di Franco Sicuro (Università degli Studi di Bari, Aldo Moro)
Pubblicato il 08 marzo 2025
La sentenza sul caso Priolo (n. 105 del 2024) costituisce il primo pronunciamento del giudice delle leggi sulla valenza assiologica assunta dai nuovi articoli 9 e 41 Cost.
Con la revisione costituzionale del 2022 il legislatore ha elevato la tutela dell’ambiente a principio costituzionale espresso, ponendolo a fondamento – giacché «Principio fondamentale» – della stessa costituzione economica. In quanto parametro interpretativo del complessivo ordito costituzionale, il principio fondamentale di tutela dell’ambiente non può, infatti, che conformare – in termini di doverosità – l’intero assetto economico-normativo di una Repubblica che si vorrebbe (ri-)fondare sull’ambiente, l’attività economica pubblica e privata trovando nella conservazione degli equilibri ecologici (ecosistemi e biodiversità) non solo un limite negativo, ma il fine cui la legge può indirizzare la stessa produzione economica.
Nel revisionare l’art. 41, commi 2 e 3, Cost., il legislatore costituzionale è sembrato allora, da un lato, voler riallineare l’ordinamento giuridico italiano agli ambiziosi obiettivi (almeno originariamente) incorporati nel Green Deal europeo e, dall’altro, scongiurare l’esito interpretativo cui era giunta la Corte costituzionale nella sentenza n. 85 del 2013 sul caso Ilva. In quell’occasione, infatti, la volontà di evitare la prevalenza tirannica del diritto alla salubrità dell’ambiente sulla tutela dei livelli occupazionali aveva condotto il giudice delle leggi ad escludere l’illegittimità costituzionale dei Decreti-Legge adottati dal Governo, con ciò, tuttavia, rendendo di fatto tiranno il diritto alla continuità della produzione economica, pur se altamente inquinante. Circostanza, questa, che ha portato la Corte di Giustizia dell’Unione Europea a condannare – ancora nel giugno 2024, soltanto qualche giorno dopo la pubblicazione della sentenza sul caso Priolo – lo Stato italiano e l’Ilva S.p.A. per non aver concretamente attuato il piano di risanamento predisposto e per l’astrattezza del procedimento per il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale, oltre che per l’utilizzo continuativo di strumenti emergenziali per governare problematiche ormai strutturali.
È in questo scenario multilivello, dunque, in cui la tutela dell’ambiente s’intreccia inevitabilmente con i principi ambientali e con le pronunce delle Corti europee, che legislatore e giudici sono chiamati a dare attuazione, nelle rispettive sfere di competenza, ai rinnovati articoli 9 e 41 Cost. Sino ad oggi, però, il significato costituzionale della revisione del 2022 appare largamente inattuato, soprattutto per quel che attiene al formante legislativo. Ancora nel 2024, infatti, la legge di bilancio è stata utilizzata per inserirvi un emendamento teso ad ampliare le (già non ristrette) possibilità di esercizio dell’attività venatoria: e tanto, in palese distonia con il contenuto dell’art. 9, comma 3 Cost., che affida alla legge – evidentemente non di bilancio – la tutela degli animali. Con riferimento precipuo all’art. 41 Cost., poi, oltre a lasciare sostanzialmente inattuato il comma 3 sulla riprogrammazione a fini sociali e ambientali, nel D.L. n. 2/2023 da cui ha avuto origine il caso Priolo il legislatore ha financo omesso qualsiasi riferimento ai rinnovati limiti ambientali all’intrapresa economica (ossia, al nuovo art. 41, comma 2 Cost.), a dimostrazione dell’ancora saldo fondamento della costituzione materiale su predominanti interessi economico-produttivi.
Sino alla pronuncia sul caso Priolo, era stato soprattutto il Consiglio di Stato a fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata del rinnovato articolo 41 Cost., inserendolo nelle consolidate trame della teoria del bilanciamento tra valori (rectius, principi) costituzionali. I giudici di Palazzo Spada hanno infatti specificato che i limiti alla libertà di iniziativa economica non possono travalicare i rigidi confini del principio di proporzionalità (Cons. St., sez. II, sent. 29 aprile 2024, n. 3915), sebbene, «nell’accostare dialetticamente la tutela dell’ambiente con il valore dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.)», la legge cost. n. 1 del 2022 segni «il superamento del bilanciamento tra valori contrapposti all’insegna di una nuova assiologia compositiva» (sentenza n. 8167 del 2024) che impone l’integrazione dello sviluppo economico con la necessità di preservare l’ambiente (sentenza n. 2255 del 7 marzo del 2024).
E che dai rinnovati articoli 9 e 41 Cost. derivi una «nuova valenza assiologica» sembra confermato anche dalla sentenza n. 105 del 2024 della Corte costituzionale, la quale, almeno per il momento, non è sembrata tuttavia voler andare oltre la formulazione di un monito, rivolto primariamente al legislatore, affinché dia concreta e coerente attuazione al Principio fondamentale di tutela dell’ambiente. Il giudice delle leggi non manca, infatti, di sottolineare che la revisione costituzionale del 2022 costituisce un vero e proprio «mutamento (…) nella stessa formulazione dei parametri costituzionali sulla base dei quali deve essere condotto lo scrutinio» di costituzionalità. Il significato di tale «mutamento» è ben rappresentato dal riferimento esplicito ad un «mandato di tutela dell’ambiente, inteso come bene unitario, comprensivo delle sue specifiche declinazioni rappresentate dalla tutela della biodiversità e degli ecosistemi, ma riconosciuto in via autonoma rispetto al paesaggio e alla salute umana, per quanto ad essi naturalmente connesso» (cons. in dir. n. 5.1.2). I nuovi articoli 9 e 41 Cost. fungerebbero, dunque, da matrice assiologica di un mandato costituzionale che «vincola (…) esplicitamente le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa», fungendo altresì da «limite» per tutte le attività pubbliche e private che possano recare «danno» (art. 41, c. 2 Cost.) alla salute e all’ambiente.
Certo, come hanno sottolineato i primi commentatori della sentenza, le ridette argomentazioni sul significato complessivo della revisione costituzionale del 2022, al pari dell’esteso richiamo al principio della partecipazione effettiva dei cittadini al processo decisionale in materia ambientale sancito dalle norme europee e dalla Convenzione di Aarhus, apparirebbero di fatto ininfluenti sul dispositivo della sentenza. Se questo è vero, deve tuttavia rimarcarsi che, nel richiamare – in modo piuttosto inatteso – una terminologia tipica del costituzionalismo latino-americano (lì dove, ormai da anni, si tenta di ragionare intorno all’esistenza di un mandato ecologico) all’interno di un ordinamento giuridico-costituzionale ancorato al principio della libertà del mandato parlamentare (art. 67 Cost.), affermare – come fa il giudice delle leggi – che le pubbliche istituzioni sono vincolate ad attuare un mandato di tutela dell’ambiente appare costituire un fermo ed esplicito richiamo al legislatore a non degradare la Costituzione a mero programma politico, oltre che a non ridurre l’«interesse delle future generazioni» a mera formula di stile.
La centralità dei principi della democrazia rappresentativa ha tuttavia indotto la Consulta a non censurare per esteso le disposizioni oggetto del suo sindacato, in linea con la consolidata giurisprudenza costituzionale sul rispetto della sfera di attribuzione dell’organo parlamentare. Il che si appalesa in termini decisamente più rigidi rispetto a quel che accade in coeve realtà costituzionali europee, in cui, pur senza mettere in discussione la teoria della divisione dei poteri, le Corti (anche costituzionali) non hanno mancato di censurare politiche dei Governi-legislatori disallineate rispetto agli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico e al principio di «non regressione» nella tutela dell’ambiente.
Da ultimo, poi, risolvendo il caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz and others v Switzerland (causa n. 53600/20), la Corte Edu ha dapprima rimarcato che «l’intervento del giudice» non può «rimpiazzare o sostituire l’azione che compete al potere legislativo e al potere esecutivo», per poi sottolineare che «in ogni caso, la democrazia non può essere ridotta alla volontà della maggioranza dell’elettorato e dei rappresentanti eletti, in spregio del principio del rule of law» (§ 412). Sicché, in posizione complementare rispetto al processo democratico-rappresentativo, gli organi giusdicenti nazionali e sovranazionali hanno il compito – prosegue la Corte di Strasburgo – di assicurare il necessario «legal requirements». E tanto, dal momento che, quando la discrezionalità politica incide sull’effettivo godimento dei diritti convenzionali, non si porrebbe più «soltanto una questione di politica, ma anche una questione di diritto che incide sull’interpretazione e sull’applicazione della Convenzione» (§ 450).
La mancata censura del bilanciamento operato dal Governo mediante decreto interministeriale ha indotto il Gip di Siracusa a disapplicare tale atto politico-amministrativo, negando il rilascio dell’autorizzazione. A sua volta, il Governo ha allora azionato il “freno d’emergenza” facendo ricorso al Tribunale di Roma che, peraltro, ha nuovamente sollevato questione di costituzionalità per motivi inerenti alla giurisdizione, lasciando così presagire lungaggini processuali che – proprio come accaduto nel caso Ilva – potrebbero compromettere equilibri ambientali senza, tuttavia, adeguatamente tutelare la qualità della vita e la salute dei cittadini-lavoratori.
Le maggiori perplessità sollevate dal primo pronunciamento della Consulta sulla nuova valenza assiologica degli articoli 9 e 41 Cost. attengono dunque: I) al rischio di limitare eccessivamente le possibilità operative degli organi giusdicenti, riducendoli a meri applicatori della volontà della maggioranza politica; II) disattendere le pronunce della Corte Edu e della CGUE sull’inadeguatezza del procedimento per il rilascio dell’AIA, dalla Consulta nuovamente considerato parametro di legittimità del bilanciamento effettuato dal Governo legislatore; III) conseguentemente, continuare a separare tutela dell’ambiente e tutela della salute, declinati alla stregua di interessi differenziati nonostante le virtualità interpretative dischiuse dal principio One Health e le stesse argomentazioni della CGUE nel caso Ilva, dirette ad incorporare la valutazione del danno sanitario all’interno di quelle del danno ambientale; IV) ridurre il nuovo Principio fondamentale di tutela dell’ambiente a valore, con ciò di fatto ridimensionando la normatività inscritta nella modifica dei Principi fondamentali della Repubblica e rilanciando un’ottica valoriale che, alla fine, finisce sostanzialmente per legittimare la sempiterna prevalenza degli interessi economico-produttivi.
L’attuazione del Principio fondamentale di tutela dell’ambiente è, pertanto, dovere precipuo di tutti gli organi che compongono la Repubblica, intesa non soltanto come Stato-ordinamento (ex art. 114 Cost.) ma nella molteplicità dei soggetti che interpretano la Costituzione e ne garantiscono la concreta applicazione nella molteplicità dei «casi» che costantemente interrogano l’effettività e la validità delle regole che governano l’«ambiente» repubblicano.