ci guarda
con la roba che spezza la morte.



Da "Il rubino del martedì" (Raffaelli Editore 2010)

(Cerco qualcuno)

 

Cerco qualcuno
con la faccia tiepida
la cui miseria umana stia ferma
su questo tavolo di legno 
come la mia.

Vorrei le mani di mia nonna
con un velo di pelle a novant’anni 
tirava l’acqua
da un pozzo profondo

ricordo i suoi occhi giganti
sollevarsi dietro le lenti.

Quello era un davanzale
da cui ora mi sporgo
come un filo di bava nell’aria
che attende che una mano lo centri.



Da “Il fianco dove appoggiare un figlio” (Bologna, 2003)

(Svaligiami con cura)

 

Svaligiami con cura
le cinghie aprono farfalle
scendi a rovistare
fra topi e perle vecchie
apri le noci
sono vino fermo e ascolto. 

Occorre poco raggio
per fare taglio
entrarmi accanto
visitare. 
Entra la sera 
sale un bisturi lento
domani il vento 
le siepi faranno calce, stordiranno i cani
cadranno attese da filari.

La terra sa
quel che accade 
a un fiore.



Da "Il fianco dove appoggiare un figlio" (Bologna, 2003)

(Luccica come una gabbia il mio futuro)


                                               Che farai, Dio, se muoio?
                                                R. M. Rilke


Luccica come una gabbia il mio futuro
è ritornato mare calvo   
l’orizzonte è un bisturi profondo
piega il ferro della schiena.

Sott’acqua la confusione diventa impazzimento
muovo il mio corpo
rompo il mio corpo
come un figlio
non so tenere la testa
occhi salati
fili scoperti in faccia.

Se non fosse che vivo ancora
ogni attimo aspettando
lascerei cadere il sangue torturato 
nel mare bocca di lupo.

Le stelle sono i suoi occhi gialli
e non è nemmeno la feroce spina del suo pelo
anche l’alga leggera esce dalle profondità
ed è una sorgente tutta sparsa
dai pori entrano ed escono le vele dei peccati.

La mia vita è anche questo squarcio
ho un cuore spaventato
penso ai tuoi capelli bagnati
alla pioggia dei suoi occhi
che ti corre nella schiena.



Da “Il fianco dove appoggiare un figlio” (Bologna, 2003)

(Ci sono madri vecchie)

 

Ci sono madri vecchie
che hanno urlato
posato piatti, steso panni.
Ora stanno accanto
nel seggiolino di fianco al figlio
al nipote scalmanato.
Parlano di come va il tempo
ridono appena. 
Hanno solitamente gambe gonfie
e camicie colorate
nella borsa tengono 
occhiali da vicino
caramelle da succhiare, un fazzoletto.

Loro sanno
che ogni sera
Dio le guarda
ma continuano
con la spugna in mano
a pulire perfettamente il tavolo
fino a far ingelosire la luce.



Da “Il fianco dove appoggiare un figlio” (Bologna, 2003)

(Ancora mi vesto)

 

Ancora mi vesto
lego i lacci al mattino
stringo.
Alzo la tapparella
la luce è un biscotto.
Esco ed ecco il mio giorno
cerchiato in un quaderno.
Preferisco camminare.

Capita che ritorno al buio
se il tuo naso punge nel letto
muovo le mani per cercarlo
e mi ferisco
come nelle pazzie enormi.
Batto la testa nel fuoco
guarda che viso
sono trent’anni quasi
gratuitamente ad agosto.

Sono un seme che rotola
cerco l’incarnamento, ridere
verso di me le mani di una madre
che mi solleva dalla culla.
Ma non si può essere
attraenti solo nel pianto.



Da "Il fianco dove appoggiare un figlio" (Bologna, 2003)

(Quando ero bambina)

 

Quando ero bambina
aprivo la finestra
sporgevo
volevo essere la rosa di qualcuno.
Nell’incavo dell’occhio l’acqua
intingi il dito, dicevano
portalo alla fronte
il triciclo della croce.
Un giorno da questa finestra
cadrà la mia vita
un tonfo lieve di palpebre
la bocca aperta
come alla prima comunione.

 

Da "La quasi notte" (MC Milano 2020)

(Ci sono vite magiche)

 

Ci sono vite magiche
vestite d’impermeabile nero
capelli a riporto
orfane di cene
di bicchieri che cozzano

(non è maleodorante pietà come stile di vita)
in quei monotoni passi che vanno all’altare
quella moneta in bocca, caritas
l’uomo tranquillo che gli pende l’occhio a terra
come ramo vivo al peso del suo frutto
in quella scia ospitale, in quel carro
quante disperazioni sono salite
la misericordia dell’uomo di niente
l’uomo che ti volti ed è lì
seduto sulla panchina.

 

Da "La quasi notte" (MC Milano 2020)

(Perché non desiderare)

 

Perché non desiderare
che le cose belle rimangano,
che la farfalla non cada
di sera obliqua sul fiore
o la sera cada sulla farfalla
come una tegola spezzata.

 

Da "La quasi notte" (MC Milano 2020)