Alberto Bertoni (Modena 1955) è autore – in poesia - dei libri Lettere stagionali (1996, nota di Giovanni Giudici); Tatì (1999, omaggio in versi di Gianni D’Elia); Il catalogo è questo. Poesie 1978-2000 (2000, intervento di Roberto Barbolini); Le cose dopo (2003, postfazione di Andrea Battistini); Ho visto perdere Varenne (2006, prefazione di Niva Lorenzini); Ricordi di Alzheimer (2008, con una lettera in versi pavanesi di Francesco Guccini, e 2012); Il letto vuoto (2012) e Traversate (2014, prefazione di Paolo Valesio). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, francese, russo e ceco, mentre in spagnolo ha pubblicato l’antologia El guardián del lugar (2012, con un saggio di Pier Damiano Ori).
Professore di Letteratura italiana contemporanea e di Prosa e generi narrativi del Novecento nell’Università di Bologna, dirige per Book Editore le collane di poesia “Fuoricasa” e “Quaderni di Fuoricasa”, è consulente scientifico del “PoesiaFestival” delle Terre dei Castelli attorno a Modena e membro di alcune giurie di premi letterari. Dal 2008 al 2010 - insieme con Biancamaria Frabotta – ha curato il Diario critico dell’Almanacco dello Specchio Mondadori.
Sul piano saggistico è autore e curatore di diversi articoli e libri, tra cui i Taccuini 1915-1921 di F.T. Marinetti (1987), Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano (1995, Premio Russo e Premio Croce 1996), La poesia come si legge e come si scrive (2006), il “Meridiano” dei Romanzi di Alberto Bevilacqua, La poesia contemporanea (2012). E’ inoltre autore – con Gian Mario Anselmi – del saggio dedicato alla letteratura dell’Emilia e della Romagna nella Letteratura italiana Einaudi curata da Alberto Asor Rosa (1989).
Forse sono io quell’uomo
rannicchiato in un’auto uguale
che scruta il mio stesso giornale
di programmi e risultati
senza un ricordo di cui essere geloso
Lo scatto di trotto sbilenco
questo cuore a riposo
da Il Sosia
Mio bisnonno si chiamava Geminiano
come un patrono leggendario
di lui non esistono foto
faceva il commesso, beveva molto
A-m ciàm Zemiàn, a sûn
al fiôl d’un pòver sugamàn
- Mi chiamo Geminiano, sono
figlio di un asciugamano povero
da Il Sosia
Oggi, primo giorno di marzo,
apprendo da un muro che è morto
Alberto Sighinolfi di anni 82
accompagnato nel viaggio misterioso
dall’affetto dei cari, la moglie
il cui nome non ricordo
e i figli Serse e Sergio
assieme a qualche altro
parente sparso
Alberto Sighinolfi anch’io
mi sarei chiamato
fossi nato spagnolo,
avessi scelto il cognome materno
senza obbligo alcuno né impegno
a morire ad anni 82
però da nessun figlio accompagnato
né da una moglie tantomeno
lì solo, lasciato sul mortorio
a fermare un passante
ricordargli chi ero
parlare con lui del tempo
da Il Sosia
Li voleva vicini a casa, mio padre
i campi del calcio minore
e non sopportava la pioggia
nemmeno di lontano, nemmeno l’odore
Preferiva i rimbalzi nella polvere
che a due passi dalle aree ingannavano il portiere
- quasi una colpa per lui
respingere di piede
Al suo fianco, scommettevo sull’errore,
l’inciampo fra traiettoria e pallone
perché anch’io sarei stato portiere
ma non un buon portiere
inerme davanti alla catastrofe, la rete
E troppo magro, un chiodo
nel vuoto delle porte
il naso all’aria, la certezza dell’errore
da Il Sosia
Mi sveglio stamattina
e ho la faccia di un gallese
il ciuffo a banana, la carnagione rossa
ma quando apro bocca
non so neanche quel po’ d’inglese
sì e no un gorgoglio senza idioma
l’anima ridotta
a fumo sottoterra
Anche il piede destro non funziona
quasi subito sbanda, si accartoccia
da due giorni promette pioggia
Con la birra non va meglio
solo un baffo di schiuma sulla bocca
che ogni sguardo blocca
Va bene svegliarsi presto, avere
toccato il letto da poco più di un’ora
ma cos’è questo aroma di torba
il pavimento nero?
da Il Sosia
Dici che sono una nave, quando dormo
una mole in movimento verso il porto
frastuono di stive e di ricordi
opachi come pesci il giorno dopo
Sono il nocchiero e il nostromo
del fuoco orizzontale di una rotta
invado la voragine del molo
dove curva la luna
da Il Sosia
Per me che sono miope
e vedo non vedo
il punto di rottura
la faglia più nascosta
leggera è in agguato una vertigine
a raccogliere la luce rasoterra
il nero della notte come avanza
quel peso della sosta
Il digiuno, allora, è forte
la chiglia del mio sguardo
l’immagini sventrata
nessuno scivola o piange
e a galla rimane
una sillaba sola
da Il Sosia
Le cose dal vero mi fanno paura
mi stanano in crepe o appigli di memoria
Le cose che guardo
scoprendone i nervi
e quelle che sfioro coi denti
come case catturano la luce
per meglio scomporre la grana perlacea
l’ordito di polvere e foglie
Così mi annienti, se provo
a deliziarti di cronache minute
a dirti come sei viva
in questa mezzanotte di vento
in cui non ammetti nemmeno
la mia ombra alla tua bocca
alle parole che assediano il respiro
Sì e no una voglia
domenicale accende il finale
forse una nuvola resiste
dei pollini allo spigolo del viso
da Il Sosia
per un ricordo di Antonio Delfini
Corri e taci e pensa alla Speranza,
solo alla Speranza,
la Chimera non è, non sarà…
Sei tu, eppure non sei tu
molto più grande, più grosso
sembri una statua scolpita nell’osso
di questo profondissimo muro
però senza dubbio sei tu
il perduto di oggi
che vaghi nel tuo ippodromo
Sotto la pelle un lievissimo alone
blu, come il resto della luce
perché tutto il resto
quest’anno è venuto troppo presto
la neve in ottobre sul Cimone
e il primo sottozero
ma dopo più niente
solo forse un colore, un odore di ruggine
attorno
E in te, come sempre
troppo presto è venuta
quest’ansia implacabile di corsa
in mezzo agli altri
che ti spingono ti premono
ti vogliono sempre più veloce
sempre più ladrone di te stesso
Ma tu vorresti invece un atrio vuoto,
un qualunque corridoio
dove fare sosta e tacere,
osservare e ancora tacere
impietrito nel foro del cunicolo,
accucciato, impotente, bloccato di botto
Poca roba, come sempre
la casa di notte
una bolla d’arancione nello scuro
a tenerti ancorato
al tuo pavimento mezzo sporco
al tran tran del mal di fegato nascosto
e negato lì nel cuore dell’andito
con tutte le conseguenti assenze, lentezze, voglie
di volo fino al sole
la sicurezza della morte
nel guscio di lenzuola scomposte
come pozze di fango
e la lingua della gatta
a caccia di una cimice
sulle persiane vuote
da Il Sosia
Sono una Persona
Liquida e sola
Ostaggio di una lingua nuova
Larga, nasale, ventosa
E come lei, Pessoa
Sono una Persona
Nascosta nella storta
Luce di Lisbona
A sperare che piova
da Il Sosia
per Ezio Raimondi, in memoriam
Bel tipo il cinquantenne che compare
abbronzato in dicembre
si staglia nello specchio
e io lo riconosco dal berretto
grigiochiaro sulle ventitré
tutt’uno con la piega
amara dello sguardo
quasi all’imbocco della Montagnola
dove per vendere lamette (mi racconta)
un certo Biavati dava lezioni di retorica
cantava per voce sola
Oggi piove addosso ogni cosa
come goccia noiosa
o come i coriandoli di laurea
implacabili a invaderti le ossa
avvolgerle di carta meraviglia
impacchettarti e via
l’impermeabile tirato fino al mento
mentre scruti l’uomo cane sullo schermo
attorno a quell’ultimo spettacolo
dove tutto è deserto
domenica all’incrocio di via Irnerio
rincasare ricordando il disimpegno
di ogni fisico smilzo
non fosse per la fame illimitata
l’incedere danzante da farfalla
che viene incontro e vibrando trasloca
tutte le nostre emanazioni di fantasma
cominciata la nuova procedura
Sapersi insieme immobili
semplici e comuni
ora e qui destinati ad altra
incolmabile distanza
da Il Sosia