Annelisa Alleva

Annelisa Alleva è nata a Roma, dove vive. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Mesi (Galleria Centofiorini, 1996), Chi varca questa porta e altre poesie (Il Bulino, 1998), Lettera in forma di sonetto (Il Labirinto, 1998), Astri e sassi (Atelier Arte, 1999), Aria di cerimonia (Galleria Centofiorini, 2000), L’oro ereditato (Il Labirinto, 2002), Istinto e spettri (Jaca Book, 2003), La casa rotta (Jaca Book, 2010, Premio Sandro Penna), Caratteri (Passigli, 2018). Nel 2020 è uscita la raccolta con testo a fronte il inglese Selected poems, con introduzione di Paolo Febbraro (Gradiva Publications - Mount Sinai, NY); mentre è di prossima pubblicazione Dita di vetro, con testo a fronte in inglese, introduzione di Daniele Piccini per Aragno Editore. Sue poesie sono presenti in antologia e tradotte in diverse lingue. Ha tradotto classici dal russo (Anna Karenina, Mondadori, 1997; i Romanzi e racconti di Puškin, Garzanti, 1990) e curato un’antologia di poeti russi contemporanei (Poeti russi oggi, Libri Scheiwiller, 2008). Nel 2013 è uscita la sua raccolta di saggi e ricordi: Lo spettacolo della memoria, (Quodlibet). Sue letture in italiano, inglese e russo sono presenti sul sito www.labirintolibri.com
Video di Annelisa Alleva: Roma Poesia; Keats Museum di Dino Ignani; Lettera in forma di sonetto; Letter in the form of a Sonnet; L'oro ereditato; Sonetti dal portoghese di E. B. Browning;
Poe mie Poju moe di Sergej Krasavin; Sulla tomba di Puskin di Sergej Krasavin; Casa delle Letterature con M.I. Gaeta, M.T. Carbone e M. Marchesini di Dino Ignani

Foto di Josif Brodskij

Giugno


La spiga lentamente matura intorno agli occhi,
attesa dal laccio aperto dei sopraccigli.
Sotto, l’espressione la rende ondulata,
come una Q romana incisa su una tabella di marmo.
Le palpebre, simili a petali, s’intrappolano
Nel mazzo prima di cadere. Sulla fronte
Si profilano le scale consunte di un palazzo.
Le guance conservano le tracce di un rematore
spiritoso. Ma le labbra sono a secco sulla spiaggia,
si sta scrostando la vernice. Nelle insenature
del naso il vento soffia, il paesaggio tutto
s’incupisce; si rabbuiano i capelli, sul collo
restano i segni degli anelli stretti.
Solo per le pupille è estate.


Da Mesi (1996)

(chi varca questa porta)

 

Chi varca questa porta
è reciso dalla terra
come i fiori che porta.
Qui riposa un uomo senza terra.


L’isola ha il colore
del ferro quando invecchia,
delle efelidi, piccole primavere,
e il sapore del sangue in bocca.


Qui le maree placheranno
la sua sete. Il tiepido vento
gli asciugherà il sudore. Frusceranno
i rami quando il sole sarà spento.


Sulla lapide picchieranno come baci
le pigne tonde cadute dai cipressi.
Gli uccelli sosteranno sulla croce.
E noi non saremo più gli stessi.


Da Chi varca questa porta e altre poesie (1998)

(un mantello di tela grossa)


Un mantello di tela grossa, 
più grande di tante misure.
Io v’inciampo dentro per starti al passo,
e mentre mi rialzo già ti ho perso. 
Qualche volta ti fermi in un cespuglio,
e se mi avvicino gridi: “Vattene!”.
Non ho il tempo di spiarti, 
né di guardare oltre il bosco, 
né il coraggio di chiederti 
dove mai siamo diretti.
So soltanto che per me
il tuo passo è troppo svelto.
Perché ti vengo appresso?
E’ la tua porpora polverosa che mi attira.


Da Lettera in forma di sonetto (1998)

(è arrivata la signora)


E’ arrivata la signora, ma la chiave
le sfugge due volte giù dal muro,
e cadendo produce un tintinnio sonoro.
Come nella fiaba di Perrault, a te, Isabella
Morra, era proibito usare solo una chiave,
penetrare solo in una certa stanza,
pena: il sangue. Invece schiudesti l’amore.
Lei, nella fiaba, fu salvata dai fratelli;
tu in loro, dai nomi shakespeariani,
trovasti i tuoi guardiani efferati.
Invocavi il padre, il suo cavallo o battello,
ma lui non ti rispose. Non accorse, non usò
da messo il polverone degli zoccoli ferrati.
Mai capisti che era lui il tuo Barbablù.


Da Astri e sassi (1999)

(ti svegliavi di soprassalto)


Ti svegliavi di soprassalto, in un sogno d’inganno.
Nell’ufficio contabile al piano di sopra
la donna delle pulizie spostava i mobili con discrezione,
quasi un marito che si raschi la gola in bagno.
Fuori la città si spostava a fatica: il coro dei clacson
ricordava il lamento di un uccello ferito;
tu, boccia nell’ultimo residuo di slancio,
rotolavi nella parte vuota del letto. E quando uscivi
percorrevi ogni giorno la stessa strada, a forma di coltello.


Da Aria di cerimonia (2000)

(dalla strada)


Dalla strada, la pioggia, sempre tornavo a te,
ma tu mi lasciavi alla porta.
Allora cominciai a pensare a un'altra casa.
Come la tua, però, doveva avere il ventre ampio,
con tante tasche, da poter contenere sigarette,
fogli, penna, soldi nella stessa giacca.
La biancheria, dall'antro aperto della bocca,
doveva essere stata da tempo ritirata,
e quella rimasta era ingiallita di fumo.
Avrei trovato altre poltrone morbide
sulle quali abbandonarmi di rado,
ma sempre dovevano essere più stanche
delle mie ginocchia. A un nuovo attaccapanni
avrei proteso le braccia, ma doveva essere alto
quanto basta a stendermi tutta, e saldo tanto
da resistere ai miei salti. Le finestre dovevano
guardare lontano, e restituire il cielo con l'azzurro.
Le tende pesanti. La luce sarebbe passata dalle mani,
dalla pelle trasparente. Così simile a te
doveva essere il mio amore, che ancora
una volta tornai a te, senza le chiavi.


Da qui, dove le porte hanno pomi e non maniglie,
il presente è fuggito, riducendo al silenzio,
con le spalle al muro, l'applauso aperto della gioia.
Fra i libri scorrono i finestrini del treno
illuminati, e le poltrone – non una parola;
chiuse le note, i cuscini non ancora sprimacciati.
L’orologio ha smarrito le lancette, il binocolo
ingrandisce le uova degli stucchi sul soffitto.
Prima che il mare avanzi andrò in cerca
di conchiglie, uniche a custodire nell’interno
la bianca cavità delle tue braccia. Sono
piccole schegge; ne serviranno due tasche
per ricomporre in un mosaico la tua eco.


Da L’oro ereditato (2002)

Specchio


Specchio mio bello... Ti dico picche, ti dico picche.
Non vedi che soffro? E io che ti posso offrire?
Fammi passare dalla tua parte.       Non posso. Immaginalo, che è 
meglio. 
Allora attraversa tu la lastra.Uh, con questo freddo...
Muoviti!         Accosta le labbra, piuttosto.
E' ghiaccio il vetro. Chi sei?Sono l’argento che ti fa apparire.
Piango.         Rido.
Tu ridi mentre... Io voglio che tu rida.
Ridammi indietro gli anni.                Non vedi come sono vecchio?
Mio bello specchio... Ti dico picche, ti dico picche.
Allora io ti spacco.         Fallo pure, per ripicca.
S'è fatto rugoso l'argento
alle intemperie. Grattalo via se vuoi, gatta.
Tu mi restituisci il corpo,
ma che me ne faccio da sola?        La sola lontananza è elegante...
Vieni qui. Io non obbedisco alle tue mosse.
E io neppure.         Io ti adoro. Scacco matto.
In nome di Dio, in nome... Io ti adoro.
Giura: morrò se mento. Morrò se mento.
Ora sono sicura che morrai. Che dici?
Detesto quest'incastro di scongiuri
fra galeotti in galera.  Io...
Bello specchio mio... Ti dico picche, ti dico picche.
Senti la gazza appollaiata sulle dita,
il suo cicaleccio nella neve di schiuma
mentre lavo le tazze? Il lamento
del re mago decapitato da una foglia
di palma?          Folle ragazza!
Allora, mi inviti?         Ho bisogno del mio antro.
Chi fisserò al brindisi di mezzanotte? (Silenzio)
Se tu mi perdessi dove troveresti
la forza di gridare all'oste: "Coprilo
con uno straccio!", quando entri?         E tu, ti vedresti?
Hai perso i riflessi.              E tu, ai capelli?
Mio specchio bello...      Ti dico picche.
Dammi un cuori.      Eccoti un asso.
Tu m'inganni.             Come tutti.
Tu mi tormenti.      La felicità non esiste.
Sì, il biberon sbattuto a terra
dal neonato, che sbava latte
sul tappeto. I versi.
Presto sarò troppo vecchia. Non vedi la pioggia come mi ha 
                                                        ridotto?
Coccio della malora. Come ti permetti?
Padrone che conserva il fiore
in glicerina. Voglio acqua! Se te la dessi morresti prima.
Non m'importa, ho sete!                  La parete del vaso si farebbe 
                                                        scivolosa, imputridiresti.
Voglio acqua e morire. 
Fammi consumare. 
Odio le celle frigorifere. (Silenzio).
Dammi un sette. Briscola, quaterna.
Vivi del mio desiderio, tu ridi,
voglio un contratto.         Io sono il tuo specchio.

 

Da Istinto e spettri (2003)

(qualcuno non mi vuole bene)


Qualcuno non mi vuole bene.
Qualcuno guaisce come le forbicine
che recidono i capelli con il lendine.
Qualcuno teme, nella gara,
di perdere fama e seta con la fine.
Un udiente, un Gulliver pomposo,
panciuto, di strutto, di stratto, pampìno,
con un perizoma maculato sui fianchi,
le mani sudaticce e il berretto
di Albertone, gigante dei lilliborghesi,
piccoli piccoli, piccole morti, dolori,
minuscoli affanni, lavori, daffari,
io ti sbudello, ti sgolo, ti spetto, ti spello,
ti scorporo, ti sfronto, ti sbocco, ti scollo,
ti sbraccio, ti spolmono, ti sfegato,
ti sgomito, ti spalmo, ti sgambo, ti scervello,
ti scapiglio, ti scoro, ti smento, ti spancio,
ti spiedo, ti scoscio, ti slabbro, ti sveno,
tiro la somma per la tua gola.
Io scelgo dalla stessa tastiera le lettere
per comporre parole buone e sconvenienti.
Sogno di essere a New York, 
la città dei coniglietti, tanti,
a scattare sull’attenti di metallo
all’ingresso degli immensi magazzini.
Osservo davanti a un hotel
i passanti che scorrono il menu
a voce alta, qualcuno entra dentro.
Io resto fuori, contro il muro,
come fossi entrata nei panni 
sporchi di un personaggio di Giovanna.
Qualcuno suona gli stessi pezzi 
al piano di sopra, un sosia virtuoso.
Lei origlia con orecchini di ciglia.
La piccola stella della serratura
senza chiave dentro la porta scura
del firmamento che serra al tavolo chi studia.
Devo resistere, come un cavallo.
Vince quello che corre fino all’ultimo girone,
quello che non cade prima.
Spegni il giorno per vederne la luce.
Fai scuro il back ground. E vedrai
tante gomme americane sull’asfalto,
più o meno lucenti a seconda del numero di suole.
La salvezza è nel tuo star fissa.


Da La casa rotta (2010)

(l’ossessione si sfoga e non si sfoga)


L’ossessione si sfoga e non si sfoga.
Vuole mangiare sola. Giro la testa e mi gira.
Pois di coriandoli coprono escrementi,
bucce, cicche, macchie.
Lui telefona dallo Stato,
lui ti manda tante melettroniche in regalo,
lui te ne tira una fruttiera intera,
qui, status quo, qua, hic, et nunc, 
viva Che Karenin, cioè, vero che, ecc. ecc., etciù.
Desiré, tanti no tante coltellate.
Le belle nei casolari abbandonati,
attirate da tante mani sudate a mangiarsi manforte.
I giornali si prendono l’indomani il bianco e nero,
il rosso le perizie legali della morte.
Il grido del no il giorno di San Valentino.
La vecchia attrice vive ancora.
Si aggira senza calze e senza barboncino,
col bavero della pelliccia premuto su un dente.
Figlia è fiore e figlia è pietra.
Le scrimino i capelli come cercassi
una parola sul dizionario.
Poi guardo un piatto di spaghetti. Tutto è sparso.
Quelle con poco tetto sono le case del ricatto.


Da La casa rotta (2010)